12/07/2019 – La produttività non lascia impronte digitali

La produttività non lascia impronte digitali

di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
se l’attenzione sulla produttività della pubblica amministrazione si riduce alla disciplina dei metodi necessari per assicurare che chi affermi di essere presente in servizio lo sia davvero (oggetto principale della legge “Concretezza”), non è solo per la fortuna mediatica dell’argomento. È anche per la perdurante assenza di metodi e strumenti per valutare l’attività svolta, connessa anche a cervellotiche procedure contrattuali, capaci di portare al paradosso.
Per essere più espliciti: da un lato, nella gran parte dei casi nella PA non si valutano prodotti, ma comportamenti; dall’altro, se per caso i contratti di secondo livello aziendale, cui spetta determinare le risorse da ripartire per la produttività, sono stipulati con ritardo, l’assenza di un piano preventivo di produttività causa comunque l’elargizione a pioggia delle risorse ed esenta da responsabilità.
Partiamo da questo secondo elemento del problema, perfettamente illustrato dalla sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Toscana 8 luglio 2019, n. 280.
In estrema sintesi: la sentenza ha accertato la sussistenza di un danno erariale, perché l’ente coinvolto negli anni 2009 e 2010 non aveva elaborato in via preventiva alcun progetto di incremento della produttività, ma aveva comunque erogato il premio individuale ai dipendenti. La sentenza spiega che il meccanismo di incentivazione della produttività impone “la fissazione preventiva di obiettivi predeterminati, consacrati in specifici progetti, e la verifica ex post del raggiungimento o meno degli stessi obiettivi, nonché dell’effettivo contributo dato da ciascun dipendente coinvolto”.
Nel caso trattato, tuttavia, i giudici contabili hanno ritenuto di non attribuire alcuna responsabilità agli incolpati per l’erogazione delle risorse, poiché i contratti decentrati erano stati sottoscritti molti mesi, se non anni, dopo, impedendo sia una corretta programmazione, sia anche un controllo sulle attività richieste.
Ora, Titolare, provi a rispondere ad una semplice domanda: secondo Ella il ritardo nella sottoscrizione dei contratti “aziendali” è un evento isolato, oppure sostanzialmente una regola? Esatto, Titolare: la risposta corretta è la seconda. Nelle decine di migliaia di amministrazioni pubbliche la normalità è stipulare i contratti aziendali con estremo ritardo.
La sentenza, quindi, è il viatico a giustificare sempre e comunque la distribuzione dei premi a prescindere persino dalla programmazione delle attività da valutare: basta allungare le trattative e il gioco è fatto. Il sistema, quindi, formalmente è quello descritto dalla sentenza, ma nei fatti il tutto si rivela una mera cortina di fumo, che cela l’elargizione a pioggia.
Con molta franchezza, caro Titolare, è anche giusto evidenziare che, forse, restando le cose come sono, destinare ingenti risorse organizzative al “premio di produttività” non ha nemmeno molto senso. La legge Brunetta impone un “ciclo della performance”, che richiede, appunto, la programmazione di obiettivi generali (addirittura nazionali, dopo la riforma Madia), dell’ente, obiettivi delle strutture in cui gli enti sono ripartiti ed obiettivi individuali, con raffinati strumenti di controllo concomitante e successivo, dovizia di schede di valutazione e presidio di Organismi Indipendenti di Valutazione, chiamati ad esprimere pareri vincolanti sull’elaborazione dei sistemi valutativi e ad effettuare poi le valutazioni stesse per i dirigenti, i quali sono competenti a valutare, invece, i restanti dipendenti.
Tutto questo impegno varrebbe la candela se in ballo vi fossero cifre rilevanti. Ma, per esempio fermandosi al mondo degli enti locali, dal Conto annuale, guardando alla composizione delle voci delle retribuzioni, si nota che la voce “compensi per la produttività” vale poco più di 2 miliardi, che diviso circa 3 milioni di dipendenti, non arriva nemmeno a 1.000 euro lordi l’anno. Questa stessa voce per il comparto regioni-autonomie locali nelle regioni a statuto ordinario vale circa 497 milioni, da distribuire per 435.000 dipendenti: poco più di 1.000 euro. Per tali cifre sarebbe molto meno oneroso sul piano organizzativo e molto meno produttivo di contenzioso trasformare il tutto in una mini quattordicesima.
Ma, come Ella sa, nel sistema pubblico la valutazione costi/benefici è un’illustre sconosciuta. Si tiene, quindi, in piedi un colossale sistema di valutazione, coi piedi d’argilla fragilissima.
Anche perché nella gran parte dei casi, tutto si valuta, tranne che la produttività. Come Ella può molto meglio di questi pixel spiegare, la produttività è sostanzialmente un rapporto tra output ed input. Cioè, l’organizzazione prevede di produrre qualcosa, si avvale di risorse e strumenti per produrla entro certe quantità e secondo standard definiti, per poi mettere i prodotti nel mercato o erogarli ai destinatari, se si tratta di organizzazioni pubbliche.
Banalmente, quindi, la produttività si misura sostanzialmente avendo chiaro cosa fare, come farla, in che tempi, con quali strumenti e costi, per verificare se l’attività sia svolta al di sopra o al di sotto di determinati standard quantitativi o qualitativi, utilizzando unità di misura per verificare il lavoro svolto: metri, chili, litri, tempo, risorse finanziarie, ore lavoro, rapporti tra questi mezzi di misura; e avendo chiaro che l’obiettivo di produttività consiste in un risultato in termini di riduzione del tempo, o dei costi, o in un aumento dei prodotti con un indice maggiore dell’incremento degli input e così via.
La produttività individuale non dovrebbe essere troppo dissimile: al lavoratore si dovrebbe indicare uno standard operativo da rispettare, precisando un budget o comunque un rapporto chiaro tra le ore di lavoro che svolge e i risultati da ottenere: per esempio, il tempo standard da rispettare per chiudere un’istruttoria.
Tuttavia, nella gran parte dei casi i sistemi di valutazione pubblici si guardano bene dal misurare la produttività secondo questi canoni. Il tutto si riduce, invece, nella manifestazione di giudizi sui comportamenti: capacità di rispettare i tempi, capacità di proporre soluzioni, capacità di relazionarsi con terzi e così via. Rarissimamente si chiede di svolgere un certo numero di pratiche entro specifici termini o nel rispetto di predefiniti indicatori di qualità.
In questo modo, sistemi di valutazione si modificano in strumenti di “giudizio” molto astratti e spesso con contenuti più prognostici (la capacità di fare si misura di solito nell’ambito di sistemi di reclutamento; la valutazione di obiettivi non dovrebbe riguardare la capacità astratta, ma l’esito dell’azione) che di rendicontazione. Con l’esito finale di valutazioni/giudizi sempre piuttosto appiattiti verso l’alto, anche per evitare le frizioni conseguenti a valutazioni che finiscono per entrare nella sfera della personalità, invece di sondare l’attività realmente svolta.
Il tutto, caro Titolare, quindi cospira per giungere a valutazioni general generiche, lontanissime da una misurazione dell’attività svolta e di standard operativo, orientate all’appiattimento e al riconoscimento diffuso delle, per altro, piuttosto esigue risorse. Del resto, bastano un corposo quanto, soprattutto, fumoso sistema di valutazione pieno di buoni intenti, schede, schemi, prediche sul “sapere”, “saper fare” e “saper essere” e, soprattutto, una contrattazione aziendale tardiva e passa la paura: valutazioni positive per tutti. Tanto, hanno attestato la presenza in servizio con l’impronta digitale, quindi tutto va bene.

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