Nell’approfondimento odierno l’Avv. Maurizio Lucca analizza una recente sentenza della Corte dei Conti che si occupa di danno erariale per l’assunzione di un dirigente senza laurea.
La sez. I giur. centrale d’Appello, della Corte dei Conti, con la sentenza n. 252 del 1° giugno 2023, riconferma l’esigenza di un titolo di studio per ricoprire l’incarico dirigenziale, la cui mancanza rende del tutta inidonea la prestazione.
Indice dei contenuti
- La vicenda
- Il dipendente pubblico
- Questioni preclusive
- Indipendenza dei giudizi
- Responsabilità erariale
- L’individuazione del titolo
- (Ri)determinazione del danno
- Osservazioni minime
- Note
La vicenda
La questione erariale è riferita alla copertura di tre incarichi dirigenziali (presso distinte Amministrazioni e ruoli, quello oggetto di appello è riferito ad un incarico c.d. 110 (comma 2) del TUEL, dirigente extra organico, assegnato in assenza del titolo) da parte del convenuto, conferiti indebitamente sulla base di un “errore” di valutazione dei titoli, rectius falsa attestazione del possesso del titolo di studio della laurea [1].
La vicenda nasce da un articolo di stampa, dal quale seguiva un’attività d’indagine, correlata alla richiesta della procura penale di rinvio a giudizio per i reati di truffa e peculato, oltreché per il reato di falso per la predisposizione del curriculum vitae con la falsa attestazione di aver conseguito una laurea, funzionale alla copertura del posto dirigenziale.
Distinguendosi nella sua autonomia di responsabilità (quella erariale da quella penale), la Corte conferma il danno erariale (riformulando il quantum).
Viene chiarito il diverso operare del giudicato penale rispetto a quello erariale: i profili fattuali risultano diversi, giacché se il processo penale si è concluso con l’assoluzione per l’insussistenza del fatto, il giudizio erariale verte su un contenuto diverso: la produzione di un titolo falso (il c.d. artificio) che ha indotto in errore la PA, in presenza anche dell’assenza di alternative esperienze professionali in incarichi dirigenziali (richiesti dalla norma regolamentare interna).
Su questo ultimo aspetto, viene sostenuto dalla procura che gli incarichi dell’appellante presso una diversa Amministrazione, di natura fiduciaria non potrebbero essere considerati «posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza».
Il dipendente pubblico
Pretendere di istaurare un rapporto di lavoro pubblico, autocertificando un titolo inesistente, dimostra ab orgine l’insensibilità alla cornice legale posta a presidio di ogni azione amministrativa, visto che l’attività lavorativa di tutti i dipendenti pubblici deve svolgersi in conformità ai principi di onestà, diligenza e legalità, come discendenti dagli articoli 54 e 97 della Costituzione, nonché dall’articolo 13 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ovvero «curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene», nonché assicurando nella propria condotta il rispetto del «dovere di servire esclusivamente la Nazione, di osservare lealmente la Costituzione e le altre leggi e non deve svolgere attività incompatibili con l’anzidetto dovere».
Inevitabilmente, alterare l’equilibrio delle relazioni sin dal momento antecedente, al naturale possesso di un titolo, per ricoprire l’incarico ne mina squisitamente lo status di pubblico dipendente, quell’obbligo di eseguire i compiti assegnati secondo i canoni di lealtà e correttezza richiesti in virtù del trattamento economico ricevuto come corrispettivo, deprezzando la prestazione resa, ma prima ancora l’intimo centro di imputazione di responsabilità, di una serie di valori antitetici alla genuinità di una dichiarazione, elemento indispensabile e presupposto irripetibile del rapporto con una PA: uno spazio pronunciato di un regime giuridico il quale non può riconoscere l’artificio, rectius la falsità, nelle relazioni tra parti (in questo caso, negoziali), quella apparenza sulla sostanza, tipica natura dell’impostore, nella sacralità del dovere di fedeltà.
Questioni preclusive
In prima analisi di giudizio, viene chiarito la distinzione della mancata costituzione di parte civile, nel procedimento penale, rispetto a quello erariale, che non impedisce la prosecuzione nel giudizio contabile (non vi è interferenza), trattandosi di due istituti giuridici diversi con i quali, da un lato, una PA danneggiata fa valere l’azione per il risarcimento del danno subito nel giudizio penale (con la costituzione di parte civile, ex artt. 74 e ss. del c.p.p.), mentre, dall’altro, nel processo contabile, la costituzione della amministrazione danneggiata può avvenire solamente a sostegno delle ragioni della Procura contabile, con un atto di intervento, disciplinato dall’art. 85 del c.g.c.).
In termini diversi, la scelta di non intervenire nel processo penale (ma in quello civile) non esclude l’intervento in quello erariale:
- facoltà esercitabile comunque solo ad adiuvandum delle ragioni di una parte processuale e non motu proprio per ottenere il risarcimento del danno;
- facoltà che, comunque, non esclude l’avvenuta costituzione di parte civile, senza alcun effetto interruttivo permanente.
Indipendenza dei giudizi
Il giudicato penale di assoluzione non determina alcun automatismo rispetto al giudice contabile, dovendo questi valutare caso per caso l’effettivo accertamento contenuto nella statuizione del giudice penale, in quanto l’eventuale liceità riconosciuta dal giudice penale non esclude la illiceità contabile.
Anche la formula assolutoria «perché il fatto non sussiste», ex se non impedisce, nel giudizio erariale, una diversa conformazione della medesima vicenda: non vi è alcun automatismo tra i medesimi fatti materiali: il cono visuale è diverso, dovendo valutare la prospettiva che potrebbero non coincidere: la sentenza penale di assoluzione può fare stato nel giudizio contabile solo quanto alla materialità dei fatti accertati ovvero esclusi, mentre di per sé l’eventuale liceità penale non esclude anche l’illiceità contabile [2].
Responsabilità erariale
In effetti, viene analizzato il giudicato penale e non vengono trovati riscontri in merito ai capi di imputazione relativi al reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, ex art. 483, c.p., chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale in un atto pubblico fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, in riferimento agli artt. 46 e 76 DPR: l’appellante, contrariamente al vero, ha dichiarato di avere conseguito il titolo di studio della laurea (invero, l’interessato era stato condannato, e pende il giudizio in Cassazione).
Appurata l’assenza di esperienza (quinquennale) per ricoprire l’incarico dirigenziale e, alternativamente, l’assenza del diploma di laurea il fatto materiale nella sua essenzialità risulta un impedimento all’accettazione dell’incarico: donde la produzione (attestazione nel curriculum vitae, nonché motivazione per l’elevata professionalità dell’incarico) di un titolo falso (non coincidente con il reato di truffa) non avendolo mai conseguito.
Viene aggiunto, a rafforzare l’assenza dell’esperienza pregressa che la prospettazione del giudice penale, ex art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, per cui sarebbero sufficienti mere esperienze di lavoro presso enti pubblici, operato da detto giudice ai soli fini della esclusione del reato di truffa, non è comunque vincolante per il giudice contabile, che può avvalersi dei diversi parametri normativi sopra descritti.
L’individuazione del titolo
La sentenza fa comprendere che la dichiarazione del titolo di studio sopperiva l’assenza di esperienze pregresse: dal combinato disposto degli artt. 110 del d.lgs. n. 267/2000 e 19 d.lgs. n. 165/2001 si evince la necessità del possesso del titolo di studio della laurea per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato [3].
Questo orientamento trova solare conferma dalla giurisprudenza amministrativa, sia di primo grado che di secondo, la quale ha più volte enunciato il principio della pertinenza del titolo di studio alle funzioni da svolgere: principio che deriva dalle classi in cui sono suddivisi per legge e decreti attuativi i corsi di laurea ai fini del loro valore legale e relative equipollenze [4].
L’assenza del titolo porta all’affermazione che il diploma di laurea ha natura di atto costitutivo di status, quello attestato a seguito del superamento di una serie di esami (il c.d. percorso studiorum) pertanto, non può essere assimilato né ad un atto autorizzativo, né ad un atto attributivo di vantaggi economici [5].
Va detto che rispondono di danno erariale i componenti di una commissione di concorso, per un incarico di dirigente, che compensano (indebitamente) il mancato possesso di una specifica laurea con la pregressa esperienza professionale, non potendo mai la commissione modificare (con un proprio atto d’impulso) i requisiti previsti dal bando (anche qualora il possesso di una diversa laurea potrebbe essere assimilabile, ex lege) attraverso una scelta compiuta nella fase valutativa delle domande dei partecipanti, una c.d. modifica silente di un requisito di accesso, disposto in via discrezionale, in modo selettivo dell’Amministrazione e inserito nel bando: il rispetto di tali regole è presupposto di legittimità della spesa sostenuta per la remunerazione del dirigente (da assumere/assunto), oltre impedire (ad aver impedito) ad altri candidati la partecipazione, avendo un diverso titolo di studio [6].
Al riguardo, l’equivalenza dei titoli di studio, specie ove conseguiti all’estero, deve avvenire secondo la normativa vigente, a cura dall’Autorità italiana competente (con l’indicazione dell’estremo del riconoscimento), sicché risponde di danno erariale (emolumenti erogati: danno patrimoniale, economicamente valutabile, attuale e concreto, sofferto dall’Amministrazione Pubblica):
- il candidato che dichiari falsamente l’equipollenza del titolo di studio (condotta dolosa);
- la commissione di concorso quando sciolga la riserva (condotta gravemente colposa) del requisito di ammissione, con l’irregolare valutazione dei titoli di studio, specie in presenza di evidenti incertezze di inquadramento e in assenza di un’adeguata istruttoria probatoria, assumendo l’equipollenza (nesso causale) [7].
Giova riscontrare, altresì, a conferma che, anche se in generale è da riconoscere in capo all’Amministrazione che indice una selezione pubblica un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, questo potere va esercitato tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.
Ne consegue che anche in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, soprattutto quando la qualificazione richiesta presuppone una dimostrata esperienza o alternativamente una specializzazione universitaria (sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà) [8].
(Ri)determinazione del danno
Nel quantum del danno ascrivibile alle retribuzioni percepite indebitamente, fatto presente che l’attribuzione di un incarico dirigenziale a un soggetto privo di laurea determina un sicuro danno in conseguenza della violazione del sinallagma contrattuale legislativamente prefigurato, atteso che alla retribuzione percepita non corrisponde per tabulas una prestazione qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta (quella che esige il titolo di studio adeguato): viene quantificata nel calcolo con riferimento ai cedolini depositati [9].
La quantificazione del danno va, quindi, parametrato al valore differenziale tra la retribuzione effettivamente percepita in dipendenza dell’incarico dirigenziale e quella che gli sarebbe spettata con una retribuzione complessiva inferiore, parametrata ad un livello professionale quale quello in concreto posseduto, privo cioè dei titoli culturali indispensabili per il conferimento della qualifica di dirigente.
Pare giusto rilevare, senza andare oltre, che tale orientamento presenta anche diverse soluzioni, nel senso di non riconoscere la “bontà” della prestazione resa, mancando – a monte – un requisito per stabilire in modo lecito il rapporto con la PA.
Osservazioni minime
Nel fare brevi considerazioni, osservando che la falsificazione determina una forma di occultamento doloso del danno, avendo lo scopo di ingannare l’Amministrazione circa il possesso del titolo richiesto, si esigerebbe sempre (o quanto meno a campione) effettuare i dovuti controlli sulle autocertificazioni, che consentono (avrebbero permesso) ex ante di non costituire il rapporto di lavoro, specie quando il titolo è l’unica condizione per la sottoscrizione del contratto dirigenziale (fiduciario, ai più, noto come “110”).
L’accertamento e ammissione del titolo falso rende incontestabile il nesso causale tra la condotta e il danno subito dall’Ente, consistito nel pagamento delle retribuzioni a fronte di una prestazione lavorativa intrinsecamente priva di utilità se associata alla mancanza del requisito culturale richiesto (il titolo di studio della laurea) [10], requisito posto alla base (onere motivazionale del provvedimento) del bisogno di una specifica professionalità (non presente in organico della PA) che la laurea intendeva sopperire.
Inoltre, la condotta dimostra l’evidente inidoneità di ricoprire un incarico pubblico, ex artt. 54, comma 2, 97 e 98 Cost., in spregio alle più elementari regole del c.d. minimo etico, o di quel sentire elettivo della “funzione pubblica” al servizio imparziale, nella sua dimensione di neutra trasparenza e di assenza di interessi secondari, della Nazione, con una finalizzazione (c.d. proiezione) tesa al perseguimento del “bene comune”: un valore ferito (nel caso analizzato), ponendo il singolo al di fuori di ogni contesto ordinamentale o di “buona fede” (una forma mentis del tutto estranea a quell’aspettativa di legalità) [11], ampiamente espressa anche dall’art. 1 della legge n. 241/1990, oltre che obbligo del lavoratore, ex artt. 2105 c.c. e 1 e 3 del d.lgs. 62/2013.
Note
[1] Vedi, LUCCA, Assunzioni con titoli falsi, dichiarazioni mendaci o errori sui punteggi, ilpersonale.it, 23 gennaio 2019, ove si rileva (anche) che la produzione o la dichiarazione di un titolo inesistente per la partecipazione di un concorso pubblico, comporta una volta accertato, ex comma 1, lettera d), del art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001, il licenziamento disciplinare per «falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera».
[2] Corte conti, sez. I Centr. Giur. App., sentenza, n. 30/2017; sez. III. Centr. Giur. App., sentenza. n. 491/2017 e n. 143/2018.
[3] Corte conti, sez. I Centr. Giur. App., 23 giugno 2021, n. 228.
[4] Cfr. TAR Toscana, sez. I, 28 settembre 2022, n. 1086; Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4951; TAR Umbria, sez. I, 2 novembre 2021, n. 794.
[5] TAR Campania, Salerno, sez. I, 31 maggio 2019, n. 915.
[6] Corte conti, sez. II Centr. Giur. App, 12 gennaio 2022, n. 7, si evidenzia che l’assunzione di un soggetto che, in base alla disciplina della selezione che autonomamente l’Amministrazione si era autoimposta, non rispondeva al profilo richiesto, oltre che pregiudicare i possibili interessati che, pur trovandosi nelle medesime condizioni del soggetto poi assunto, non avevano fatto domanda di partecipazione rispettosi della rigidità dei requisiti ostentati nell’avviso, ed essere di nocumento per la stessa Amministrazione che si è preclusa la possibilità di vagliare altri potenziali candidati, ha dato luogo ad una mortificazione del buon senso gestionale ed a un pregiudizio ai principi di buon andamento dell’azione amministrativa, talmente intensi da non poter essere attenuati attraverso la valutazione di eventuali effetti positivi derivanti dall’attività del dirigente.
[7] Vedi, Corte conti, sez. giur. Lazio, 3 luglio 2023, n. 445, ove si valutano le condotte dei singoli (i convenuti vennero assolti) e la prescrizione del danno.
[8] Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2021, n. 676.
[9] La retribuzione deve essere commisurata al possesso di determinati standard qualitativi e professionali (il titolo di studio) e la loro mancanza determina il venir meno del rapporto sinallagmatico tra prestazione e retribuzione, Corte conti, sez. giur. Lombardia, sentenza n. 263/2022.
[10] In questo senso, nel caso in cui il bando di gara o di concorso richieda per la partecipazione alla procedura il possesso di un determinato titolo di studio o di uno ad esso equipollente, la determinazione dello stesso deve essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo, e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall’Amministrazione, Cons. Stato, sez. V, 28 agosto 2019, n. 5924.
[11] Una lesività ad una serie di valori che confluiscono nel danno all’immagine della PA, determinando un vulnus alla considerazione che i cittadini amministrati ripongono sull’operato dei propri rappresentanti, con inevitabili ripercussioni sul senso di appartenenza alle istituzioni e sull’efficienza e sull’efficacia dell’azione amministrativa, Corte conti, sez. giur. Sicilia, 22 maggio 2019, n. 375.
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