12/09/2015 – legge 7.8.2015, n. 124 e la riforma della dirigenza: prime annotazioni per una sinossi organica dei suoi contenuti

La legge 7.8.2015, n. 124 e la riforma della dirigenza: prime annotazioni per una sinossi organica dei suoi contenuti

R. Nobile (La Gazzetta degli Enti Locali 28/8/2015)

La legge 7.8.2015, n. 124 si occupa, fra l’altro, di riforma della dirigenza. Lo fa nell’ámbito di un piú vasto articolato normativo, che riguarda la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Essa non contiene una disciplina di dettaglio, ma solo principî, criterî direttivi e tempi entro i quali il legislatore delegato deve produrre vere e proprie disposizioni operative da attuare mediante la legislazione delegata di competenza ed attribuzione governativa ex art. 77 Cost.

La norma direttamente rilevante in subiecta materia è l’art. 11 della fonte di regolazione, articolato in tre commi, il primo dei quali è a sua volta ripartito in sottopartizioni a loro volta variamente ulteriormente articolate. Il focusdella legge-delega non è semplice, ma duplice: la disciplina della dirigenza e la valutazione dei rendimenti dei pubblici ufficî.

In questo lavoro, intendiamo occuparci in primis del cosiddetto “sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati, accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento, basati sul principio del merito, dell’aggiornamento e della formazione continua, e caratterizzato dalla piena mobilità tra i ruoli, secondo le previsioni di cui alle lettere da b) a q)

Ai prossimi interventi sulle pagine di questa Gazzetta sarà riservata, per completezza, la disamina delle norme che riguardano altri importanti settori che interessano la figura del dirigente pubblico, i quali sono chiaramente enunciati dall’art. 11 della legge 7.8.2015, n. 124, nelle sue molteplici articolazioni. Il tutto con l’avvertenza preliminare che esse riguardano l’accesso alla dirigenza pubblica, il sistema di formazione dei pubblici dipendenti, la formazione permanente dei dirigenti, la mobilità della dirigenza, il conferimento degli incarichi dirigenziali, la durata degli incarichi dirigenziali, la sorte dei dirigenti privi di incarico, la valutazione dei risultati dei dirigenti, la loro retribuzione, la necessaria disciplina transitoria della funzione dirigenziale, il conferimento degli incarichi dirigenziali nel Sistema sanitario nazionale, e le ipotesi di revoca dell’incarico e di divieto di rinnovo di conferimento di incarichi dirigenziali tout court.

In relazione all’inquadramento della dirigenza pubblica, l’art. 1, comma 1, lett. b), della legge 7.8.2015, n. 124 interviene ed opera nell’ámbito di una fondamentale quadripartizione, caratterizzata dalla costituzione di tre ruoli unici nei quali articolarla e dall’eliminazione della figura del segretario comunale e provinciale.

In primo luogo, occupandosi “dei dirigenti dello Stato”, attraverso nove punti di saliente significato e portata operativa. 

Il primo. L’“istituzione di un ruolo unico dei dirigenti statali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri”, nel quale far confluire “i dirigenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, appartenenti ai ruoli delle amministrazioni statali, degli enti pubblici non economici nazionali, delle università statali, degli enti pubblici di ricerca e delle agenzie governative istituite ai sensi del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300”.

Il secondo. La categorica e tradizionale “esclusione dallo stesso ruolo del personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

 

il terzo. L’ “eliminazione della distinzione in due fasce” della dirigenza statale attualmente presente nel d.lgs. 30..2001, n. 165.

Il quarto. La “previsione, nell’ambito del ruolo, di sezioni per le professionalità speciali”, con l’evidente intento di differenziare la caratterizzazione della dirigenza statale ratione materiae e di evitare che l’eccesso di unificazione ne comprometta il funzionamento e la funzione.

Il quinto: l’“introduzione di ruoli unici anche per la dirigenza delle autorità indipendenti, nel rispetto della loro piena autonomia”, con evidenti intenti di organica omogeneizzazione.

Il sesto: la “confluenza nei suddetti ruoli dei dirigenti di ruolo delle stesse amministrazioni” in sede di prima applicazione al fine di garantire l’immediata operatività della riforma una volta attuata dalla decretazione delegata.

Il settimo. L’“esclusione dai suddetti ruoli unici della dirigenza scolastica, con salvezza della disciplina speciale in materia di reclutamento e inquadramento della stessa”.

L’ottavo. L’“istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di una Commissione per la dirigenza statale, operante con piena autonomia di valutazione, i cui componenti sono selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali; previsione delle funzioni della Commissione, ivi compresa la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli incarichi e del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi”.

Il nono. L’“attribuzione delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relative ai dirigenti statali, alla suddetta Commissione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, al fine di evitare duplicazioni di funzioni.

In secondo luogo, interessandosi ai “dirigenti delle regioni”, attraverso quattro momenti caratterizzanti.

Il primo. L’“istituzione, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, di un ruolo unico dei dirigenti regionali”.

Il secondo. La “confluenza nel suddetto ruolo dei dirigenti di ruolo nelle regioni, negli enti pubblici non economici regionali e nelle agenzie regionali” in sede di prima applicazione, anche in questo caso al fine di garantire l’immediata operatività della riforma una volta sopraggiunta la decretazione delegata.

 

Il terzo. L’“attribuzione della gestione del ruolo unico a una Commissione per la dirigenza regionale, sulla base dei medesimi criteri di cui al numero 1) della presente lettera”.

Il quarto. L’“inclusione nel […]  ruolo unico della dirigenza [delle regioni] [dei dirigenti] delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e della dirigenza amministrativa, professionale e tecnica del Servizio sanitario nazionale ed esclusione dallo stesso, ferma restando l’applicazione dell’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria del Servizio sanitario nazionale”.

Il terzo luogo, occupandosi dei “dei dirigenti degli enti locali” attraverso quattro enunciazioni di fondo.

 

La prima. L’“istituzione, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, di un ruolo unico dei dirigenti degli enti locali”.

La seconda. La “confluenza nel suddetto ruolo dei dirigenti di ruolo negli enti locali in sede di prima applicazione”, anche qui per garantire l’immediata operatività della riforma una volta attuata dalla decretazione delegata.

La terza. L’“attribuzione della gestione del ruolo unico a una Commissione per la dirigenza locale, sulla base dei medesimi criteri di cui al numero 1) della presente lettera”.

La quarta. Il “mantenimento della figura del direttore generale di cui all’articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 23 dicembre 2009, n. 191” e la “definizione dei relativi requisiti, fermo restando quanto previsto dal numero 4) della presente lettera”, con ciò recependo sia pure in nuce le osservazioni piú volte formulate dalla magistratura contabile in merito al necessario possesso dei titoli richiesti per l’accesso alla dirigenza tout court.

In quarto luogo, interessandosi in maniera composita, ma sostanzialmente caducatoria dei “dei segretari comunali e provinciali”, peraltro nella piena vigenza del d.lgs. 18.8.2000, n. 267. Questa è la parte della legge-delega di maggiore significato, perché interviene nei confronti di una figura storica, attualmente inquadrata negli organici del Ministero dell’interno, e dunque nell’ámbito dell’amministrazione civile dello Stato, nella quale è ritornata dopo essere stata gestita per anni da un’Agenzia autonoma in attuazione della legge 15.5.1997, n. 127. Anche in questo caso, la fonte di regolazione è sottoarticolata in undici punti.

Il primo. L’“abolizione della figura” del segretario comunale e provinciale, con ciò portando a compimento ed attuazione la relativa intenzione palesatasi a partire dal 1969 e riformulata in occasione del referendum abrogativo adombrato nella seconda metà degli anni ’90 e poi non tenutosi all’esito della legge 15.5.1997, n. 127. 

Il secondo. L’“attribuzione alla dirigenza [inquadrata nel ruolo della dirigenza degli enti locali] […] dei compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa”

Il terzo. Il “mantenimento della funzione rogante in capo ai dirigenti apicali aventi i prescritti requisiti”, peraltro senza né indicarli, né sottointendendoli. 

Il quarto. L’“inserimento di coloro che, alla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega di cui al presente articolo, sono iscritti all’albo nazionale dei segretari comunali e provinciali di cui all’articolo 98 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nelle fasce professionali A e B, nel ruolo unico dei dirigenti degli enti locali di cui al numero 3) e soppressione del predetto albo”

Il quinto. La previsione di una “specifica disciplina per coloro che sono iscritti nelle predette fasce professionali e sono privi di incarico alla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega di cui al presente articolo”, senza che ciò possa in alcun modo inficiare “il rispetto della normativa vigente in materia di contenimento della spesa di personale”. 

Il sesto. La previsione di una “specifica disciplina che contempli la confluenza nel suddetto ruolo unico dopo due anni di esercizio effettivo, anche come funzionario, di funzioni segretariali o equivalenti per coloro che sono iscritti al predetto albo, nella fascia professionale C, e per i vincitori di procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso in carriera già avviate alla data di entrata in vigore della presente legge”

Il settimo. La previsione dell’“obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale con compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, anche qui “fermo restando il rispetto della vigente normativa in materia di contenimento della spesa di personale”. Il tutto nell’implicita, ma evidente ammissione del fallimento dell’affiancamento del direttore generale al segretario generale.

L’ottavo. La “previsione che gli incarichi di funzione dirigenziale apicale cessano se non rinnovati entro novanta giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi”, con ciò omegeneizzandone la disciplina a quella per i loroanáloga delle amministrazioni statali.

Il nono. La “previsione della possibilità, per le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti, di nominare, in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale ai sensi dell’articolo 108 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 e previsione, in tale ipotesi, dell’affidamento della funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa e della funzione rogante a un dirigente di ruolo”, con ciò determinando la fine della possibilità di analoghe nomine nelle province, senza peraltro nulla soggiungere sugli incarichi attualmente in essere.

Il decimo. La “previsione, per i comuni di minori dimensioni demografiche, dell’obbligo di gestire la funzione di direzione apicale in via associata, coerentemente con le previsioni di cui all’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni”

L’undicesimo. La previsione dell’“obbligo per gli enti locali privi di un direttore generale nominato ai sensi del citato articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 di conferire l’incarico di direzione apicale con compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa, direzione degli uffici e controllo della legalità dell’azione amministrativa ai predetti soggetti, già iscritti nel predetto albo e confluiti nel ruolo di cui al numero 3), nonché ai soggetti già iscritti all’albo, nella fascia professionale C, e ai vincitori del corso di accesso in carriera, già bandito alla data di entrata in vigore della presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, con l’avvertenza che esso opera “in sede di prima applicazione e per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega […].

Come si può agevolmente notare, la disciplina contenuta nella legge-delega 7.8.2015, n. 124 è preordinata alla sostanziale ristrutturazione del ruolo e della funzione della dirigenza pubblica. L’iniziativa è senz’altro da salutare con favore, a condizione che la decretazione delegata di competenza governativa la realizzi puntualmente ed in maniera consequenziale. Ciò non potrebbe accadere se il disegno di riforma fosse funzionale a creare una dirigenza sostanzialmente fidelizzata alla politica che la nomina, perché un tale procedere lederebbe irrimediabilmente i contenuti dell’art. 97, comma 1, Cost., il quale esige che il dirigente pubblico debba svolgere la propria funzione in modo imparziale e preordinato al buon andamento dell’azione amministrativa nel pieno rispetto del principio di separazione indicato dall’art. 2 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.

Non è questa la sede per indulgere in analisi semantiche del nome “fidelizzazione”, il quale si richiama a “fede”, che è argomentum non apparentium ac non visibilium. Il dirigente deve essere prima di tutto capace e leale e non genericamente fedele in un’accezione sostanzialmente indeterminata che esuli dalla perimetrazione indicata dall’art. 2105 c.c.

Questi sono i metri e le cifre che il legislatore delegato dovrà avere ben presenti nel dare attuazione all’art. 11 della legge 7.8.2015, n. 124 a pena di realizzare il sostanziale fallimento di un’intenzione che si palesa buona.

 

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legge 7.8.2015, n. 124 e la riforma della dirigenza: prime annotazioni per una sinossi organica dei suoi contenuti (seconda parte)

R. Nobile (La Gazzetta degli Enti Locali 4/9/2015)

Continua la nostra analisi dell’art. 11 della legge 7.8.2015, n. 124 in materia di riforma della dirigenza (> vedi la prima parte). Il tutto con l’avvertenza che essa riguarda la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche e che non contiene una disciplina di dettaglio, ma solo principî, criterî direttivi e tempi entro i quali il legislatore delegato deve produrre vere e proprie disposizioni operative da attuare mediante la legislazione delegata di competenza ed attribuzione governativa ex art. 76 e 77, comma 1, Cost.

Oggetto di interesse odierno è il sistema dell’accesso alla dirigenza. Se ne occupa l’art. 11, comma 1, lett. c), nn. 1 e 2 della fonte di regolazione. Lo fa nell’ámbito di una bipartizione, caratterizzata da due differenti modalità di accesso: il corso-concorso ed il concorso tout court, con una netta preferenza, come emergerà nel prosieguo, del primo sul secondo.

In primo luogo, occupandosi “del corso-concorso”, attraverso sei punti di saliente significato. 

Il primo. La “definizione di requisiti e criteri di selezione dei partecipanti al corso-concorso ispirati alle migliori pratiche utilizzate in ambito internazionale, fermo restando il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale”. In questo caso le intenzioni del legislatore sono buone, ma non in linea con il paradigma delineato dal combinato disposto degli artt. 77, comma 1 e 76 Cost.. Per convincersene è sufficiente effettuare una lettura de plano della seconda delle due disposizioni normative citate. Essa, se correttamente intesa, richiede che la legge-delega contenga la chiara enunciazione “di principi e criteri direttivi […] per oggetti definiti”. Detto ciò, è evidente che demandare alla decretazione delegata la determinazione dei “requisiti e criteri di selezione dei partecipanti al corso-concorso ispirati alle migliori pratiche utilizzate in ambito internazionale” non soddisfa il parametro ratione costitutionis, soprattutto dato il riferimento asseritamente specificate, ma invero del tutto generico delle cosiddette “migliori pratiche utilizzate in ambito internazionale”, che è termine di raffronto a geometria variabile e dunque buono per tutte le stagioni. Esso, per contro, è soddisfatto dall’indicazione del titolo di studio richiesto per l’accesso alla dirigenza tout court: la laurea magistrale. Ad essa deve essere equiparata la laurea conseguita nella vigenza del vecchio ordinamento universitario. Insufficiente, per contro, è il possesso della laurea triennale conseguita nella vigenza del nuovo ordinamento universitario.

Il secondo. La determinazione della “cadenza annuale del corso-concorso per ciascuno dei tre ruoli [unici] di cui alla lettera b), numeri 1), 2) e 3), per un numero fisso di posti, definito in relazione al fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo”. La norma determina l’annualità dell’attivazione dei procedimenti di reclutamento tramite il modello del corso-concorso. Lo fa in relazione a ciascuno dei tre ruoli in cui a regime sarà articolata la dirigenza pubblica: la dirigenza dello Stato, delle regioni e degli enti locali. È di immediata evidenza che la determinazione del numero dei pòsti interessati al corso-concorso ne presuppone un’attenta ricognizione, dato soprattutto l’investimento economico a carico dell’erario pubblico. Il termine di riferimento viene individuato nel “fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo”, il che ne presuppone la determinazione bottom-up a partire dalle singole pubbliche amministrazione attraverso un percorso informativo tutto da definire e, pur tuttavia, imprescindibile.

Il corso-concorso è unico per ciascuno dei tre ruoli unici della dirigenza ed il suo espletamento è centralizzato, la qual cosa determina la necessità di individuare il soggetto giuridico che lo indíce. Esso non può che coincidere con ciascuna delle tre Commissioni per la dirigenza, rispettivamente, statale, regionale e locale che dovranno essere istituite presso il Dipartimento della funzione pubblica, per le quali è prevista fin d’ora la competenza alla gestione dei rispettivi ruoli unici, e dunque anche delle procedure di reclutamento. La centralità e la perdiodicità annuale del corso-concorso presuppongono la sincronizzazione dell’emersione del fabbisogno di dirigenti da parte di ognuna delle pubbliche amministrazioni interessate al reclutamento. Anche questo fattore dovrà essere normato con particolare attenzione.

Il terzo. La previsione dell’“esclusione di graduatorie di idonei nel concorso di accesso al corso-concorso”. Intendere il senso della locuzione non è semplice. L’unica possibilità ermeneutica di senso orienta a ritenere che il legislatore delegato possa prevedere la troncatura della graduatoria nei confronti dei soggetti idonei ma non vincitori, preordinando l’azione delle Commissioni per la dirigenza alla possibilità di ribandire nell’anno successivo la procedura di reclutamento in esame, sempre, beninteso, previa ricognizione dell’effettivo fabbisogno. Cosí intesa, la previsione normativa de qua ha il significato pratico di non obbligare allo scorrimento della graduatoria in favore degli idonei, consentendo di riponderare nell’anno successivo sia il numero dei posti messi a corso-concorso, sia i contenuti delle prove selettive.

Il quarto. L’“immissione in servizio dei vincitori del corso-concorso come funzionari, con obblighi di formazione, per i primi tre anni, con possibile riduzione del suddetto periodo in relazione all’esperienza lavorativa nel settore pubblico o a esperienze all’estero e successiva immissione nel ruolo unico della dirigenza da parte delle Commissioni di cui alla lettera b) sulla base della valutazione da parte dell’amministrazione presso la quale è stato attribuito l’incarico iniziale”. La norma è di particolare significato perché instaura un percorso ascensionale al ruolo della dirigenza. Essa, opportunamente declinata dalla legislazione delegata, consente di costruire un sistema preordinato al monitoraggio continuo dell’acquisizione delle competenze organizzative, gestionali e dunque manageriali, che caratterizzano [e che devono caratterizzare] il ruolo del dirigente pubblico [a questo proposito è bene rammemorare che “manager” deriva etimologicamente da manus, e che la mano e la simbologia che la circonda ne fanno da sempre un emblema del potere e del controllo attraverso il suo esercizio]. La norma, a ben vedere, consente di prefigurare il periodo triennale, peraltro riducibile in funzione dell’“esperienza lavorativa nel settore pubblico o a esperienze all’estero”quale vero e proprio stage retribuito nella qualifica di funzionario, la qual cosa non può che essere valutata con favore, soprattutto osservando che l’immissione nel ruolo della dirigenza cui il corso-concorso era preordinato avviene “sulla base della valutazione da parte dell’amministrazione presso la quale è stato attribuito l’incarico iniziale” e quindi previa rilevazione “sul campo” delle competenze acquisite. 

La norma appare preordinare il corso-concorso alla semplice “immissione nel ruolo unico della dirigenza”, senza dire chiaramente se ciò preluda o meno hic et nunc all’assunzione in qualità di dirigente all’esito del superamento del percorso formativo. La risposta non può che essere positiva, osservato che ciò si ricava per tabulas da quanto previso dall’art. 11, comma 1, lett. c), della legge 7.8.2015, n. 114 per il reclutamento tramite il modello complementare del concorso tout court. Se cosí non fosse, infatti, non si comprenderebbe il senso di prevedere che il “concorso unico per ciascuno dei tre ruoli di cui alla lettera b)” è indetto annualmente per la copertura, fra l’altro, dei “posti disponibili nella dotazione organica e non coperti dal corso-concorso di cui al numero 1) della presente lettera”.

L’assunzione del dirigente una volta immesso nel ruolo unico è, nell’ámbito della pubblica amministrazione di volta in volta interessata, a tempo indeterminato, e ciò costituisce l’elemento caratterizzante del rapporto di provvista lavorativa al suo interno. Tale evenienza, ovviamente, non ha alcuna attinenza con la stabilità dell’incarico. La sua titolarità, infatti, è fortemente condizionata dall’impianto dell’art. 11, comma 1, lett. g)h)l) e q), della legge 7.8.2015, n. 114. Essa, inoltre, risente della possibilità di applicazione alla singola pubblica amministrazione dell’art. 33 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 in tema di rilevazione delle eccedentarietà e delle soprannumerarietà per esigenze funzionali o connesse alla situazione finanziaria, con conseguente attivazione del percorso normativo che può esitare nella risoluzione ex lege del rapporto di lavoro ex art. 34, comma 4, terza proposizione della fonte di regolazione, previo collocamento in posizione di disponibilità per due anni.

Il quinto: la “possibilità di reclutare, con il suddetto corso-concorso, anche dirigenti di carriere speciali e delle autorità indipendenti”. La funzione della norma è chiara ed ispirata da evidenti intendi semplificatorî. La sua operatività presuppone, per elementari esigenze di logica fattuale, prima ancóra che giuridica, che del numero dei dirigenti de quibus  sia tenuto debito conto nella quantificazione del “fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo”. Anche in questo caso, i relativi percorsi attuativi dovranno essere attentamente strutturati dalla decretazione delegata di provenienza governativa.

Il sesto: la “previsione di sezioni speciali del corso-concorso per dirigenti tecnici”. La norma è espressione dell’esigenza, nell’ámbito di ciascun ruolo dirigenziale, di differenziare le modalità di accesso alla selezione in funzione dei contenuti delle future prestazioni lavorative richieste. La sua sensatezza è di particolare evidenza, e deve essere ricollegata a quanto già esplicitato dall’art. 11, comma 1, lett. b), n. 1, punti 2 e 4 della legge 7.8.2015, n. 124. Lo scopo della norma è di differenziare la caratterizzazione della dirigenza statale ratione materiae e di evitare che l’eccesso di unificazione ne comprometta il funzionamento e la funzione.

In secondo luogo, individuando le modalità attraverso le quali l’accesso alla dirigenza avviene per “concorso”, mediante sette momenti caratterizzanti.

Il primo. La “definizione di requisiti e criteri di selezione ispirati alle migliori pratiche utilizzate in ambito internazionale, fermo restando il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale”. Valgono in questa sede le osservazioni critiche già formulate in relazione alla fattispecie del corso-concorso, salvo osservare che la reiterazione dell’evidente errore nel quale è incappato il legislatore-delegante non giova, ma è sintomo di perseveranza ingiustificata. Repetita non iuvant.

Il secondo. La previsione di una “cadenza annuale del concorso unico per ciascuno dei tre ruoli di cui alla lettera b), per un numero di posti variabile, per i posti disponibili nella dotazione organica e non coperti dal corso-concorso di cui al numero 1) della presente lettera”. La formulazione della norma evidenzia il superamento del reclutamento ente per ente, e l’affermazione della centralizzazione unitaria della selezione dei concorrenti per l’accesso alla dirigenza nella pubblica amministrazione attraverso il modello del “concorso unico per ciascuno dei tre ruoli”previsti ex lege, ossia dall’art. 11, comma 1, lett. b), num. 1, 2 e 3 della legge 7.8.2015, n. 124. Il concorso è attività essenziale della piú ampia attività di gestione di ciascuno dei ruoli unici della dirigenza. In conseguenza di ciò, esso non può che essere indetto e gestito, in funzione di ogni singolo ruolo unico, dalle apposite Commissioni istituite presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza dei consiglio dei ministri, proprio come accade per il corso-concorso.

La formulazione della disposizione normativa pone il problema del rapporto fra corso-concorso e concorso tout court e dunque fra le due modalità di reclutamento della dirigenza. La cosa in questione può essere risolta osservando che il tenore letterale della disposizione normativa preordina il ricorso al concorso tout court alla sola ipotesi in cui i posti di dirigente vacanti nelle dotazioni organiche delle singole pubbliche amministrazioni non siano stati coperti tramite corso-concorso. Ciò consente di concludere che al modello di reclutamento della dirigenza pubblica per concorsotout court sarà possibile ricorrere solo “per un numero di posti variabile” desunti dai “posti disponibili nella dotazione organica e non coperti dal corso-concorso di cui al numero 1) della presente lettera”. In estrema sintesi, la fattispecie assunzionale in esame è recessiva rispetto a quella del corso-concorso.

Il terzo esclusione di graduatorie di idonei”. Anche in questo caso, valgono le osservazioni già formulate per l’analoga fattispecie del corso-concorso.

Il quarto. La “possibilità di reclutare, con il suddetto concorso, anche dirigenti di carriere speciali e delle autorità indipendenti”. La norma riproduce mutatis mutandis la disciplina enucleata per l’análogon del corso-concorso.

Il quinto. La “formazione della graduatoria finale alla fine del ciclo di formazione iniziale”. In disparte l’inestetismo lessicale in cui è incappato il legislatore [graduatoria finale alla fine …], la norma lascia intendere che la fattispecie dell’accesso alla dirigenza per concorso non si esaurisce affatto nella valutazione dei titoli e delle prove scritte ed orali, ma ciò accade solo al compimento di un periodo di formazione. In questo senso, la norma è carente di contenuto in relazione al combinato disposto degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost., con tutte le conseguenze del caso.

Il sesto. La previsione dell’“assunzione a tempo determinato e successiva assunzione a tempo indeterminato previo esame di conferma, dopo il primo triennio di servizio, da parte di un organismo indipendente, con possibile riduzione della durata in relazione all’esperienza lavorativa nel settore pubblico o a esperienze all’estero”. La norma riproduce nella sostanza la disciplina del proprio análogon previsto per il corso-concorso, ma appalesa una minor precisione lessicale ed una differenza di fondo che ha carattere dirimente: là l’assunzione originaria avviene in qualità di funzionario, qui direttamente di dirigente a tempo determinato. Ciò che emerge dalla giustapposizione delle due norme è evidente: a prescindere dalle modalità di reclutamento attivate, l’assunzione del dirigente a tempo indeterminato non è mai immediata, ma subordinata al superamento di un periodo di osservazione, nel quale devono emergere le reali capacità manageriali del soggetto interessato.

Anche in questo caso, l’assunzione del dirigente una volta immesso nel ruolo unico all’esito del superamento del concorso per l’accesso al ruolo dirigenziale è a tempo indeterminato, e ciò costituisce l’elemento caratterizzante del rapporto di provvista lavorativa, proprio come accade per il complementare modello del corso-concorso. Tale evenienza, ovviamente, non ha alcuna attinenza con la stabilità dell’incarico. La sua titolarità, infatti, è fortemente condizionata dall’impianto dell’art. 11, comma 1, lett. g)h)l) e q), della legge 7.8.2015, n. 114. Valgono inoltre le considerazioni sviluppate in relazione al combinato disposto degli artt. 33 e 34, comma 4, terza proposizione del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 in tema di risoluzione ex lege del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il settimo. La previsione della “risoluzione del rapporto di lavoro, con eventuale inquadramento nella qualifica di funzionario, in caso di mancato superamento dell’esame di conferma”. La norma è una diretta conseguenza di quanto evidenziato nel punto immediatamente precedente. Mentre nel caso del corso-concorso l’assunzione avveniva nella qualità di funzionario, qui la norma la preclude, enucleando un’alternativa con finalità conservative, da attivare quando il fabbisogno di personale della pubblica amministrazione che ha disposto l’assunzione lo esplicita in sede di programmazione triennale. Significativa è la previsione di un esame di conferma, che si atteggia a condicio sine qua non della novazione del rapporto lavorativo da tempo determinato a tempo indeterminato. Ciò pone il problema delle modalità di svolgimento dell’esame de quo, per il quale la legge-delega non contiene il benché minimo accenno a quei principî e criterî direttivi che, per contro, l’art. 76 Cost. impone e prevede come imprescindibili, a pena di determinare il brancolare della decretazione delegata.

Come si può agevolmente notare, la disciplina contenuta nell’art. 11, comma 1, lett. c), della legge-delega 7.8.2015, n. 124 è positiva nel suo complesso. Per contro, destano perplessità le reiterate carenze di principî  e criterî direttivi in ámbiti strategici. In relazione all’ultimo punto segnalato, il giudizio non può che essere negativo. Il tutto è vieppiú accentuato osservata la fretta con cui il parlamento ha licenziato la legge-delega, consolidando, qualora ve ne fosse il bisogno, la consapevolezza del peggioramento dei contenuti delle fonti di regolazione primarie, a detrimento della certezza del diritto e della sua coerenza complessiva.

 

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La legge 7.8.2015, n. 124 e la riforma della dirigenza: prime annotazioni per una sinossi organica dei suoi contenuti (terza parte)

Continua la nostra analisi sistematica dell’art. 11 della legge 7.8.2015, n. 124 in materia di riforma della dirigenza. Il nostro interesse sarà oggi appuntato su, e riservato a, tre argomenti ai quali la normativa in questione annette particolare importanza: il sistema della formazione in generale, la formazione dei dirigenti in particolare, la mobilità dei dirigenti. Essi costituiscono la chiave di vôlta per consolidare ed implementare l’acquisizione ed il mantenimento delle competenze dei dirigenti e per favorirne la circolazione nell’ámbito della pubblica amministrazione e fra pubbliche amministrazioni e mondo delle imprese iure privatorum. Se ne occupano, in modo apparentemente disgiunto, le lett. d), e) ed f), dell’art. 11, comma 1, della legge 7.8.2015, n. 124, la prima ponendo le necessarie basi per l’adeguamento dello scopo e della missione della Scuola nazionale dell’amministrazione anche valutando le sinergie con l’Associazione nazionale dei comuni italiani (in acronimo: ANCI), la seconda concentrando la propria attenzione sull’attività formativa dei dirigenti propriamente intesa, non tralasciando importanti punti di contatto con la piú complessa tematica del conferimento degli incarichi dirigenziali, la terza prendendo in considerazione la mobilità dei dirigenti lato sensu intesa.

In primo luogo, la normativa in esame affronta la tematica del “sistema di formazione dei pubblici dipendenti” in generale, attraverso un percorso che si articola in quattro snodi fondamentali.

Il primo. Assume valore a questo proposito la circostanza che il legislatore attribuisca importanza autenticamente dirimente all’individuazione del soggetto giuridico cui demandare la somministrazione della formazione permanente ai dirigenti che saranno iscritti nei tre ruoli di cui all’art. 11, comma 1, lett. b), della legge 7.8.2015, n. 124. Ciò avverrà mediante la “revisione dell’ordinamento, della missione e dell’assetto organizzativo della Scuola nazionale dell’amministrazione con eventuale trasformazione della [sua] natura giuridica”. La scuola è già operativa e per il suo funzionamento il legislatore considera di non secondaria importanza il “il coinvolgimento di istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio, in coerenza con la disciplina dell’inquadramento e del reclutamento di cui alle lettere a), b) e c), in modo da assicurare l’omogeneità della qualità e dei contenuti formativi dei dirigenti dei diversi ruoli di cui alla lettera b), senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

L’intenzione del legislatore è chiara ed apprezzabile. Essa è preordinata alla costruzione di un sistema di formazione trasversale rispetto ai differenti ruoli della dirigenza, anche per garantire la piena mobilità al loro interno. Anche il coinvolgimento di soggetti esterni, sia nazionali, sia internazionali, merita particolare attenzione ed attende l’adeguata valorizzazione da parte della decretazione delegata. Quest’opzione è di segnalata rilevanza, osservando che il modo attraverso il quale la pubblica amministrazione opera a livello europeo risponde a standard caratterizzati da novità, sganciate dall’impostazione classica, secondo la quale la sua azione è sempre e necessariamente preventiva e condotta attraverso lo strumento del provvedimento amministrativo. Salve le sole ipotesi delle concessioni amministrative, infatti, l’azione della pubblica amministrazione appare oggi sempre piú orientata verso modelli caratterizzati dal coinvolgimento preventivo, diretto ed immediato dei soggetti che ad essa si rivolgono e dallo spostamento del suo intervento in momenti successivi all’inizio delle attività prima assoggettate ad autorizzazione o a conformazione da parte dei pubblici poteri. La formazione permanente dei dirigenti, che sono poi i soggetti cui è demandata la responsabilità finale dell’attività gestionale, dovrà necessariamente valorizzare il processo di progressiva sburocratizzazione dell’attività amministrativa, e, nel farlo, dovrà tenere conto della necessità di trasmettere in modo uniforme, sia pure nel rispetto delle necessarie differenziazioni, i relativi valori propedeutici, che sono la precondizione per l’interiorizzazione dei comportamenti organizzativi necessarî per supportare e consolidare il cambiamento richiesto ed oggi diffusamente avvertito. Cosí intesa, l’azione innovatrice è pienamente coerente sia con i regimi di dichiarazione di inizio attività, sia con i sempre piú diffusi modelli di segnalazione certificata di inizio attività, sia, infine, con le istanze di sburocratizzazione contenute negli artt. 1, 2, 3, 4 e 5 della legge 7.8.2015, n. 124, pienamente in vigore a partire dal 27.8.2015.

Il secondo. La previsione della “possibilità di avvalersi, per le attività di reclutamento e di formazione, delle migliori istituzioni di formazione, selezionate con procedure trasparenti, nel rispetto di regole e di indirizzi generali e uniformi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. La norma  è formulata in modo non pienamente soddisfacente. Ed infatti, non è chiaro se essa sia riferita, nella sua prima parte, al reclutamento dei docenti cui è demandata la somministrazione della formazione. La sua collocazione sistematica induce a ritenere che questa sia l’intenzione del legislatore. Intesa in questo modo, essa focalizza la propria attenzione sulla necessità di assicurare il rispetto degli standard normativi previsti in generale per la realizzazione di partenariati e per la formalizzazione di convenzioni con soggetti estranei alla pubblica amministrazione. L’esigenza di assicurare l’omogeneità dei processi formativi è adeguatamente valorizzata dalla previsione del “rispetto di regole e di indirizzi generali e uniformi”, alla cui definizione dovrà presumibilmente essere impegnato il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ossia quel soggetto giuridico nel cui ámbito saranno costituite ed operanti le tre Commissioni per la gestione del ruolo della dirigenza, rispettivamente dello Stato, delle regioni e degli enti locali, secondo le indicazioni dell’art. 11, comma 1, lett. a), della fonte di regolazione in commento.

Il terzo. Si tratta della “ridefinizione del trattamento economico dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione in coerenza con le previsioni di cui all’articolo 21, comma 4, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, ferma restando l’abrogazione dell’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo 1º dicembre 2009, n. 178, senza incremento dei trattamenti economici in godimento e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. L’intenzione del legislatore è chiaramente preordinata a valorizzare l’attività dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione, peraltro tenendo conto dell’attuale situazione retributiva che caratterizza il comparto del pubblico impiego, ancóra oggi connotato dal blocco degli assetti retributivi. La norma si inserisce nel processo di unificazione delle scuole di formazione nella pubblica amministrazione, già avviato dall’art. 21, comma 4, del d.l. 24.6.2014, n. 90, convertito nella legge 11.8.2014, n. 178 e tiene fermo lo statuto giuridico dei docenti della Scuola nazionale dell’amministrazione e la loro valorizzazione retributiva determinata con d.p.c.m. “sulla  base  del  trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o ai  ricercatori universitari   a   tempo pieno  con  corrispondente  anzianità”.

Di dubbia formulazione è la parte della disposizione normativa che fa riferimento all’abrogazione dell’“articolo 10, comma 2, del decreto legislativo 1º dicembre 2009, n. 178”, per la quale il legislatore delegante usa la locuzione “ferma restando”, che la fa ritenere già in atto. Ciò può essere argomentato osservando che essa fa riferimento ai “docenti a tempo pieno della Scuola, in posizione  di  comando, aspettativa o fuori ruolo” i quali “per il tempo dell’incarico  conservano  il trattamento economico in godimento”. In realtà, non può essere escluso che il legislatore abbia inteso riferirsi non al comma 2 dell’articolato normativo, ma al suo successivo comma 4, osservato che esso è stato colpito da abrogazione da parte dell’art. 18, comma 2, lett. h), del d.P.R. 16.4.2013, n. 70, emanato dal governo in attuazione dell’art. 17, comma 2, della legge 23.8.1988, n. 400. Questa norma faceva originariamente riferimento all’ipotesi dei docenti esterni incaricati di attività di insegnamento i quali dovevano essere scelti “tra dirigenti di amministrazioni pubbliche, professori o docenti universitari, nonché tra esperti di comprovata professionalità anche stranieri”. L’ambiguità segnalata resta, talché attende di essere dipanata da successivi interventi chiarificatorî del legislatore.

Il quarto. La previsione della “promozione, con il coinvolgimento dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, di corsi di formazione concernenti l’esercizio associato delle funzioni fondamentali di cui all’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, per dipendenti e dirigenti dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti”. La norma è coerente con quanto previsto dall’art. 11, comma 1, lett. d), decima proposizione della legge 7.8.2015, n. 124 in tema di dirigenza apicale nei comuni di minore consistenza demografica. Essa è inoltre parzialmente coerente con l’oggetto del suo rinvio esplicito, ossia con l’art. 14, comma 28 del d.l. 30.5.2010, n. 78, convertito nella legge 31.7.2010, n. 122, che fa riferimento proprio alla consistenza demografica dei 5.000 abitanti.Essa, peraltro, non valorizza l’ipotesi alternativa prevista dalla norma richiamata, quando prevede la differente consistenza dei “3.000 abitanti se [i comuni di minore consistenza demografica] appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole”.

La funzione della norma in esame è chiara: consolidare il principio della gestione associata delle funzioni che maggiormente definiscono il genoma dei comuni, i quali, se di minori dimensioni, meglio vi attendono se ciò accade condividendo personale e mezzi strumentali. La norma esprime dunque ed in definitiva un principio di finanza pubblica, che, come tale, si impone in modo particolarmente cogente.

In secondo luogo, riservando un fondamentale accenno alla “alla formazione permanente dei dirigenti”, attraverso due punti particolarmente qualificanti. La norma è una diretta attuazione di quanto enunciato in via generale dall’art. 11, comma 1, lett. a), della legge 7.8.2015, n. 124, che, come accade in altre e differenti fattispecie, fa “dell’aggiornamento e della formazione continua” veri e proprî meta-principî, di cui le lettere da b) a q) costituiscono forme di precisazione e di rafforzamento ratione materiae.

Il primo. Prevedendo la “definizione di obblighi formativi annuali e delle modalità del relativo adempimento”.  Attesa l’importanza strategica che la riforma assegna alla formazione, non stupisce affatto che l’art. 11, comma 1, lett.  e), della legge 7.8.2015, n. 124 preveda, sia pure in nuce, un vero e proprio sistema di formazione della dirigenza caratterizzato dalla sua permanenza e distribuzione in anni senza soluzione di continuità. La norma lascia intendere che l’esercizio delle funzioni dirigenziali sia una vera e propria professione, ed in ciò è particolarmente sintonica con quel che accade in via generale nelle cosiddette “professioni protette”, (medici, ingegneri, architetti, avvocati, commercialisti, revisori dei conti, giornalisti et coeteris paribus), per le quali è previsto un vero e proprio obbligo di formazione permanente con assolvimento di consistenti crediti formativi a pena dell’estromissione dal relativo ordine o albo.

La norma deve essere letta in combinato disposto con quanto previsto dalla riforma in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali dall’art. 11, comma 1, lett. g), seconda, quarta e quinta proposizione della legge in commento. Ed infatti, secondo le rispettive indicazioni della fonte di regolazione, la decretazione delegata attuativa della legge-delega dovrà valorizzare le competenze acquisite anche attraverso la formazione permanente definendo “per ciascun incarico dirigenziale, […] requisiti necessari in termini di competenze […]”, tenendo conto “delle attitudini e delle competenze del singolo dirigente, […] delle specifiche competenze organizzative possedute” ed ancorando la “preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti”. Ora, non vi è chi non veda come la formazione sia una delle precondizioni della costruzione delle competenze del dirigente in generale e della pubblica amministrazione in particolare. Del resto, l’art. 11, comma 1, lett. a), seconda proposizione della legge 7.8.2015, n. 124, norma che, unitamente alla sua prima proposizione, contiene la weltangchauung della riforma, presuppone la formazione permanente quando prevede per tabulas l’“istituzione di una banca dati nella quale inserire il curriculum vitae, un profilo professionale”, i quali sono nel contempo topos e modus dai quali far emergere, fra gli altri, il percorso formativo intrapreso e sviluppato da ogni dirigente iscritto in uno dei tre ruoli di cui alla successiva lett. b) della fonte di regolazione.

Da tutto ciò risalta l’importanza della formazione permanente sia in ámbito tecnico-amministrativo, per garantire il costante aggiornamento normativo, sia in contesti piú propriamente manageriali, nei quali l’elemento unificante è costituito dalla capacità di organizzazione delle risorse umane affidate, dalla massimizzazione dell’obiettivo realizzato col minor dispendio di risorse e dal possesso degli stili direzionali di volta in volta piú appropriati alle singole evenienze. Di tutto ciò dovrà farsi carico la formazione permanente, osservato che il dirigente della pubblica amministrazione non può piú essere considerato alla stregua di un mero garante della corretta applicazione della norma, ma deve incentrare il proprio ruolo sui principî del management, che, per la pubblica amministrazione sono il precipitato della dottrina del new public management elaborato nelle realtà anglosassoni.

La formazione dei dirigenti, inoltre, deve essere messa in stretta relazione con ciò che la pubblica amministrazione è, ossia un’organizzazione che eroga servizî in condizione di esternalità di sistema. Proprio quest’ultima circostanza deve essere rettamente intesa, perché la sua azione in contesti di quasi-monopolio legale la fa risaltare quale vera e propria disfunzione economica ed extra costo di sistema. La formazione dei dirigenti pubblici preordinata all’interiorizzazione di un corretto stile manageriale è dunque una delle precondizioni della permanenza della pubblica amministrazione, la cui sana gestione ne costituisce ragione di esistenza ordinamentale.

Il secondo. Valorizzando il “coinvolgimento dei dirigenti di ruolo nella formazione dei futuri dirigenti, loro obbligo di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale per le suddette attività di formazione”. La norma è particolarmente densa di significato, perché valorizza la trasmissione della conoscenza fondata sull’esperienza acquisita nella quotidianità del lavoro e del dispiegarsi delle relazioni interpersonali che la caratterizzano. Ciò evidenzia che alle competenze del dirigente appartengono non solo la conoscenza tecnico-amministrativa, ma anche, e forse soprattutto, il suo inveramento concreto ed applicativo. In questo senso, la trasmissione della conoscenza fondata sulla condivisione dell’esperienza rappresenta un vero e proprio valore-chiave, che la decretazione delegata dovrà adeguatamente corroborare, potenziare e sviluppare.

È ovvio che nell’attuazione del “coinvolgimento dei dirigenti di ruolo nella formazione dei futuri dirigenti” dovrà essere disciplinato attentamente il rapporto fra attività di quotidiano esercizio della funzione dirigenziale ed attività di formazione. Il tutto tenendo presenti le relazioni che ciò determina con l’ eventuale coinvolgimento dei dirigenti di ruolo nell’attività formativa demandata alla Scuola nazionale per l’amministrazione già oggetto di precedente commento.

In terzo luogo, occupandosi della “mobilità della dirigenza”, attraverso due indicazioni, la prima delle quali di segnalata importanza e rilevanza.

La prima. Essa viene realizzata attraverso la “semplificazione e [l’]ampliamento delle ipotesi di mobilità tra le amministrazioni pubbliche e con il settore privato”. La prima delle due ipotesi di mobilità, che riguarda le pubbliche amministrazioni è una diretta conseguenza di quanto previsto dall’art. 11, comma 1, lett. a), della legge 7.8.2015, n. 124, la quale, insieme ad altri, la pone quale vero e proprio meta-principio nella visione complessiva della dirigenza. I due termini di raffronto, “semplificazione” ed “ampliamento”, riferiti alla fattispecie della mobilità dei dirigenti tra le pubbliche amministrazioni presuppongono evidentemente una base normativa attuale cui riferirli. Essa è fornita dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che, però, opera nei soli confronti del ruolo dei dirigenti dello Stato. Cosí intesa, la norma contenuta nella legge-delega è chiaramente riferita alla mobilità dei dirigenti nell’ámbito dei tre ruoli previsti dall’art. 11, comma 1, lett. b), della legge 7.8.2015, n. 124. Ciò, in buona sostanza, significa che viene demandata alla decretazione delegata l’individuazione dei percorsi mediante i quali attuare le “ipotesi di mobilità tra le amministrazioni”, peraltro senza che la norma soddisfi i contenuti del combinato disposto degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost.

La semplificazione e l’ampliamento delle ipotesi di mobilità riguarda anche le relazioni fra pubbliche amministrazioni e imprese iure privatorum. Se ne occupa la seconda parte della norma, per la quale valgono le medesime considerazioni in tema di fattori normativi di presupposizione appena sviluppate. In questo caso, l’assetto normativo sul quale insistono le istanze semplificatorie ed ampliative in questione è costituito dall’art. 23-bis del d.lgs. 30.3.2001, n. 165. La norma oggetto dell’intervento semplificatorio ed ampliativo è costruita come ipotesi in deroga all’art. 60 del d.P.R. 10.1.1957, n. 3 in tema di incompatibilità per i dipendenti pubblici in generale, e, come tale, rappresenta una specificazione ratione materiae dei principî di buon andamento e di imparzialità previsti dall’art. 97, comma 1 Cost. e di esclusività, quest’ultimo enunciato dall’art. 98 Cost. Intesa in questo modo, la previsione dell’art. 11, comma 1, lett. f), prima proposizione della legge 7.8.2015, n. 124 dovrà essere attuata frapponendo una particolarissima cautela, e prestando attenzione alla chiara e definita enunciazione del regime delle incompatibilità da stabilire in via generale e, in via settoriale, in relazione alla normativa di prevenzione della corruzione, con conseguenziale aggiornamento dei contenuti sia della legge 6.11.2012, n. 190, sia del d.lgs. 8.4.2013, n. 39, sia, infine, del d.lgs. 14.3.2013, n. 33, evenienze, queste, prese in considerazione dall’art 7 della legge in commento.

La seconda. Essa è attuata attraverso la “previsione dei casi e delle condizioni nei quali non è richiesto il previo assenso delle amministrazioni di appartenenza per la mobilità della dirigenza medica e sanitaria”. La norma opera in via residuale ed eccezionale per le sole ipotesi per le quali è prevista. La sua funzione è consentire la circolazione delle professionalità mediche e sanitarie nell’ambito del sistema sanitario nazionale. Il suo carattere di specialità non ne consente l’interpretazione analogica, concorrendo, per converso, a rafforzare il principio complementare per tutti i settori che dalla sua significazione sono esclusi.

 

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