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Per la Corte dei conti spending review insufficiente e tasse locali raddoppiate

di Roberto Turno

L’insostenibile pesantezza del prelievo fiscale esploso al 43,4% del Pil, le spese per investimenti crollate del 27% in tre anni, i fallimenti della tax expenditures, la spending review che non decolla. Altro che ripresa e rilancio dell’economia nazionale. Per farcela all’Italia servono ben altre ricette. A cominciare da un ciclo macroeconomico espansivo, capace di allentare una insopportabile pressione fiscale che restituisca «capacità di spesa a famiglie e imprese», una direzione di marcia sulla carta ora intrapresa. Ma serve anche dell’altro: per realizzare un «duraturo» controllo della spesa è improcrastinabile la riscrittura del «patto sociale» con i cittadini che si focalizzi sulla riorganizzazione dei servizi sociali. Insomma, una nuova e diversa delimitazione del perimetro e del baricentro statale.

I rilievi della Corte 

Tra buffetti al Governo e indicazioni del senso di marcia da seguire per agganciare la ripresa e uscire più rapidamente dal tunnel, la Corte dei conti segnala ancora una volta a Governo e Parlamento gli errori commessi e quelli da non ripetere compiuti nel più recente passato, soprattutto a partire dall’esplodere della grande crisi e della recessione che s’è abbattuta sull’Italia e che solo ora lascia vedere segnali di ripresa. Segnali reali, ma ancora insufficienti. Anche perché sul tappeto, segnala la magistratura contabile nel «Rapporto 2015 sul coordinamento della finanza pubblica», in pratica un’analisi del bilancio 2014 dello Stato proiettata sul futuro con le misure in cantiere del Governo di Matteo Renzi tra legge di Stabilità 2015 e le riforme in itinere. Tra spesa sanitaria che dimezza il deficit ma resta in mezzo al guado, con la qualità dei servizi a rischio anche per i tagli. Con il fardello del pubblico impiego senza contratto, che in 4 anni ha “prodotto” risparmi per 8,7 mld. Con un giro di volta nella pubblica amministrazione col Ddl Madia del tutto perfettibile. Con un federalismo in arretramento e gli enti locali che pesano sempre di più sulla pressione fiscale, ma per scelte statali. E con nuovi buchi neri scoperti dalla Corte dei conti, come i 153 enti vigilati ma esterni alla pubblica amministrazione che fuoriescono dalla rilevazione Istat: facile prevedere che, dati i loro costi, possano rappresentare possibili nuove giungle di spesa da disboscare.

Le questioni fiscali 

Il fisco, dunque. È da qui che parte la Corte dei conti segnalando che dal 2009 al 2014 le manovre correttive hanno inciso proprio sul lato delle entrate. A dispetto della recessione: il gettito è cresciuto di 55 mld, la spesa primaria di 16 mld spingendo l’acceleratore sull’indebitamento, ma sarebbe diminuita di 21 mld al netto delle prestazioni sociali. Di qui la prima considerazione della Corte: «Difficilmente il sistema economico potrà sopportare ulteriori aumenti della pressione fiscale». Anzi, la rotta va invertita: va restituita capacità di spesa a famiglie e imprese. Come è stato fatto col cuneo fiscale o perfino col bonus da 80 euro. Dunque: va adesso rilanciata la domanda, con un «ambiente macroeconomico espansivo per un effettivo allentamento della pressione fiscale». Anche perché la spending review è al lumicino. Al punto che «un duraturo controllo delle dinamiche di spesa» non potrà «prescindere» da una riscrittura del patto sociale tra i cittadini e l’azione di Governo «che abbia al proprio centro la riorganizzazione dei servizi di welfare».

La sostenibilità a lungo termine della finanza pubblica, sottolinea il «Rapporto», è legata del resto a tassi di crescita del pil e della produttività «non inferiori» all’1,5% e da una disoccupazione al 7%: e per farcela servono «interventi profondi». Ecco perché l’urgenza delle riforme strutturali. 

Intanto il fisco negli anni della crisi ha macinato 45 interventi legislativi, ben 758 misure che hanno movimentato 520 mld con un effetto di riduzione dell’indebitamento netto per 145 mld, con 22 mld ereditati quest’anno. E di «redistribuzione» non s’è vista traccia, riversandosi anzi sull’imposizione su casa, consumi e rendite ma non «sulla riduzione del prelievo sui fattori produttivi». Mentre la tax expenditures è stata caratterizzata da sette anni di promesse disattese. E la pressione fiscale giunta al 43,4% è legata soprattutto al prelievo locale, raddoppiata dall’11,4 al 21,9% sul totale dell’intera Pa. Ma non per un aumento dell’autonomia impositiva locale, bensì per le «scelte operate dalla politica fiscale centrale». Perché poi il federalismo s’è risolto in una salto nel passato: la quota di spesa decentrata è tornata ai tempi dell’avvio del federalismo fiscale. E con le riforme costituzionali in corso, diminuirà ancora. E chissà se è un male.

 

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