Tratto da: Amministrazione in cammino - autore: Giovanni Guzzardo*

Sommario: 1. Premessa. – 2. Centri storici e rigenerazione urbana. – 3. La riqualificazione dei centri storici nella legislazione regionale. – 4. Interventi edilizi e liberalizzazione delle variazioni di destinazioni d’uso degli immobili ricadenti in zona A. – 5. Riuso del mosaico identitario e ristrutturazione edilizia leggera. – 6. Rilievi conclusivi.

 

  1. Premessa.

Le previsioni recenti dettate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza in materia di “attrattività dei borghi” [1], unitamente ad una pluralità di fattori – sinteticamente sussumibili nella rinnovata prospettiva di interesse pubblico al minor consumo di    suolo[2] , alla rigenerazione ed al risanamento del patrimonio edilizio esistente[3] , anche storico-artistico e alla ritenuta prevalenza del progetto architettonico (autodichiarato dal privato interessato) sulla programmazione partecipata del riuso dell’edificato – possono incidere, a diverso titolo, sullo sviluppo economico del territorio attenuando tuttavia il tradizionale regime di salvaguardia dei centri storici, intesi non solo nell’ accezione culturale ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 s.m.i. ma, altresì, come beni culturali urbanistici (zone A ed ulteriori contesti storico-architettonici identitari), ed incentivare forme di speculazione immobiliare, in ragione di una accentuata sensibilità verso le esigenze del mercato. Per un verso, infatti, se si eccettua il richiamo alla salvaguardia e tutela delle funzioni ambientali ed ecologiche dei grandi spazi aperti[4] , secondo la tradizionale configurazione del suolo-risorsa naturale, la progressiva europeizzazione anche della declinazione urbanistica del territorio «quale vettore di funzioni fondamentali di carattere ambientale, socio-economico le cui condizioni occorre preservare» [5] finisce, inevitabilmente, per incrociare il contesto e lo sviluppo urbano. Nell’alveo dei principi fondamentali di matrice unionale – ambiente, paesaggio, beni culturali, sviluppo sostenibile – andrebbe così a collocarsi anche la riduzione dell’impermeabilizzazione delle aree destinate alla realizzazione di infrastrutture o di insediamenti abitativi, in uno con il riuso del patrimonio edilizio esistente, degradato e da riqualificare. Per altro profilo, il contesto economico ormai dominante, caratterizzato da una riduzione della domanda del mercato immobiliare, ha già da tempo aperto l’orizzonte a programmi urbanistici caratterizzati da assenza di nuove quote di sviluppo urbano ed incentrati su finalità di riuso e riconversione dell’edificato, in cui insistono problematiche legate al degrado, al disagio sociale ed a fenomeni migratori, che necessitano di essere affrontati attraverso politiche che puntino alla qualità dello spazio urbano, più che alla quantità, in considerazione dei bisogni dei cittadini, chiamati a copianificare l’intervento.

 Tale tendenza ha, dunque, elevato la rigenerazione di immobili residenziali e opifici industriali, anche nell’ordinamento interno, ad elemento qualificante della pianificazione urbanistica di ultima generazione e sospinto verso nuovi modelli di azione della P.A. che possano indurre condizioni favorevoli ad una ripartenza del settore – frenata da problematiche di natura economica, occupazionale e sociale, e più di recente dall’ondata pandemica[6] – sì da inverare quel processo di semplificazione dell’attività amministrativa intesa in guisa di ostacolo alla libertà di iniziativa economica privata ed a ridurre sempre di più l’intervento pubblico nell’economia e, nella specie, nel disegno della città. I più significativi orientamenti in materia sono stati ricondotti a categorie concettuali comunemente accolte nell’ambito di un ordine sistematico, sia pur non ancora consolidato. Sennonché la ricerca di un punto di equilibrio tra vecchi schemi e nuove metodologie di azione amministrativa sembra segnare il passo all’esito dell’ulteriore aggiornamento di taluni ordinamenti sezionali – ed in particolare del regime delle trasformazioni dei suoli – novellato dai decreti “cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020, n. 18) e “rilancio” (d.l. 19 maggio 2020, n. 34) che sollecitano rinnovate riflessioni sui nuovi modelli semplici e rapidi di azione cui deve ora conformarsi la P.A. nell’esercizio del suo potere discrezionale. E ciò ancor più quando venga in rilievo la rigenerazione e la valorizzazione di beni e interessi oggetto di tutele particolari. La versione aggiornata della normativa emergenziale che ha interessato i titoli abilitativi in edilizia restituisce infatti un esempio paradigmatico dell’opzione verso moduli di (ulteriore) accelerazione della decisione finale, in funzione del rilancio – necessitato – della competitività delle imprese ed in ragione di una coincidenza tra interesse pubblico e interesse del richiedente che si affranca da ogni istruttoria, comparazione di interessi e motivazione in relazione alle procedure di controllo sulla conformità alla normativa urbanistica degli interventi edilizi [7], che continua a   conservare un regime giuridico “sempre vivo”, dovendo «fare i conti in continuazione»[8] non solo con la proprietà ma, anche e soprattutto, con l’iniziativa economia privata[9] . Ciò, in primo luogo, perché gli interventi legislativi sembrano avere quale elemento unico comune l’intento di agevolare il dispiegarsi della iniziativa dei privati che rischia di offuscare l’interesse pubblico, insito nella procedimentalizzazione dell’azione amministrativa e nel rapporto tra cittadino e pubblica Amministrazione[10] e rende difficile persino l’individuazione delle linee fondamentali lungo le quali si articola l’evoluzione del diritto d’uso dei suoli, come delineato nell’impalcatura concettuale edificata dalla dottrina[11]. Così, al fine di assicurare «la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini e delle imprese», sia pur sino al 31 dicembre 2020 ed in ogni caso in coincidenza con l’emergenza sanitaria, si prevedono regimi speciali «che derogano a talune regole del procedimento amministrativo»[12] in luogo di una differente disciplina – transitoria – degli interventi sul territorio. Le disposizioni dettate in relazione all’attività edilizia semplificata o liberalizzata – già riformata attraverso la delegazione contenuta nella legge cd. “Madia”[13] –  continuano, dunque, ad inverare la tendenza ad una sorta di abbandono di campo della p.A. – sia pur in ragione di una esigenza di rilancio e resilienza delle attività produttive – cui si correla non già un piano di razionalizzazione dell’agire amministrativo – incentrato sull’efficientamento informatizzato delle strutture organizzative, ad esempio – quanto, piuttosto una dequotazione mera dell’interesse pubblico e della procedimentalizzazione – partecipata dalla città – dell’azione amministrativa. Il ruolo assegnato alle dichiarazioni rese, in forza degli articoli 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 che sostituiscono, anche in deroga ai limiti previsti dalla disciplina di settore, ogni certificazione e attestazione non genera certezza, anche in considerazione dell’autoresponsabilizzazione del tecnico incaricato o del cittadino interessato, in un settore in cui le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione appaiono più dense che in altre fattispecie di intrapresa privata. Trattasi di innovazioni normative che – pur fondate sulla straordinarietà degli accadimenti – eccedono l’aspetto meramente terminologico attribuito alla semplificazione procedimentale in funzione della competitività delle imprese, incidendo ulteriormente, al contrario e sul piano dell’effettività, sul ruolo assegnato ai soggetti pubblici ed alla comunità in relazione alle procedure di controllo sulla conformità degli interventi edilizi o di trasformazione del territorio alla normativa urbanistica, talvolta anche in ordine a beni – per tradizione – oggetto di una tutela costituzionalmente orientata (patrimonio culturale, paesaggio, art. 17 bis l. n. 241 del 1990[14]).    

Così come congegnati i correttivi all’eventuale inerzia dell’apparato amministrativo – indotta dalla temporanea chiusura degli uffici e dal tempo occorrente alla prefigurazione di un modello di lavoro cd. smart – si appuntano su di una ulteriore compressione della fase istruttoria di verifica che viene collocata nel momento successivo all’inizio dell’attività del privato, offuscano l’essenza della pianificazione partecipata, con una contestuale attenuazione dei controlli ed un frettoloso accorpamento di quei procedimenti che si riferiscano alla medesima attività o che si svolgano presso Amministrazioni diverse o presso uffici diversi della stessa P.A., che si riflette sulle esigenze di garanzia e di stabilità del diritto, in ragione di un livello di agilità giuridica che, per converso, riversa sull’istante il rischio e la responsabilità della verifica dell’effettiva sussistenza dei presupposti abilitanti all’esercizio dell’attività, ora autocertificata. A tutta prima, è appena il caso di sottolineare che un assetto così congegnato, se applicato ad interventi di rigenerazione di contesti storico-identitari, appare inidoneo a predeterminare gli spazi di manovra degli operatori del settore, vanificando le valutazioni concernenti l’assetto del territorio comunale, già ponderate dall’Amministrazione e dai cittadini a cui sono riservate, sulla scorta di motivazioni correlate non già (o non solo) alla riqualificazione ed al superamento del disagio socioeconomico della zona oggetto dell’intervento, bensì al potenziale ritorno economico del disegno imprenditoriale.

  1. Centri storici e rigenerazione urbana

Alla stregua di tali premesse, se da un canto si assiste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ad opportuni tentativi di delineare percorsi economico-finanziari per una rigenerazione semplificata e partecipata dalla comunità, in funzione di rivitalizzazione dei centri storici che presentino una correlazione diretta con l’interesse primario di cui all’art. 9 Cost. (tutela della valenza identitaria versus interventi di riqualificazione speculativi), nella legislazione di settore la ricerca di sintesi accettabili fra i momenti di salvaguardia e quelli di valorizzazione economica dei centri storici – posti al crocevia tra governo del territorio e disciplina del patrimonio culturale – sembra orientata più verso regimi derogatori che nella direzione di tecniche di valorizzazione e perequative. Ad esempio, nelle città d’arte le ragioni e le implicanze di una più efficace gestione dell’adeguatezza di spazi ricettivi o turistici si va risolvendo in politiche enorme volte ad incentivare comunque la capacità produttiva degli edifici storici, attraverso la modifica e la sovrapposizione di spazi e funzioni nonché variazioni semplificate delle originarie destinazioni d’uso. V’è qui l’insidia di uno scambio ineguale fra privati (talora non adusi alla ricerca e all’utilizzazione di criteri attendibili di misurazione dell’interesse pubblico cui il bene si correla) e pubblici poteri.

Ed invero il rapporto tra rigenerazione urbana e patrimonio culturale edilizio ripropone la tematica, ampiamente approfondita dalla dottrina giuspubblicistica, delle intersezioni tra conservazione e valorizzazione del mosaico storico-identitario e tutela degli interessi differenziati che convergono nelle scelte contenute nella pianificazione urbanistica[15] .

 Come è noto, già l’art. 7 della l. n. 1150 del 1942 dettava il regime dei vincoli delle aree di interesse storico che la pianificazione del territorio avrebbe dovuto osservare. Il d.lgs. n. 42 del 2004 (ancor prima, sia pur in nuce, la legge Bottai) ha disciplinato, in termini organici e dettagliati, l’armamentario di soggezioni ed obblighi gravanti su quei beni immobili riconosciuti di rilevante interesse culturale[16] .

 I nuclei o centri storici, ove connotati da un particolare valore estetico e tradizionale o dall’immanenza di un interesse pubblico dichiarato[17], sono stati successivamente attratti, dal d.l.gs. n. 63 del 2006, anche nella disciplina dei beni paesaggistici[18].

 Senonché, ad eccezione dei beni monumentali, è stata innanzitutto la pianificazione urbanistica generale a ricomprendere «tra le sue finalità (…) il progetto di sviluppo di una determinata comunità territoriale»[19], animato dall’intento «di una necessaria considerazione di quei beni e valori idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico-territoriale rispetto ad altri»[20] .     

  La consistenza della tutela culturale, affidata all’ordinamento urbanistico, emerge anche dall’esame della normativa di settore. La l. n. 765 del 1967 ed il d.m. n. 1444 del 1968 e s.m.i., avente ad oggetto la suddivisione del territorio in zone territoriali omogenee, hanno ricondotto, nell’ambito della zona A, le parti del territorio comunale interessate da agglomerati urbani con carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale «o porzioni di esse, comprese le aree circostanti che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi». L’attenzione del legislatore si è di poi incentrata sugli strumenti di rigenerazione e riqualificazione urbana sin dalla l. n. 179 del 1992 (programmi integrati di intervento[21] e programmi edilizi urbanistici di riqualificazione urbana), seguita dal d. l. n. 398 del 1993, convertito in legge dall’art. 1 della l. n. 493 del 1993, in tema di programmi di recupero, dalle disposizioni normative in materia società di trasformazione urbana, PRUST[22] e PIRP e dalle ulteriori previsioni in materia di pianificazione consensuale[23] preordinata al riuso ed alla riabilitazione del tessuto urbano degradato.

   In tal guisa, gli elementi identitari dei beni sono confluiti all’interno della pianificazione urbanistica e la collocazione sistematica dei centri storici nell’alveo delle previsioni del piano regolatore generale avrebbe dovuto indurre i Comuni all’emanazione di prescrizioni incentrate sulla necessità di proteggerne la consistenza unitaria, evitando la frammentazione degli immobili singoli ivi collocati, attraverso meccanismi di matrice non prettamente vincolistica o di restrizioni all’uso di portata essenzialmente interdittiva, potenzialmente inidonei ad agevolarne il tentativo di rivitalizzazione.

 Muove da tale angolo prospettico la Carta di Gubbio nel 1960 (Dichiarazione di principi sulla salvaguardia ed il risanamento dei centri storici), sospinta dall’esigenza di ricondurre gli interventi nella “città antica” nell’ambito di piani di risanamento conservativo, previa ricognizione e classificazione degli insediamenti di valore storicoambientale e delle zone da salvaguardare e risanare. Si intendeva, così, indirizzare l’episodica tutela monumentale (presente nell’allora vigente l. n. 1089 del 1939) verso meccanismi e tecniche giuridiche di salvaguardia dell’intero insieme urbano, mediante la pianificazione urbanistica, generale ed attuativa, preordinata ad attuare una distinzione dell’organizzazione del territorio comunale e del tessuto urbano in due macro ambiti: «lo spazio della conservazione necessaria e lo spazio dell’innovazione possibile» [24] .  

Da un canto, tuttavia, l’obiettivo della tendenziale conservazione del patrimonio immobiliare di pregio storico-artistico, attraverso l’adozione di meccanismi esclusivamente conservativi, riduttivi sul piano funzionale, nell’intento di scongiurare lo smarrimento dell’identità dell’agglomerato[25]; dall’altro profilo, la tendenziale ritrosia degli operatori economici verso intraprese circoscritte ad interventi di solo restauro o risanamento conservativo hanno indotto il preoccupante fenomeno della desertificazione, derivante dall’isolamento dei nuclei più risalenti della città rispetto alle altre zone del tessuto urbano e registrato l’ineffettività delle disposizioni urbanistiche nella direzione di una valorizzazione dinamica del tessuto edilizio più risalente.

  1. La riqualificazione dei centri storici nella legislazione regionale

La concomitanza della tematica in esame con la materia governo del territorio ha consentito ampi spazi di manovra alla legislazione regionale. Invero, le Regioni, al fine di fronteggiare l’insufficienza del quadro normativo statale, hanno dettato disposizioni mirate a tutelare e valorizzare i centri storici, quali agglomerati urbanistico-edilizi, anche come catalizzatori di potenzialità di sviluppo economico.

 La rivitalizzazione di tali porzioni dell’edificato sembra essersi orientata, soprattutto nella normazione regionale di nuova generazione, verso tre direttrici: il recupero del valore identitario, il potenziamento dell’attrattività turistica dei luoghi, l’adeguamento infrastrutturale e la rigenerazione delle aree degradate. Dalle opzioni appena elencate sembrano, tuttavia, derivare talune prevedibili conseguenze: la prima – recessiva – potrebbe, infatti, indurre all’adozione di politiche pubbliche di conservazione mera; la seconda alla perdita dell’identità del costruito[26]; la terza ad interventi di edilizia speculativa.

Emergerebbe, peraltro, – in specie nell’ipotesi di mancata approvazione del piano paesaggistico – che il riferimento alla «corrispondenza biunivoca fra caratteristiche sostanziali dell’agglomerato e continenza nella zona A» non sarebbe «del tutto eliminato per la flessibilità della nozione in relazione alla percezione della valenza culturale del patrimonio culturale urbano» [27] .

Tuttavia, malgrado non manchino tentativi di armonizzare i confliggenti interessi correlati alla valorizzazione dei centri storici, la finalità perseguita con maggiore frequenza appare essenzialmente quella della rivitalizzazione urbanistico-edilizia.

Il fine di agevolare e incentivare lo sfruttamento latamente imprenditoriale dei centri storici, valorizzando in primo luogo quello che è stato definito l’immateriale economico[28], si è infatti, in primo luogo, concretizzato nella mera promozione di attività commerciali e di carattere turistico-ricettivo[29], senza trascurare il sostegno dell’attività artigianale.

Procedendo ad una ricognizione sintetica della normativa regionale viene subito in rilievo che il favor spiccato per i centri storici è orientato a risolvere il problema della carenza infrastrutturale proprio attraverso l’incentivazione delle attività di riqualificazione, risanamento e contrasto al degrado, al miglioramento complessivo della qualità della vita dei residenti, con una attenzione particolare alla rigenerazione dell’abitato.

 Negli ultimi anni è questa la prospettiva che si va espandendo.

La normativa regionale a sostegno dei centri storici consta anche di una gamma di strumenti eterogenei e variegati, di matrice conservativa del carattere identitario delle aree e degli immobili di pregio storico-artistico, comprensivi anche del potere di emanare atti di programmazione in senso proprio[30], disciplinari[31] o piani comunali del “colore”[32], soprattutto per la salvaguardia di prospetti e sagome.

All’osservanza dei precetti formulati è sovente subordinata l’erogazione di contributi pubblici per il recupero degli immobili e dei comprensori edilizi. Ed invero è sulle misure di incentivazione di carattere economico[33], a vantaggio dei privati impegnati nel recupero e nella riqualificazione immobiliare, che si incentra la legislazione regionale recente[34].

Sono, attualmente, sperimentati anche meccanismi e tecniche di finanziamento indiretto in cui si vincolano, in parte, i proventi delle sanzioni e dei contributi comunali al risanamento dei complessi edilizi ricompresi nei centri storici[35] .

 Una tendenza ulteriore della legislazione regionale può cogliersi in quelle previsioni normative incentrate sulla leva fiscale e, dunque, volte a disporre la riduzione (o, talora, l’esonero) del contributo di costruzione per il rilascio dei permessi edilizi, a vantaggio di chi ponga in essere interventi di recupero dei nuclei antichi della città degradati[36], con preferenza per gli interventi che non riguardino singoli edifici ma intere porzioni dei centri storici degradati[37].

V’è, ancora, da registrare, in via di progressiva espansione, l’introduzione di deroghe alla normativa ordinaria per quegli interventi edilizi su immobili localizzati nei centri storici: la portata e l’obiettivo delle deroghe non appaiono omogenei nelle diverse esperienze regionali.

 Talora, ove venga ritenuto prevalente un interesse correlato all’emersione delle potenzialità imprenditoriali, le deroghe sono ammesse innanzitutto in vista della riqualificazione a fini turistico-ricettivi degli edifici[38]. Talaltra, le eccezioni al regime urbanistico-edilizio ordinario sono preordinate invece a migliorare la vivibilità delle aree a vantaggio delle popolazioni residenti[39] .

Vi sono, inoltre, disposizioni normative regionali in cui emerge evidente il tentativo del legislatore di bilanciare e armonizzare entrambe le finalità[40].

La valorizzazione dei centri storici trae ulteriore sostegno nella previsione di strumenti e tecniche perequativi, allorché l’intervento di riqualificazione immobiliare coinvolga almeno un intero edificio[41] .

Il recupero dei nuclei e degli agglomerati urbani ha legato le sue sorti anche alla variegata congerie di leggi regionali in materia di rigenerazione urbana e recupero edilizio, lì dove residuino spazi per l’incentivazione di interventi compatibili con gli standard previsti per le zone A e le misure di protezione accordate al centro storico bene paesaggistico ed ai beni culturali identitari.

Si veda, ad esempio, la legge della Regione Lazio 18 luglio 2017, n. 7, rubricata “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio”. L’obiettivo perseguito dalla disciplina regionale mira, da un lato, al contenimento del consumo di suolo secondo la logica di una distinzione netta e circostanziata tra aree in cui sono ammessi interventi edilizi e ambiti in cui sono invece vietati; dall’altro si volge ad incentivare fortemente gli interventi di rigenerazione edilizia dei centri storici. Le premialità ivi previste si risolvono nella delocalizzazione con trasferimento delle cubature previa bonifica dell’area di sedime da rigenerare; nella promozione dei programmi di rigenerazione urbana nelle aree destinate all’edilizia residenziale pubblica, con interventi complessi di demolizione e ricostruzione, anche con riferimento ad edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria ovvero si sia formato il silenzio-assenso sulla medesima.

La tutela di interessi costituzionalmente rilevanti esclude l’applicazione delle disposizioni regionali – per espressa previsione – nelle aree sottoposte a vincolo di inedificabilità assoluta, ad eccezione tuttavia degli interventi delocalizzati; nelle aree naturali protette, eccettuate le zone individuate dal piano paesaggistico come “paesaggio degli insediamenti urbani”; nelle zone omogenee E di cui al dm n. 1444 del 1968.

Misure incentivanti sotto il profilo della leva tributaria sono contenute anche nella legge della Regione Toscana 12 novembre 2014, n. 64 (modificata dalla l. 20 aprile 2015 n. 24) che detta “Disposizioni volte ad incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e a promuovere ed agevolare la rigenerazione delle aree urbane degradate”.

L’impianto normativo si volge “a) favorire il riuso delle aree già urbanizzate per disincentivare ulteriore consumo di suolo b) favorire la densificazione delle aree urbane per la migliore sostenibilità economica dei sistemi di mobilità collettiva; c) mantenere e incrementare l’attrattività dei contesti urbani identitari in ragione della pluralità delle funzioni presenti; d) garantire la manutenzione ordinaria e straordinaria e l’innovazione delle opere di urbanizzazione e delle dotazioni collettive nei centri storici; e) favorire, anche con procedure di partecipazione civica, la verifica dell’utilità collettiva degli interventi di rigenerazione urbana”.

Gli interventi di rigenerazione riguardano aree caratterizzate da degrado urbanistico o da degrado socio-economico: per gli edifici di interesse storico-artistico non sono ammessi interventi di addizione volumetrica e di sostituzione edilizia (assentiti solo per gli edifici a destinazione industriale o artigianale), rimettendosi a ciascun Comune la determinazione dei rispettivi incrementi massimi della superficie utile lorda a titolo di premialità. Gli incrementi di superficie utile lorda ed in genere gli incentivi attribuiti in ragione degli interventi di rigenerazione possono anche superare le quantità massime ammissibili stabilite dai piani operativi, sul presupposto di un rilevante interesse pubblico all’esecuzione dell’intervento edilizio e, dunque, del “risparmio” di suolo non urbanizzato ed alla rivitalizzazione del paesaggio urbano.

Sempre nell’alveo della rivitalizzazione e della valorizzazione del tessuto urbano esistente, si colloca la legge della Regione Lombardia 2 dicembre 2014, n. 31 (modificata dalle ll. del 26 maggio 2017, nn. 15 e 16).

 V’è una attenzione particolare alle ipotesi di riqualificazione e rigenerazione di aree già edificate con la correlata previsione di misure premiali. Nel piano territoriale regionale vengono fissate le modalità di determinazione e quantificazione di indici atti a misurare il consumo di suolo, con un obbligo conformativo per gli strumenti di pianificazione di area vasta e per le previsioni urbanistiche delle Amministrazioni locali con effetti anche retroattivi, che hanno peraltro suscitato dubbi di legittimità costituzionale in relazione alle compressioni delle funzioni comunali in materia di pianificazione urbanistica[42].

La norma contiene, altresì, una definizione di dettaglio della nozione di rigenerazione urbana includente gli interventi urbanistico-edilizi aventi ad oggetto «la riqualificazione dell’ambiente costruito, la riorganizzazione dell’assetto urbano attraverso la realizzazione di attrezzature e infrastrutture, spazi verdi e servizi, il recupero o il potenziamento di quelli esistenti, il risanamento del costruito mediante la previsione di infrastrutture ecologiche finalizzate all’incremento della biodiversità nell’ambiente urbano».

La Regione Lombardia prevede misure di incentivazione sia sotto il profilo dei finanziamenti da erogare a soggetti, pubblici e privati, «che avviano azioni concrete per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana», sia attraverso le agevolazioni fiscali (ad es.: gli oneri di urbanizzazione sono ridotti del 60%). Ulteriori premialità consistono nell’assenso al mutamento di destinazione d’uso o nell’autorizzazione all’aumento della capacità insediativa purché contenuta nel rispetto degli standard urbanistici e della valenza eventualmente storico-identitaria dell’immobile (senza che ciò configuri variante alle previsioni urbanistiche attuative ovvero deroga alla pianificazione paesaggistica).

 Nell’esperienza della Regione Umbria la legge in tema di governo del territorio (l.r. 21 gennaio 2015, n. 1) assume a principio fondamentale la valorizzazione del patrimonio edilizio prevedendo, all’art. 2, che «la Regione persegue l’assetto ottimale del territorio regionale, secondo i principi di contenimento del consumo di suolo, di riuso del patrimonio edilizio esistente e di rigenerazione urbana, di valorizzazione del paesaggio, dei centri storici e dei beni culturali».

 Le misure di incentivazione al riuso dell’abitato ed alla rigenerazione dei centri storici sono affidate, tuttavia, alla pianificazione comunale, nell’ambito della quale possono essere previsti, all’esito di interventi di rigenerazione edilizia, incrementi volumetrici entro il limite del dieci per cento delle previsioni in termini di superfici territoriali esistenti nello strumento urbanistico generale. L’Umbria ripropone e conferma anche alcune norme edilizie premiali introdotte in applicazione della disciplina relativa al cd. “Piano casa” e, limitatamente ai centri storici inseriti in cd. “ambiti di rivitalizzazione prioritaria”, una premialità volumetrica (calcolata in funzione del costo degli interventi) – trascritta nel registro delle quantità edificatorie – utilizzabile per nuove costruzioni o ampliamenti (ove le premiliatà siano modificate – in peius – da previsioni urbanistiche sopravvenute il Comune è tenuto ad “indennizzare” i relativi proprietari alla stregua del valore di mercato dell’incentivo riconosciuto ovvero a concordare con gli stessi ulteriori modalità di compensazione).

  1. Interventi edilizi e liberalizzazione delle variazioni di destinazioni d’uso degli immobili ricadenti in zona A

Dall’analisi della normativa regionale in materia di centri storici e di rigenerazione urbana emergono approdi assai variegati, non sempre coerenti con l’intento dichiarato di preservare l’identità e l’unitarietà del tessuto edilizio tipico e che paiono suscitare più di una incertezza, sia in ordine agli aspetti definitori sia in relazione ai profili più prettamente operativi e gestionali.

Ma è sul versante della legislazione statale che talune modifiche al d.P.R. n. 380 del 2001[43] profilano le perplessità più rilevanti. Trattasi di innovazioni che paiono mirate – come si è detto – all’assolvimento di una duplice funzione in relazione all’interesse pubblico allo sviluppo dell’economia ed a quello, strettamente correlato, all’uso del territorio, in difetto, tuttavia, di una correlazione, la cui risultante sembra avere implicazioni positive solo in ordine alla domanda di semplificazione del regime giuridico della trasformazione del territorio, con una tendenza a privilegiare gli interessi del mercato ed una contestuale dequotazione della partecipazione dei cittadini e dell’interesse pubblico alla tutela dell’edificato storico-artistico, attraverso un processo di progressiva deprovvedimentalizzazione, volto alla sostituzione dell’atto con l’attività istruttoria e la verifica dei presupposti iniziali all’avvio di attività devolute ai privati[44] .

Già con il c.d. “decreto del fare” n. 69 del 2013 erano stati ricondotti alla categoria della ristrutturazione edilizia (pur preceduta dal parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del bene) anche quegli interventi aventi ad oggetto la modifica della sagoma degli edifici storico-artistici, ancorché sottoposti alla disciplina vincolistica ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.

Sennonché, sul versante dei titoli abilitativi, l’ambito degli interventi di ristrutturazione liberalizzati risulta notevolmente ampliato dalla nuova disciplina in materia di variazione di destinazione d’uso.

 Il regime giuridico di siffatta ultima fattispecie[45], strettamente correlato allo jus utendi, generalmente ripartita in due categorie: a) mutamento di destinazione d’uso accompagnato dalla realizzazione di opere edilizie, b) mutamento d’uso correlato alla mera facoltà di godimento del bene, senza alcuna implicanza sull’assetto urbanisticoedilizio, è attratto nella legislazione regionale, in forza delle previsione di cui all’art. 10, co. 2 t.u. edil. che, appunto, dispone che siano le Regioni a stabilire, con legge, quali mutamenti – connessi o non connessi – a trasformazioni fisiche dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati a permesso di costruire o a segnalazione di inizio attività.

 L’indifferenza statale sul tema si arresta, tuttavia, in relazione alla fattispecie di mutamento d’uso funzionale urbanisticamente rilevante, la cui disciplina è, invece, contenuta nell’art. 23-ter t.u.edil., in combinato disposto con l’art. 3, che individua la definizione degli interventi edilizi e gli artt. 6, 10, 22 e 23, relativi al regime dei titoli abilitativi.

L’art. 23-ter – introdotto dal d.l. n. 133 del 2014 (c.d. “sblocca Italia”), convertito in l. n. 164 del 2014 – individua i mutamenti della destinazione d’uso di un immobile da ritenere urbanisticamente rilevanti e che, quindi, necessitano di uno specifico titolo abilitativo edilizio. Si tratta di destinazioni o utilizzi di immobili o singola unità immobiliare diversi da quelli originariamente previsti, ancorché non accompagnati dall’esecuzione di opere edilizie, purché tali da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale)[46] .

Il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale risulta urbanisticamente non rilevante, ed è pertanto sempre consentito, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali. Ove la variazione di destinazione d’uso fosse attuata attraverso la realizzazione di opere edilizie, configurandosi un intervento di ristrutturazione edilizia – secondo la definizione fornita nella prima scrittura dall’art. 3, co. 1, lettera d) t.u.edil., in quanto implicante la realizzazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente – l’intrapresa era in precedenza assoggettata al previo rilascio del permesso di costruire o alla presentazione di segnalazione certificata di inizio attività c.d. “pesante”.

Il legislatore, con l’art. 65-bis del d.l. 50 del 2017, ha modificato l’art. 3 del t.u.edil. in ordine alla definizione di restauro e di risanamento conservativo[47], statuendo che interventi siffatti – rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’immobile oggetto di intervento – consentono anche il mutamento della destinazione d’uso, purché la nuova destinazione sia compatibile  con i caratteri originari e, ovviamente, sia ricompresa tra le destinazioni funzionali previste dallo strumento urbanistico generale vigente e dai relativi piani attuativi.

 La modifica di regime giuridico emerge proprio dalla lettura della nuova formulazione dell’art. 3, co. 1, lett. c) t.u.edil: «gli interventi edilizi rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d’uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio».

Sicché l’art. 65-bis della l. n. 96 del 2017 apporta le seguenti modifiche: l’espressione «ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili» è sostituita dalla differente formulazione: «ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d’uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi».

Gli interventi di restauro e risanamento conservativo – anche all’interno delle zone omogenee A, in base al d.m. n. 1444 – possono esser così realizzati tramite procedimenti semplificati: comunicazione di inizio lavori asseverata, se le modifiche non riguardano le parti strutturali dell’edificio; in caso contrario l’intervento sarà assoggettato al regime della segnalazione certificata di inizio attività. Si interviene, così, a correggere l’orientamento assunto dalla Corte di cassazione[48] che si era volta a censurare artificiose parcellizzazioni degli interventi. Avendo definito un mutamento della destinazione d’uso come una ristrutturazione pesante, il giudice della legittimità ne aveva presupposto l’obbligatoria presentazione di una istanza, volta ad ottenere il permesso di costruire, paralizzando così la variazione di destinazione d’uso anche in relazione a quegli immobili – ricadenti in zona territoriale omogenea A – che non possono essere oggetto di ristrutturazione pesante o la cui trasformazione (radicale) venga, fittiziamente, celata da periodici interventi manutentivi o conservativi.

 Rileva la Corte che: «l’imprescindibile necessità di mantenere l’originaria destinazione d’uso caratterizza ancor oggi gli “interventi di manutenzione straordinaria”, non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dall’art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, sia oggi consentito nell’ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico. E altrettanto si dica per gli interventi di “restauro e risanamento conservativo”».

 Il che pare corroborato dalla necessità (non eventuale) – così come rimarcato dalla Corte di cassazione – di un controllo pubblico correlato alla rilevanza del bene storico e dell’interesse insito nello stesso.

 Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può, del resto, essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro modesta incidenza del bene. La non indifferenza dell’impatto degli interventi sembra, dunque, presuppore che essi non possano che essere soggetti ad un titolo edilizio (e, dunque, quanto meno ad una s.c.i.a. nella declinazione alternativa al permesso di costruire).

  1. Riuso del mosaico identitario e ristrutturazione edilizia leggera.

 L’analisi degli interventi legislativi regionali, in materia di rigenerazione urbana, evidenzia problematiche ulteriori in relazione agli attriti tra i principi regolatori statali della materia edilizia[49] e la disciplina del governo del territorio, affidata alle Regioni – con riferimento alla legislazione di dettaglio – che continua[50] ad affastellarsi, confusamente, rispetto alla incessante ricerca di un equilibrio tra ordinato assetto dei suoli e riutilizzo del patrimonio edilizio. Nella specie, la giurisprudenza costituzionale più recente, con l’obiettivo di guardare agli effetti che taluni esperimenti legislativi regionali in materia di pianificazione hanno indotto, mostra come nelle pieghe di una normazione di settore, sempre più orientata a superare l’ambito della legislazione concorrente, si sia tentato di modificare la tipicità e l’ambito di applicazione dei titoli abilitativi sub specie, ad esempio, di una nozione sempre più dilatata della ristrutturazione edilizia[51] .

Sul versante della disciplina dell’attività edilizia gli interventi delle Regioni provano a guadagnare spazi, rivisitando – talvolta abusivamente (così come stigmatizza la Corte costituzionale[52]) – tecniche ed istituti disciplinati dal t.u. edil. e correlati agli interventi di rigenerazione urbana.

 La tematica si inquadra nel trend, più recente, seguito dalle Regioni in materia di riuso del patrimonio edilizio esistente di valore identitario ed assume consistenza in relazione a taluni profili positivi emersi in sede applicativa, con particolare riferimento alla riqualificazione dei centri urbani e della qualità abitativa. Incentivare forme di ristrutturazione innovativa, se, da un lato, si può considerare strumento idoneo ad indurre una cultura di valorizzazione delle bellezze esistenti e alla salvaguardia dell’identità, del paesaggio urbano e del mosaico storico; per altro profilo, sembra poter prefigurare – in ragione delle tecniche semplificatorie in ordine al titolo abilitativo e alle correlate misure volte a riconoscere ex se ampliamenti volumetrici – il malgoverno del territorio urbanizzato oggetto di intervento.

Così, a più riprese, la giurisprudenza costituzionale[53], ha ricondotto alla competenza del legislatore nazionale la definizione delle categorie di interventi edilizi[54], cui si accede nel rispetto di titoli abilitativi tipizzati, in ragione di una competenza esclusiva statale, ponendo all’evidenza la distinzione – vincolante per i legislatori regionali – tra interventi di nuova costruzione e ristrutturazione edilizia pesante per un verso, ed opere di ristrutturazione edilizia leggera per altro profilo. L’orientamento della Corte circonda, dunque, di paletti l’interpretazione di istituti giuridici, già disciplinati dalla normativa statale di settore, anche al fine di scongiurare la compromissione di beni e valori (immobili) oggetto di particolari tutele.

La ristrutturazione edilizia, infatti, si pone come fattispecie di confine poiché, pur costituendo uno degli interventi di maggiore impatto sul costruito, sino a spingersi alla realizzazione di un organismo in toto o in parte diverso, risponde, comunque, ad una logica di recupero del patrimonio edilizio esistente. È noto, per converso, che interventi qualificati come di nuova costruzione sono subordinati al rilascio del permesso di costruire, che consegue all’assenso di un titolo abilitativo e che presuppone un controllo ex ante dell’intervento che si chiede venga autorizzato (e ciò anche nella fattispecie in cui il provvedimento consegua dal maturarsi del silenzio assenso). Va, inoltre, osservato che la distinzione tra ipotesi di ristrutturazione e nuova costruzione profila maggiori problematiche nei casi di opere realizzate mediante demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente (ristrutturazione ricostruttiva), la cui ammissibilità è stata oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale.

 La normativa nazionale, in ordine agli interventi di demolizione e ricostruzione, ha sempre ritenuto necessaria l’osservanza degli standard prescritti dal d.m. n. 1444 del 1968, così da assicurare la coerenza dei profili preesistenti del manufatto edilizio demolito (plano-volumetrici, tipologici, etc.) e la continuità di un rapporto funzionale con gli immobili contigui. Ed invero, può subito anticiparsi che accedendo ad un’altra interpretazione verrebbe inevitabilmente travolta la distinzione – tradizionale – tra tale tipologia di interventi e quelli di nuova costruzione.

Alla luce dell’emersione di tali problematiche, l’orientamento dalla Corte costituzionale – da ultimo espresso con la sentenza n. 70 del 2020, emanata nell’ambito del giudizio di incostituzionalità sulla l.r. Puglia n. 59 del 2018 – ha inteso ancorare i vincoli appena richiamati e relativi agli interventi di ristrutturazione edilizia, ai principi fondamentali della materia, dai quali non è possibile discostarsi neppure nell’ambito di pianificazioni volte ad incentivare – quella che suole definirsi – riabilitazione del patrimonio edilizio esistente, anche con carattere storico-identitario.

La tendenza ampliativa delle ipotesi ammissibili di ristrutturazione edilizia incontra, del resto attualmente, i limiti di cui al d.l. n. 32 del 2019 che ha reintrodotto per gli interventi di ristrutturazione ricostruttiva e prescindendo da qualsivoglia finalità di riqualificazione del tessuto urbano, il generale limite del volume e dell’area di sedime del manufatto demolito e ricostruito, nonché, per gli immobili vincolati, anche quello della sagoma. Si introduce, così, un concetto di valenza generale, secondo il quale – indipendentemente dalla nozione di ristrutturazione – gli interventi di demolizione e ricostruzione sono in ogni caso consentiti, ove rispettino le distanze legittimamente preesistenti[55] e vi sia coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito (nei limiti, tra l’altro, dell’altezza massima di quest’ultimo). Questa disposizione incide sull’ambito applicativo delle regole vigenti in materia edilizia.

Sicchè il legislatore – sulla scorta, peraltro, dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, contrario ad una progressiva estensione interpretativa dei principi regolatori della materia edilizia – segna, dunque, la resipiscenza di quei vincoli che, in ragione delle politiche di semplificazione dell’attività amministrativa anche in edilizia, erano stati fortemente dequotati. Interventi di demolizione e ricostruzione sono, dunque, consentiti – a tenore della riforma – nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti, a condizione che vi sia il rispetto dei limiti di altezza dell’edificio oggetto di intervento e l’area di sedime e il volume dell’immobile ricostruito coincidano con quelli del fabbricato demolito. La norma presuppone un’invarianza del complessivo volume dell’edificio ricostruito e dell’altezza dello stesso, nonché dell’area di sedime (non consentendo riduzioni o aumento della stessa).

 Per altro profilo, l’intervento normativo incidendo sull’art. 2-bis, comma 1, t.u. edil., interviene anche in materia di rigenerazione urbana, consentendo alle Amministrazioni regionali di introdurre, con proprie leggi o regolamenti, disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/1968 in materia di standard urbanistici, ossia previsioni che fissino la quantità minima di spazio che ogni piano regolatore generale deve, inderogabilmente, riservare all’uso pubblico, sia pur nei soli limiti inerenti alle distanze minime e alle altezze massime da osservare nella (ri)edificazione degli (e tra gli) edifici.

Inoltre, negli strumenti urbanistici devono essere definiti ambiti territoriali la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare alla realizzazione di edilizia residenziale sociale, di rinnovo urbanistico e edilizio, di riqualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti, anche riconoscendo aumenti di volumetria in funzione premiale[56] .

 Sul versante del diritto positivo e della prassi applicativa va, inoltre, rilevato che tale inversione di rotta ha, per vero, ingenerato una situazione di incertezza normativa, soprattutto con riferimento alle prescrizioni delle pianificazioni urbanistiche regionali: in itinere più di una Regione si è dotata di strumenti volti a disciplinare misure incentivanti, con finalità di agevolare interventi di riqualificazione edilizia, svincolati dai limiti già ritenuti essenziali per la identificazione di siffatti interventi come opere di “ristrutturazione conservativa”[57].

 Sicché, nell’ambito degli strumenti di pianificazione, può scorgersi più di un tentativo di elusione della normativa statale di settore appena richiamata, attraverso tecniche urbanistiche talvolta idonee a creare ipotesi surrettizie di sanatoria edilizia[58] cui il legislatore ha inteso porre un limite applicativo, in ragione della evidente violazione del riparto di competenze in materia[59] .

  1. Rilievi conclusivi

L’analisi dianzi condotta mostra le cautele con le quali è necessario accostarsi ai processi di rigenerazione urbana [60] del patrimonio edilizio culturale e identitario, oggi fortemente incentivati dalle previsioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’ineludibile funzione della rigenerazione urbana di superare e risolvere situazioni di abbandono e di degrado fisico del costruito storico e di arginare, contestualmente, il fenomeno di “desertificazione” dei borghi, di ridurre situazioni di disagio sociale e di ghettizzazione attraverso forme nuove di pianificazione urbanistica[61] non può, tuttavia risolversi nella adozione mera di modelli procedimentali semplificati.

I progetti di rigenerazione dei centri storici e, più in generale, delle aree urbane richiedono, per vero, una strategia complessa e coordinata tra i diversi livelli istituzionali, che – ferma la salvaguardia dei valori identitari – assuma a presupposto la partecipazione della comunità, rispetto alla quale ne dovrebbe essere enfatizzato il contenuto sostanziale e non meramente formale, attraverso tecniche di consultazione dei portatori di interessi (semplici e diffusi), collocate in una fase preliminare rispetto alla redazione del progetto, garantendo, al contempo, elevati standard qualitativi necessari al miglioramento della qualità della vita e dell’abitato; al contrario, si rischierebbe – come l’esperienza più recente dimostra – di incidere sul territorio prescindendo dall’equilibrato contemperamento degli interessi pubblici e privati che sullo stesso convergono e che la pianificazione urbanistica tradizionale ha assicurato.

La valorizzazione del tessuto identitario edificato passa, dunque, per poter cogliere appieno gli obbiettivi strategici delineati nel Pnrr, attraverso interventi di trasformazione edilizia e di regime d’uso, manutentivi o conservativi, che non possono esser disgiunti da una preventiva considerazione unitaria del bene culturale, dell’aggregato o del nucleo di insediamento originario e del contesto architettonico ad esso cosustanziale, sia in considerazione dell’in sé sia quale leva di sviluppo culturale ed economico delle popolazioni e dei territori, nella prospettiva di una parcellizzazione degli interventi edilizi nei centri storici, che non privilegi la considerazione unitaria dei complessi omogenei, anche e soprattutto in vista del risanamento e della riqualificazione.

Si pone, così, in termini di effettività la funzione comunale in materia, non solo in relazione a valutazioni tecniche e quantitative tradizionalmente legate alla mera verifica del carico urbanistico di ciascuna zona ma, anche, in considerazione dei rilevanti profili di incidenza – talora irreversibili – rivenienti da quegli interventi o modifiche dell’uso dell’edificio che, pur assunte come funzionali alla rivitalizzazione ed al recupero dei centri storici, possano porsi in contrasto con la salvaguardia della città antica e del paesaggio urbano identitario. E tanto non può essere oggetto di regolamentazione differenziata da parte delle legislazioni regionali, alla ricerca di un nuovo ordine dei suoli per progetti che si discosti dalla pianificazione generale[62] .

 

 


*Professore associato di Diritto amministrativo nel Politecnico di Bari.

 1 M1C3 – Investimento 2.1. D.l. n. 77 del 2021; d.l. n. 80 del 2021; d.l. n. 152 del 2021; d.l. n. 13 del 2023. Il PNRR ha programmato, come è noto, l’utilizzo delle risorse rese disponibili dal programma Next Generation EU. Vedasi, altresì, la bozza di “Proposte per la revisione del PNRR e capitolo REPower EU”, Ministero per gli affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il PNRR, 27 luglio 2023. Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, tra i numerosi contributi, cfr. A. BARONE, Il tempo della perequazione: il Mezzogiorno nel PNNR, webinair AIPDA, Next Generation UE, 28 aprile 2021; M. A. SANDULLI, Sanità, misure generali sulla semplificazione e giustizia nel PNNR, in federalismi, 2021, 2 ss.; V. MANZETTI, Dalle origini all’attuale PNNR Italia: spunti di riflessioni, in Bilancio, com. pers., 2021, 128 ss. L. FIORENTINO, Il Piano di ripresa. Un’occasione per cambiare l’Amministrazione, in Gior. dir. amm., 2021, 689 ss.; S. STAIANO, Il Paino nazionale di ripresa e resilienza guardato dal Sud, in federalismi, 2021, IV; D. DE LUNGO, Contributo allo studio dei rapporti tra Piano nazionale di ripresa e resilienza e sistema delle fonti statali: dinamiche, condizionamenti e prospettive, in Osservatorio fonti, 2022, 33 ss.; M. MIRIDI, Il tempo delle funzioni pubbliche (a proposito del Piano nazionale di ripresa e resilienza), in federalismi, 2022, 148 ss.; A. MANZELLA, L’indirizzo politico, dopo COVID e PNRR, ivi, 2022, 146 ss.; E. TATI’, I controlli amministrativi alla luce del Piano nazionale di ripresa e resilienza: problemi e prospettive tra efficienza e condizionalità, ivi, 2022, 86 ss.; M. CECCHETTI, L’incidenza del PNNR sui livelli territoriali di governo e le conseguenze nei sistemi amministrativi, in Riv. AIC, 2022, 281 ss.; G. FERRAIUOLO, PNRR e correzione delle assimetrie territoriali, ivi, 2022, 307 ss. Sul tema specifico G. PRIMERANO, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Milano, 299 ss.

 

[2] 2 Sul tema cfr. U. POTOTSCHNIG, La difesa del suolo (ossia le Regioni senza difesa), in Le Regioni, 1991, 1, 19 ss.; G. PASTORI, Il seicentosedici rovesciato, ivi, 1991, 1, 25 ss.; F. G. CARTEI, Il problema giuridico del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 1261 ss.; AA.VV., Contenere il consumo di suolo (a cura di G.F. CARTEI e L. DE LUCIA), Napoli, 2014, 3 e ss.; G. IUDICA, Ruolo dell’agricoltura e consumo di suolo, in Riv. giur. edil., 2014, 261 ss; E. BOSCOLO, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in www.pausania.it; ID., Il suolo bene comune, in AA.VV., La generazione dei piani senza espansione, Atti XVII Convegno nazionale AIDU, Catanzaro, 26 e 27 settembre 2014, Milano, 2016, 124 ss.; ID., Il suolo quale matrice ambientale e bene comune: il diritto di fronte alla diversificazione della funzione pianificatoria, in AA.VV., Scritti in onore di P. Stella Richter, II, Napoli, 2013, 1101 ss.; P. URBANI, A proposito della riduzione del consumo di suolo, ivi; C. GABBANI, Prospettive per un inquadramento giuridico dell’interesse al contenimento di suolo, in Federalismi.it, 2015, 5; F. F. GUZZI, Il contenimento del consumo di suolo alla luce della recente legislazione nazionale e regionale, in Riv. giur. urb., 2016, 25 ss.; W. GASPARRI, Suolo bene comune? Contenimento del consumo di suolo e funzione sociale della proprietà, in Dir. pubbl., 2016, 69 ss.

[3] 3 La nozione polisensa di rigenerazione nel diritto urbanistico e le implicanze problematiche alla stessa correlate sono oggetto del recente studio di A. ANGIULI, Rigenerazione identitaria e semplificazione nel governo del territorio, in AA.VV., Governo del territorio e patrimonio culturale, Studi del XIX Convegno nazionale AIDU (Bari-Matera, 30 settembre – 1 ottobre 2016), Milano, 2018, 29 ss., che ne chiarisce portata ed effetti in relazione al paesaggio ed ai beni culturali, nel rispetto dei valori identitari che ne dovrebbero costituire la matrice. Sul tema cfr., altresì, gli Atti del XX Convegno di studi AIDU su “La perequazione delle diseguaglianze: tra paesaggi e centri storici”, Udine, 29-30 settembre 2017, Atti in corso di stampa.

[4] 4 P. LOMBARDI, La difesa del suolo, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di R. FERRARA, M. A. SANDULLI, III, Milano, 2014, 667 ss.

[5] 4 P. LOMBARDI, La difesa del suolo, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di R. FERRARA, M. A. SANDULLI, III, Milano, 2014, 667 ss.

[6] Gli interventi legislativi e gli atti amministrativi generali più recenti, preordinati ad arginare e mitigare gli effetti spiegati dalla diffusione del fenomeno pandemico, denominato Covid-19, sulla salute e sulla incolumità delle comunità e dei cittadini, sulle intraprese private, sui livelli occupazionali e sulla competitività del “sistema Paese”6 si sono innestati – ampliandone portata ed effetti, in relazione a taluni settori dell’ordinamento e, con tratti di assoluta evidenza, sul regime dell’ordinato assetto dei suoli e di trasformazione del territorio – su di un processo – del pari torrenziale e non sempre univoco – di riforma dei principi e delle regole che disciplinano il procedimento e, in particolare, quella parte di azione della pubblica Amministrazione preordinata a legittimare l’esercizio di attività private o a conformare, sin dal momento genetico, l’iniziativa economica

[7]  Nella materia dell’edilizia, modelli giuridici di semplificazione e di “liberalizzazione” amministrativa – silenzio assenso, autorizzazione gratuita, asseverazione da parte di tecnici e progettisti, denuncia di inizio attività – pur connotati da rilevanti elementi di specialità, hanno trovato applicazione ancor prima dell’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo (7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i.). Già l’art. 48 della l. 5 agosto 1978, n. 457 aveva subordinato ad autorizzazione gli interventi c.d. di manutenzione straordinaria su immobili non gravati da vincoli storico-artistici o paesaggistico ambientali, prevedendo, tuttavia, gli effetti giuridici del silenzio assenso qualora non fosse intervenuta

[8]  A. ANGIULI, Il governo comunale del territorio alla ricerca di “sistema”, in AA.VV., Scritti in onore di Paolo Stella Richter, Napoli, 2013, II, 991 ss. Così anche G. CAIA, Governo del territorio e attività economiche, in Dir. amm., 2003, 707.

[9]  Così G. BERTI, Dinamica giuridico-economica nell’urbanistica, in Amministrare, 1998, 361.

[10]  F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, Venezia, 1994, fautore, come è noto, di una evoluzione ex apicibus dalla libertà “garantita” alla libertà “attiva”.

[11]  Il tema è centrale negli studi di V. CAPUTI JAMBRENGHI, Proprietà privata (disciplina amministrativa) (voce), in Dig. disc. pubbl., Torino, 1997, XII, 111 ss.; ID., Urbanistica tra diritto pretorio e nuovi principi, in AA.VV., Scritti in onore di Paolo Stella Richter, Napoli, 2013, II, 1209 ss. Per una “nuova” rappresentazione della proprietà urbana “funzionalizzata” P. STELLA RICHTER, Relazione generale, XIII Convegno annuale A.I.D.U., in Riv. giur. urb., 2012, 11 ss.

[12] Così P. OTRANTO, In tema di normazione ad effetto incerto. Dalla “cura” al “rilancio”: la legislazione dell’emergenza e disciplina dell’attività edilizia, in Riv. giur. edil., 2020, in press.

[13]  Le modifiche legislative al d.P.R. n. 380 del 2001 – che nel testo originario prevedeva tipologie di intervento riconducibili al regime giuridico dell’attività edilizia libera, per la quale non era richiesto alcun titolo abilitativo (art. 6) e due titoli abilitativi: il permesso di costruire (artt. da 10 a 21) e la denuncia di inizio attività (artt. 22 e 23) – ante riforma cd. “Madia” – possono così sintetizzarsi, a grandi linee: con il d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301 è stata introdotta la c.d. d.i.a. “pesante”, alternativa al permesso di costruire per alcuni specifici interventi; il d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito con l. 22 maggio 2010, n. 73, ha ampliato le tipologie di interventi di attività edilizia libera, distinguendo tra attività libera in senso proprio ed attività soggetta a preventiva comunicazione di inizio dei lavori; il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con l. 30 luglio 2010, n. 122, intervenuto sull’art. 19 della legge n. 241 del 1990, ha modificato il regime giuridico della denuncia di inizio attività, sostituita con la segnalazione certificata di inizio attività; il parere del 19 ottobre 2010 del Ministero della semplificazione ha ritenuto applicabile la disciplina dettata dal richiamato art. 19 alle regolamentazioni di settore, in forza del principio di «sostituzione automatica delle norme»; il d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con l. 12 luglio 2011, n. 106 ha introdotto, con l’art. 5, numerose modifiche strutturali alla disciplina delle attività in edilizia: 1) interpretazione dell’art. 22, commi 1 e 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, con l’estensione generalizzata della segnalazione certificata di inizio attività al settore dell’edilizia in sostituzione della denuncia, confermando l’applicazione della d.i.a. in alternativa al permesso di costruire, nelle ipotesi disciplinate dall’art. 22, comma 3, del t.u. edil.; la riduzione del termine, da sessanta a trenta giorni, assegnato al Comune per esercitare il potere conformativo o inibitorio; l’introduzione del silenzio assenso nel procedimento preordinato al rilascio del permesso di costruire, con le relative limitazioni; il d. l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con l. 11 novembre 2014, n. 164, ha modificato il regime giuridico del potere di autotutela della p.A. in relazione alla segnalazione certificata; ha ampliato i termini per l’inizio e la conclusione dei lavori e ridefinito la disciplina in materia di proroga per l’avvio e l’ultimazione degli interventi autocertificati; ha riformulato la definizione della manutenzione straordinaria individuata dall’art. 3, comma 1 lett. b) del t.u. edil.; ha esteso l’ambito di applicazione della s.c.i.a. alle varianti c.d. “ minori” al permesso di costruire, incrementando per il titolo abilitativo espresso il novero delle fattispecie di rilascio in deroga agli strumenti urbanistici, non più limitate agli edifici pubblici, ma includenti anche il recupero di aree industriali dismesse; ha ridefinito il concetto di mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante. Sul tema sia consentito rinviare a G. GUZZARDO, Decostruzione amministrativa nel governo del territorio, Bari, 2018.

[14] 14 Disciplinante il silenzio assenso tra pubbliche Amministrazioni che estende il modello procedimentale generale alle ipotesi in cui vengano in rilievo interessi “sensibili”, prevedendo in tali casi il termine più lungo di 90 giorni.

[15]  P. STELLA RICHTER, Relazione generale, in AA.VV., La sicurezza del territorio. Pianificazione e depianificazione, Atti XV e XVI Convegno nazionale AIDU, Milano, 2015, 143 ss.

[16]  Il tema è centrale negli studi di V. CAPUTI JAMBRENGHI, Destinazione e regole dell’uso dei beni culturali pubblici e privati, in AA.VV., Scritti in onore di S. Cassarino, Padova, 2001, I, 247 ss.; ID., Proprietà-dovere dei beni in titolarità pubblica, in AA.VV., Titolarità pubblica e regolazione dei beni, Annuario AIPDA, 2003, Milano, 2004, 64 ss. (con riferimento ai beni culturali in “mano” pubblica).

[17]  Ossia all’esito di una previsione espressa del piano paesaggistico o dell’apposizione di un vincolo diretto, ai sensi dell’art. 136, lett. c) del d.lgs. n. 42 del 2004.

[18]  Secondo correttivo al Codice dei beni culturali e del paesaggio.

[19]  Così, testualmente, A. ANGIULI, La genesi urbanistica del centro storico: dalla “Carta di Gubbio” alle nuove problematiche del risanamento, in www.aedon.it, 2015, 2, 94.

[20] 20 A. ANGIULI, La genesi urbanistica del centro storico: dalla “Carta di Gubbio” alle nuove problematiche del risanamento, cit., 94.

[21]  Sui programmi integrati di intervento cfr. D. DE PRETIS, Piani integrati e buon andamento dell’amministrazione, in Le Regioni, 1993, 919 ss.

[22]  Sul tema R. DAMONTE, Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio di cui al d.m. 6 ottobre 1998, n. 1169, in Riv. giur. edil., 2001, II, 33 ss.

[23] 23 Cfr., senza pretesa di esaustività, i contributi raccolti in AA.VV., Presente e futuro della pianificazione urbanistica, F. PUGLIESE-E. FERRARI (a cura di), Milano, 1999

[24]  Così G. SEVERINI, Centri storici: occorre una legge speciale o politiche speciali, in www.aedon.it, 2, 2015.

[25] Così L. FERRUCCI, Le potenzialità economiche dei centri storici, in www.aedon.it, 2, 2015.

[26]  L. FERRUCCI, Le potenzialità economiche dei centri storici, cit

[27]  A. SIMONATI, La disciplina regionale dei centri storici: convergenze e divergenze alla luce degli sviluppi recenti, in AA.VV., Governo del territorio e patrimonio culturale, cit., 255 ss.

 AA.VV., L’immateriale economico dei beni culturali, a cura di A. BARTOLINI-G. MORBIDELLI, Torino, 2016.

[28]  AA.VV., L’immateriale economico dei beni culturali, a cura di A. BARTOLINI-G. MORBIDELLI, Torino, 2016.

[29]  Cfr. ad esempio le discipline regionali in materia di “albergo diffuso” che talora dettano regole specifiche per gli immobili siti nei centri storici.

[30]  Cfr., ad esempio, l. Regione Campania n. 26 del 2002

[31]  Cfr., ad esempio, l. Regione Calabria n. 19 del 2002.

[32]  Cfr., ad esempio, l. Regione Abruzzo n. 13 del 2004.

[33]  Cfr., ad esempio, l. Regione Marche n. 11 del 1997.

[34] Cfr., ad esempio, l. Regione Piemonte n. 19 del 2015

[35]  Cfr., ad esempio, l. Regione Sicilia n. 16 del 2016.

[36]  Cfr., ad esempio, l. Regione Liguria n. 29 del 2009; l. Regione Umbria n. 1 del 2015.

[37] Cfr., ad esempio, l. Regione Emilia-Romagna n. 20 del 2000.

[38] Cfr., ad esempio, l. Regione Abruzzo n. 22 del 2013 ove si ammettono – previa emanazione di un apposito regolamento – deroghe al rispetto dei parametri urbanistico-edilizi propri della zona territoriale omogenea in cui è stato inserito l’immobile oggetto dell’intervento.

[39]  Cfr., ad esempio, l. Regione Molise n. 7 del 2015 che ammette l’ampliamento delle volumetrie degli immobili siti in centri storici in deroga alle regole vigenti, per garantire la vivibilità, l’abbattimento delle barriere architettoniche o l’efficientamento energetico.

[40] Cfr., ad esempio, l. Regione Emilia-Romagna n. 15 del 2013 e s.m.i. in cui sono previste regole speciali per l’individuazione, nei piani urbanistici, delle condizioni di ammissibilità della destinazione d’uso degli immobili siti nei centri storici.

[41] Cfr., ad esempio, l. Regione Umbria n. 1 del 2015 che individua nella pianificazione strategica e nella perequazione urbanistica l’armamentario con cui approcciare alla riqualificazione dei centri storici.

[42]2 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 dicembre 2017, n. 5711, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 l. Regione Lombardia 28 novembre 2014, n. 31 per contrasto con gli artt. 5, 114 e 118 Cost.

[43]  Sul Testo unico in materia edilizia cfr., tra i numerosi contributi e manuali, V. MAZZARELLI, Il Testo unico in materia edilizia: quel che resta dell’urbanistica, in Giorn. dir. amm., 2001, 775 ss.; L. CIMELLARO L., Gli atti di assenso agli interventi edilizi, Milano, 2002; AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M. A. SANDULLI (a cura di), Milano, 2015; C. BEVILACQUA, F. SALVIA, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2017.

[44]  Fortemente critica in ordine a tale profilo la posizione di M. DUGATO, Sviluppo economico e sempificazione dei procedimenti urbanistici: l’eterna illusione, in AA.VV., Pianificazione urbanistica e attività economiche, Atti XVIII AIDU, Milano, 2016, 34, nel senso che «troppo spesso, infatti, si è agito ritenendo che la semplificazione muova necessariamente per mezzo della soppressione di procedimenti ed atti o per mezzo della loro sostituzione con atti ed attività da attribuire ai privati, non tenendo adeguatamente in conto il fatto che, ad invarianza degli interessi pubblici e delle funzioni a loro presidio, la sottrazione formale dell’atto all’amministrazione e la sua imputazione al privato determinano invece una complicazione strutturale dei comportamenti in gioco, richiedendo peraltro nuove regole di raccordo e nuove forme di relazione e di azione»

[45]  Sul tema, anche in relazione all’incidenza delle variazioni d’uso sulle previsioni calibrate dall’Amministrazione nella pianificazione attuativa, il contributo di G. GRECO, La destinazione d’uso degli immobili e il relativo mutamento (artt. 7, primo comma 8 e 25, ultimo comma), in Riv. giur. urb., 1986, 133 ss. Cfr., altresì, S. VILLAMENA, La liberalizzazione dei mutamenti d’uso (indicazioni metodologiche), in Riv. giur. urb., 2012, 117 ss.

[46]  Rileva P. MARZARO, La semplificazione sproporzionata: procedimenti e interessi alla ricerca di equilibrio e identità. La rottura del sistema nel Testo unico dell’edilizia, Riv. giur. urb., 2014, 644, come il rilievo urbanistico in ordine alle categorie edilizie di cui all’art. 23-ter sia lasciato “in bianco” dal legislatore statale, il quale “anziché specificare in cosa e come esso si risolva, si limita a sancire che il passaggio dall’una all’altra è un mutamento rilevante.

[47]  Il decreto SCIA 2, che ha modificato il testo unico per l’edilizia, fornisce le seguenti classificazioni: “Restauro e risanamento conservativo leggero”, realizzabile previa presentazione della CILA, gli interventi che consentono destinazioni d’uso compatibili con quella iniziale; “Restauro e risanamento conservativo pesante” i lavori sulle parti strutturali, ma che consentono sempre destinazioni d’uso compatibili. In questo caso è richiesta la s.c.i.a.; “Ristrutturazione pesante” gli interventi che, all’interno delle zone A, comportano mutamenti urbanisticamente rilevanti della destinazione d’uso. La norma prevede in questo caso il permesso di costruire.

[48]  Cass., sez. pen. I, 14 febbraio 2017, 6873, in www.cortedicassazione.it. Il giudice della legittimità rileva «(…) la realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all’intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. L’opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (…) la categoria “ristrutturazione edilizia” a fronte del più ristretto ambito di quelle del “risanamento conservativo” e del “restauro” come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell’intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l’aumento delle unità immobiliari nonché l’alterazione dell’originale impianto tipologico – distributivo e dei caratteri architettonici. Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l’ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un’ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall’art. 3, comma 1, lett. d) del cit. T.U., in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di “un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”. L’intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione Non ha rilievo l’entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi: – di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d’uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.); – di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli “elementi tipologia” dell’edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.). Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi “di nuova costruzione”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all’art. 31, cit. T.U. e quella penale di cui all’art. 44, lett. b)»

[49]  Il riparto di competenze trova approfondimenti nei contributi – solo per citare i più significativi – di P. STELLA RICHTER, La nozione di «governo del territorio» dopo la riforma dell’art. 117 Cost., in Giust. civ., 1/2003, p. 107 ss.; ID., I principi del diritto urbanistico, Milano, 2018, spec. p. 9 ss.; S. AMOROSINO, Alla ricerca dei “principi fondamentali” della materia urbanistica tra potestà normative statali e regionali, in Riv. giur. edil., 2/2009, p. 3 ss.; ID. Retaggi della legge urbanistica e principi del governo del territorio, in AA.VV., Verso le leggi regionali di IV generazione. Studi dal XXI Convegno nazionale AIDU (Varese, 28-29 settembre 2018), P. STELLA RICHTER (a cura di), Milano, 2019, p. 55 ss.; ivi, F. SAITTA, Governo del territorio e discrezionalità dei pianificatori, p. 267 ss.; S. MANGIAMELI, Il titolo V della Costituzione alla luce della giurisprudenza costituzionale e delle prospettive di riforma, in AA.VV., S. MANGIAMELI (a cura di), Il sindacato di costituzionalità sulle competenze legislative dello Stato e delle Regioni: la lezione dell’esperienza, Milano, 2016, p. 5 ss.; G. MAZZOLLA, Le regioni difronte alla riforma costituzionale, in AA.VV, Le autonomie territoriali di fronte al processo di integrazione europea e alla riforma costituzionale. Atti del Convegno, Palazzo reale – Sala Mattarella (Palermo, 8 luglio 2016), Napoli, 2017, p. 15 ss.

[50]  Cfr., ad esempio, la l.r. Puglia n. 59/2018 – “interpretativa” della l.r. Puglia n. 14/2009 – dichiarata incostituzionale da Corte cost. 24 aprile 2020, n. 70. E, tuttavia, il Consiglio regionale della Puglia si è affrettato a discutere un nuovo Piano casa, preordinato a sanare “abusi” ed elementi strutturali, di notevole rilevanza, fortemente – si direbbe – “distonici” rispetto all’assetto urbanistico già predeterminato nei p.u.g. di cosiddetta “nuova generazione”.

[51]  Cfr. A. MANDARANO, La ristrutturazione edilizia al vaglio della Corte costituzionale, in Urb. appalti, 3/2012, p. 299 ss.; ID. Demolizione e ricostruzione di edifici tra competenze statali e regionali (commento a T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 16 gennaio 2009, n. 153), in Urb. appalti, 8/2009, p. 1009 ss.; C. P. SANTACROCE, Gli interventi di ristrutturazione edilizia (artt. 3 e 10 TUED), in Riv. giur. urb., 3-4/2014, p. 478 ss.; V. DE GIOIA, Il vincolo della sagoma tra ristrutturazione e sostituzione edilizia, in Urb. appalti, 5/2014, p. 587 ss.

[52] Si veda, da ultimo, Corte cost. 24 aprile 2020, n. 70, in cortecostituzionale.it.

[53]  Per un’analisi giurisprudenziale cfr., da ultimo, Corte cost., 24 aprile 2020, n. 70, nonché, ID., 27 dicembre 2019, n. 287; ID., 15 maggio 2018, n. 108; ID., 19 aprile 2017, n. 73; ID., 28 maggio 2014, n. 134, in cortecostituzionale.it; per la giurisprudenza amministrativa si veda Cons. St., sez. VI, 23 aprile 2018, n. 2448; ID., sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4728; ID., sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337; ID., sez. IV, 28 luglio 2017, n. 3763, in giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 26 settembre 2018, n. 916, in giustizia-amministrativa.it.

[54]  Per un approfondimento sul tema della “semplificazione” degli interventi edilizi sia consentito rinviare a G. GUZZARDO, La liberalizzazione uniformata degli interventi in edilizia. Effetti “di sistema”, in AA.VV., Governo del Territorio e Patrimonio Culturale. Studi del XIX Congresso nazionale AIDU (Bari-Matera, 30 settembre – 1° ottobre 2016), P. STELLA RICHTER (a cura di), Milano, 2017, p. 163 ss.; ID., Semplificazioni e complicazioni nei titoli edilizi, in Riv. giur. edil., 2/2015, p. 35 ss.

[55]  Tale facoltà, infatti, era dapprima concessa solamente per gli interventi attuati in c.d. zone A (centro storico) e senza che si potesse tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente, legittimamente edificate ma prive di valore storico, artistico o ambientale (cfr. art. 9, comma 1, D.M. n. 1444/1968). Per tutti i casi di nuova costruzione in zone diverse dai centri storici, era imposta una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti (o superiore, in proporzione all’altezza degli edifici).

[56]  Il tema è centrale nel contributo di M. GOLA, Perequazione e forme di incentivazione in funzione premiale, in AA.VV., La perequazione delle diseguaglianze: tra paesaggi e centri storici. Studi dal XX Convegno nazionale AIDU (Udine, 29-30 settembre 2017), P. STELLA RICHTER, Milano, 2018, 39 ss.; cfr., altresì, P. CIRILLO, La premialità edilizia, la compensazione urbanistica e il trasferimento dei diritti edificatori, in federalismi.it, 2019, 1 ss.

[57]  La c.d. manutenzione straordinaria o conservativa presuppone la preesistenza di un organismo edilizio già ultimato e operativo, di cui s’intende conservare o rinnovare la funzionalità. Infatti, l’art. 3, comma 1, lett. b) e c), t.u. edilizia, afferma che per “interventi di manutenzione straordinaria” si intendono le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni d’uso. Al contrario, e va sottolineato, per interventi di restauro e di risanamento conservativo si intendono gli interventi edilizi preordinati a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili.

[58]  Per un approfondimento sulle tesi addotte a sostegno della inammissibilità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” cfr. L. RICCI, Accertamento di conformità e regolarizzazione edilizia successiva atipica (c.d. «sanatoria giurisprudenziale»), in Riv. giur. edil., 2009, 737 ss.; A. TRAVI, La sanatoria giurisprudenziale delle opere abusive: un istituto che non convince, in Urb. appalti, 2007, 339 ss.; più di recente cfr. P. TANDA, L’orientamento (a volta contrastante) dei giudici amministrativi e penali sull’ammissibilità della c.d. sanatoria giurisprudenziale, in Riv. giur. edil., 2018, 170 ss.; P. BERTACCO, La rigenerazione urbana come occasione per ripensare l’accertamento di conformità, in Urb. appalti, 2018, 729 ss.

[59] 59 Sul profilo inerente alla c.d. “costituzionalizzazione” del governo del territorio si veda il contributo di P.L. PORTALURI, Riflessioni sul “governo del territorio” dopo la riforma del Titolo V, in Riv. giur. edil., 2002, 376 ss.

[60] L’approdo giurisprudenziale del concetto di rigenerazione urbana è identificabile nella sentenza della Corte costituzionale 1° ottobre 2007, n. 307, in cortecostituzionale.it, ma soprattutto nella giurisprudenza del Consiglio di Stato inaugurata con la nota sentenza “Cortina d’Ampezzo” della Sez. IV del Consiglio di Stato 10 maggio 2012, n. 2710, in giustizia-amministrativa.it, divenuta orientamento generale, condiviso anche dai Tribunali territoriali.

[61] Cfr. M. S. GIANNINI, Pianificazione, op. cit., p. 629 ss.; M. BREGANZE, Edilizia e urbanistica, op. cit., p. 211 ss.; nonché, V. MAZZARELLI, L’urbanistica e la pianificazione territoriale, in AA.VV., S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, II ed., Milano, 2003, 3335 ss.

[62]  Con riferimento alla necessità di dettagliare, attraverso le pianificazioni urbanistiche, parametri utili a non esporre il territorio a trasformazioni “indiscriminate”, si veda ancora il contributo di A. ANGIULI, Il governo comunale del territorio alla ricerca di “sistema”, op. cit., p. 1289 ss.

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