tratto da luigioliveri.blogspot.it
Riforma delle province incostituzionale: inevitabile prenderne atto
Moltissimi giornalisti, tra i quali spicca ovviamente Sergio Rizzo, avevano fatto una campagna ossessiva per l’abolizione delle province. Gli esiti del referendum rendono questa “meta” adesso molto complicata e la stampa generalista se ne adonta moltissimo, persistendo in una campagna degna sicuramente di miglior sorte.
Sia subito chiaro: non perché vi sia nulla che vieti di riformare l’ordinamento istituzionale e l’organizzazione della pubblica amministrazione, anche eliminando enti come le province.
Tuttavia, per perseguire questo scopo, occorrerebbe sgomberare il campo dai due clamorosi errori commessi da Governo e Parlamento in questi anni, nella compulsiva volontà di assecondare le inchieste sommarie e disinformate dei giornali e nella convinzione di dare vita ad una misura populistica dal consenso facile:
1. poiché le province sono un ente espressamente considerato dalla Costituzione come un elemento fondante della Nazione e della Repubblica, per eliminarle occorre riformare la Costituzione, prima e non dopo di una legge ordinaria, come la Delrio;
2. se l’intento è, oltre alla razionalizzazione amministrativa, anche quello di risparmiare risorse, esso è assolutamente velleitario ed erroneo: le province, come qualsiasi altro ente, spendono le risorse affidate alla loro gestione allo scopo di erogare servizi. L’unico sistema per risparmiare non è eliminare l’ente che li gestisce, quei servizi, bensì eliminare i servizi stessi a discapito dei cittadini che ne hanno bisogno, poiché se non si azzerano necessariamente qualche altro ente dovrà garantirli, senza, quindi, che si produca alcun risparmio significativo.
L’economista Roberto Perotti, tra i tantissimi sostenitori dell’abolizione delle province, ha quotato di recente il risparmio vero conseguibile: 340 milioni circa. Si tratta di una cifra certamente importante, ma assolutamente non risolutiva della situazione della finanza pubblica, in quanto rappresenta appena lo 0,04% del totale della spesa pubblica. Il nulla.
L’Unione Province Italiane, debolissima associazione delle province che con altrettanta (se non maggiore) debolezza ha cercato di difendere queste istituzioni da un attacco in realtà considerato inevitabile anche dall’associazione stessa (in particolare con l’attuale presidenza), ha spiegato nei giorni scorsi che la spesa corrente delle province si è ridotta di 2,7 miliardi, pari al 37% degli iniziali circa 8 miliardi, assestandosi in circa 5,3 miliardi di euro.
Non è stato, tuttavia, evidenziato che si tratta di una riduzione della sola spesa corrente del comparto delle province, non della spesa pubblica italiana nel suo complesso, che, infatti, non scende affatto, ma aumenta.
Il perché è molto semplice: la spesa corrente sparita dai bilanci delle province si è trasferita nei bilanci dei comuni, delle amministrazioni statali e soprattutto delle regioni. Infatti, tutte queste amministrazioni hanno assorbito i circa 20.000 dipendenti provinciali trasferiti a forza, per effetto della legge 190/2014, addossandosi la spesa connessa di circa 650 milioni; comuni e, soprattutto, regioni, poi, hanno anche acquisito mole delle funzioni non fondamentali provinciali sostituendosi alle province nell’erogare sostanzialmente il medesimo volume di spesa corrente.
Dopo il referendum, come detto, la stampa generalista non molla la presa e torna ad attaccare un bersaglio facile per il populismo imperante. Su La Repubblica on line dello scorso 7 dicembre, ad esempio, campeggiava l’articolo di Carmelo Lo Papa dal titolo “Riecco le Province. Cento carrozzoni da 5 miliardi di euro l’anno, tutti sull’orlo del dissesto. E ora da rifinanziare per strade e scuole”. Un condensato di populismo e indicazioni erronee, quando non del tutto false. L’esordio è questo: “Riecco le Province. Sorelle mature e altrettanto attempate del Cnel e riesumate anche loro dalla vittoria del No al referendum di domenica. E ora chi le governa e chi le rappresenta torna alla luce, esce dalle “catacombe” di questi anni e soprattutto degli ultimi mesi, rivendica ruoli e finanziamenti. Tanti. Anche perché i vecchi enti tornati in vita, pur senza i consigli e gli organi elettivi, nel frattempo sono andati tutti in dissesto o quasi”.
Il giornalista commette un’omissione gravissima, per chi ha il compito di dare informazioni complete: se le province sono andate in dissesto o quasi, ciò è dovuto alla legge 190/2014. La stampa generalista ha sempre raccontato che tale norma ha previsto “tagli” alle spese delle province. Non è affatto così. La legge 190/2014 ha, al contrario, previsto un prelievo forzoso: ha, cioè, imposto alle province a decorrere dal 2015 di versare allo Stato le somme di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016 e 3 miliardi nel 2017 (che si aggiungono a 1,5 miliardi di precedenti interventi a partire dal Governo Monti), corrispondenti al volume di entrata dei tributi provinciali. In pratica, le province hanno fatto da gabelliere di Stato, continuando ad esigere le imposte, ma non potendole più spendere per i servizi delle proprie comunità, essendo costrette a versarle al bilancio statale: ciò ha fatto saltare totalmente i conti, perché come spiegato da Report mesi addietro, il Sose, società cui era stato affidato il compito di computare i risparmi possibili derivanti dalla riforma, aveva affermato che al massimo i bilanci delle province potevano sostenere 1 miliardo di riduzione della spesa corrente, da girare allo Stato.
Così non è andata, perché un legislatore sommario e frettoloso – come dimostrato nel frattempo da moltissimi altri esempi, vedasi legge Madia – ha insistito con tagli insostenibili.
Ora le province non rivendicano per nulla finanziamenti “tanti” e subito. La stampa generalista non ha ben compreso che le province hanno, come qualsiasi altro ente, dovuto gestire determinati compiti e rivolgere la spesa ai servizi connessi. In particolare, sono rimasti in capo alle province i servizi per la manutenzione di 100 mila chilometri di strade, una rete fondamentale per l’economia e la vita dei cittadini; nonché 5.000 edifici scolastici. Le leggi statali hanno strozzato i bilanci provinciali, nell’illusione di una riforma costituzionale che poi non è giunta, oltre ogni misura e se adesso le province chiedono finanziamenti non è per se stesse, ma per poter assicurare l’erogazione dei servizi necessari.
E’ evidente che questo messaggio alla stampa non è chiaro: erogare servizi, significa spendere risorse pubbliche. Se si immagina di risparmiare i “finanziamenti chiesti” dalle province, per insistere sull’abolizione di questo ente, si potrebbe forse ottenere il tanto agognato esito della sparizione delle province, è vero; ma se si vuole garantire il diritto allo studio di milioni di studenti delle superiori e il diritto alla mobilità dei cittadini, allora quella spesa necessaria, se non gestita dalle province, dovrà comunque essere gestita ed erogata da altri. E il risparmio sarà sempre e comunque prossimo allo zero.
Ma, la stampa generalista insiste. Pur chiedendosi cosa succede alla sciagurata riforma Delrio, cerca di mandare messaggi tranquillizzanti e far passare l’idea che non sia accaduto nulla.
Questa è la linea de Il Messaggero, giornale molto governativo in questi anni e molto partecipe alla campagna populistica anti province. Sempre il 7 dicembre è stato pubblicato l’articolo “Le Province resuscitate dal No chiedono aiuto a Mattarella: non riusciamo a fare i bilanci”, nel quale si affronta appunto il tema della riforma delle province dopo il no a furor di popolo alla riforma della Costituzione.
L’articolo riporta tre tesi:
1. quella del costiuzionalista Ugo De Siervo: “Chiaro il ragionamento del giurista Ugo De Siervo, già presidente della Corte Costituzionale, che ammette senza giri di parole che «per le Province, e allo stesso modo per le Città Metropolitane, tutto rimarrà secondo l’impostazione data dalla legge 56». Anche se, aggiunge, «a questo punto qualcuno potrebbe chiedere una verifica della sua legittimità costituzionale». De Siervo spiega che «in termini effettivi la mancata revisione della costituzione non cambia nulla rispetto alla legislazione esistente», non senza segnalare però che «quella legge operava delle innovazioni che sarebbero state rese definitive e radicali con modifiche della Carta». Tuttavia, rileva, «rimane nei fatti una situazione che qualcuno potrebbe definire deplorevole e deficitaria, e per questo potrebbe chiedere una verifica sulla legittimità costituzionale di quel provvedimento». Il punto è che ad esempio il termine Province, con il varo degli enti di Area Vasta, «è stato sostanzialmente e non formalmente eliminato»”;
2. quella di Giancarlo Bressa, tra i protagonisti, in Parlamento, del sostegno più forte alla devastante riforma: “Diverso l’approccio del sottosegretario uscente agli Affari regionali Gianclaudio Bressa, tra i padri della legge 56: «La questione è semplice, quel provvedimento – in vigore ormai da due anni e mezzo – è stato approvato a Costituzione vigente, che poi non è stata modificata, quindi nulla cambia». Al comma 51 del primo articolo si ricordava con chiarezza «che si era “in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione”, ma tutto ciò – osserva – riguardava aspetti di coordinamento tra i vari enti e la necessità di operare qualche aggiustamento». Quindi, «gli enti di area vasta, secondo la denominazione della legge 56, continueranno a chiamarsi Province, al di là di ogni possibile questione di tipo nominalistico. Del resto le loro funzioni quelle erano e quelle rimangono»”;
3. quello dell’ex presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti, Antonio D’Atena: “«Posso dire, come ho fatto a suo tempo nelle commissioni parlamentari, che la legge Delrio abbia degli aspetti di provvisorietà, visto che ha trasformato le Province in enti di secondo grado, ma la Consulta ha validato quell’impostazione, regolando così la presenza di Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato». Categorico infine sull’arrivo di possibili ricorsi: «Credo che possano riguardare soltanto questioni incidentali di legittimità costituzionale»”.
E’ necessario affermare che nessuna delle tre tesi suggerite dagli interlocutori de Il Messaggero appare convincente e corretta.
Non è vero che, archiviato il no alla riforma della Costituzione, non cambi nulla.
In particolare, risulta del tutto erroneo e inaccettabile il ragionamento proposto dal Bressa. La legge Delrio, la 56/2014, appare irrimediabilmente viziata da un gravissimo difetto di legittimità costituzionale, reperibile in quanto riportato nell’articolo 1, commi 4 e 51, laddove si dispone espressamente che il nuovo ordinamento delle città metropolitane e delle province è disposto “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione”.
Si tratta di una previsione semplicemente inaccettabile e devastante in un ordinamento giuridico basato su una Costituzione rigida, posta al vertice della gerarchia delle fonti. Se si ammettesse che una legge ordinaria possa intervenire su qualsiasi aspetto dell’ordinamento giuridico immaginando una successiva riforma della Costituzione ed anticipandone alcuni effetti “in attesa” che detta riforma venga poi, effettivamente, in vigore, allora si consentirebbe domani a qualsiasi Governo e Parlamento di oltraggiare la Costituzione con semplici leggi ordinarie, inserendo la stessa clausola di stile contenuta nella legge Delrio.
La bocciatura della riforma quale esito del referendum del 4 dicembre, suona anche necessariamente come bocciatura sonora della legge Delrio, in quanto essa è stata espressamente adottata in attesa di una riforma della Costituzione, in quanto legge ordinaria che, di fatto, ha agito nell’esercizio di un potere costituente e non di legislazione ordinaria.
Esiste un dovere politico, oltre che giuridico, di intervenire sulla legge Delrio almeno per eliminare esattamente quella clausola di stile, semplicemente inaccettabile per l’ordinamento, al netto, poi dei problemi complessivi di costituzionalità del disegno della riforma.
Che andrebbe cancellata e profondamente rivista (tornare totalmente indietro non sarà possibile) per almeno due motivi. Uno di fatto, l’altro sempre di legittimità costituzionale.
Esaminiamo il motivo di fatto. La legge Delrio andrebbe profondamente rivista per una ragione molto semplice: oltre ad aver illegittimamente inteso anticipare gli effetti di una riforma costituzionale, è risultata, in combinazione con la legge 190/2014, un disastro operativo di proporzioni gigantesche. Infatti, ha determinato quasi tre anni di mancate manutenzioni alle strade, divenute dei colabrodi, e alle scuole che ben lontane dall’essere “belle” e “buone”, a loro volta risentono fin troppo di mancati finanziamenti per interventi di manutenzione, rispetto della normativa anti incendi ed anti sismica. Ma non sono solo queste le disfunzioni causate, come si nota, non all’ente provincia, bensì ai cittadini e ai loro diritti: si potrebbe parlare della riduzione formidabile delle ore di formazione professionale, o anche della conculcazione gravissima del diritto allo studio dei disabili, privati del servizio di accompagnamento a scuola e dell’assistenza allo studio, nel caso dei disabili sensoriali.
Oltre a questo cumulo di macerie organizzative e disastri dei servizi, una parte intera della legge Delrio non ha assolutamente funzionato: l’incentivazione all’associazionismo comunale, che avrebbe addirittura dovuto creare unioni tali da sostituirsi alle province come enti intermedi tra comuni e regione. Solo in Friuli Venezia Giulia l’esperimento è ancora in corso, ma destinato già al fallimento, analogo a quello che si è già registrato in Sicilia, dove la trasformazione delle province di “liberi consorzi” è una barzelletta esilarante. Nel resto d’Italia, forma associative sostitutive delle province non si sono viste nemmeno col microscopio a scansione nucleare, né mai si vedranno.
Sul piano strettamente giuridico, salta all’occhio che resta nella Costituzione l’indicazione delle province quali elementi essenziali della Repubblica, che con pari dignità istituzionale degli altri (comuni, città metropolitane, regioni e Stato) la costituiscono.
Il combinato disposto tra gli articoli 5 e 114 della Costituzione e, soprattutto, la loro pari dignità istituzionale, in relazione ancora all’articolo 1 che dispone la sovranità popolare, rende ovviamente costituzionalmente insostenibile una legge che ha privato i cittadini del diritto di voto dei rappresentanti politici provinciali. Nulla impedisce che essi continuino, come previsto dalla Delrio, a svolgere il loro mandato gratuitamente. Ma, l’elezione di secondo grado è una mortificazione della pari dignità istituzionale delle province e della sovranità popolare.
C’è ancora da osservare l’erroneità della visione proposta dal D’Atena, che ha richiamato implicitamente nell’intervista al Messaggero la sentenza della Corte costituzionale 50/2015, di rigetto di ricorsi proposti da alcune regioni contro la riforma Delrio. Una sentenza, in verità molto debolmente argomentata, figlia di un “clima” particolarmente contrario alle province e anche in qualche misura inevitabilmente condizionata dai contenuti dei ricorsi, oggettivamente non del tutto persuasivi.
Ma, il D’Atena, come qualsiasi altro costituzionalista e, soprattutto Governo e Parlamento, non dovrebbe dimenticare una ben più importante ed impattante sentenza della Consulta che, invece, fin qui è passata sotto silenzio, come non fosse mai stata pronunciata, nonostante essa sia deflagrante per far saltare in aria l’impianto della riforma Delrio nel suo micidiale combinato disposto con la legge 190/2014.
Si tratta della sentenza 205/2016, che nel respingere i ricorsi proposti contro l’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014, sancisce: “Più precisamente, dunque, disponendo il comma 418 che le risorse affluiscano «ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato», si deve ritenere – e in questi termini la disposizione va correttamente interpretata – che tale allocazione sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di area vasta connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio delle stesse funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della legge n. 56 del 2014). La previsione del versamento al bilancio statale di risorse frutto della riduzione della spesa da parte degli enti di area vasta va dunque inquadrata nel percorso della complessiva riforma in itinere. E, così intesa, essa si risolve in uno specifico passaggio della vicenda straordinaria di trasferimento delle risorse da detti enti ai nuovi soggetti ad essi subentranti nelle funzioni riallocate, vicenda la cui gestione deve necessariamente essere affidata allo Stato (sentenze n. 159 del 2016 e n. 50 del 2015). I commi 418, 419 e 451, dunque, non violano l’art. 119, primo, secondo e terzo comma, Cost. nei termini lamentati dalla ricorrente, perché le disposizioni in essi contenute vanno intese nel senso che il versamento delle risorse ad apposito capitolo del bilancio statale (così come l’eventuale recupero delle somme a valere sui tributi di cui al comma 419) è specificamente destinato al finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale misura si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di tali funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti”.
In modo incontrovertibile, la Consulta ha emanato per questa parte una sentenza interpretativa di rigetto in merito all’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014, espressamente considerato come una norma non incostituzionale solo se intesa nel senso che il prelievo forzoso da esso imposto alle province avrebbe un particolare “vincolo di destinazione”: cioè, trasferire le risorse necessarie allo svolgimento delle funzioni non fondamentali dalle province, agli enti subentranti.
Questo implica almeno le seguenti conseguenze:
1) sono incostituzionali tutte le leggi dello Stato che destinano i miliardi imposti come prelievo forzoso al bilancio dello Stato, senza che da lì defluiscano a finanziare gli enti subentrati alle province (per decisione delle regioni) nella gestione delle funzioni provinciali non fondamentali; in una parola, il prelievo forzoso destinato a sostenere spese diverse da quelle per le funzioni provinciali è costituzionalmente illegittimo;
2) le regioni che sono subentrate in larga misura alle province nella gestione delle funzioni non fondamentali, hanno pieno diritto di ricevere dallo Stato i 3 miliardi che questo sottrae alle province, per finanziare le funzioni provinciali non fondamentali che le regioni si sono accollate;
3) laddove le province fossero state confermate dalle regioni (in molti casi è avvenuto) quali titolari delle funzioni non fondamentali, a loro volta esse avrebbero il diritto di ricevere dallo Stato la quota parte del prelievo forzoso imposto, per finanziare i servizi (ivi compreso anche il personale).
A seguito del referendum del 4 dicembre 2016, le regioni potrebbero giustificatamente essere tentate dal restituire alle province tutte le funzioni non fondamentali. Infatti, il meccanismo perverso e devastante determinato dalla combinazione terribile delle fallimentari leggi 56/2014 e 190/2014, ha costretto le regioni a farsi direttamente carico di coprire per intero il prelievo forzoso imposto dallo Stato alle province, visto che lo Stato si è guardato bene dal considerare tali risorse come soggette al vincolo di destinazione, pur voluto dalla Corte costituzionale. Le regioni, quindi, potrebbero a giusta ragione affermare che, contrariamente a quanto asserito da prime superficiali analisi, la mancata approvazione della riforma costituzionale dà modo di riattribuire alle province funzioni e, di conseguenza, finanziamenti. Di fatto, erodendo quasi ad azzerare gli effetti della legge 190/2014. Ma, se si azzerano quegli effetti, vuol dire che le funzioni qualificate imprudentemente come “non fondamentali” in attesa di un futuro assetto costituzionale mai entrato in vigore, tornerebbero alle province, vanificando quasi del tutto la scellerata riforma Delrio, che ha avuto la presunzione di poter modificare un assetto istituzionale definito dalla Costituzione con una semplice legge ordinaria.
Pare ve ne sia abbastanza per concludere per l’irrimediabile incostituzionalità dell’impianto complessivo della riforma delle province. Il che è necessario affermarlo, allo scopo non di escludere a priori una possibile riforma delle province, bensì di confermare che non va bene qualsiasi riforma, in qualsiasi modo pensata e scritta; al contrario, le riforme possono rivelarsi utili ed efficaci, se oltre al titolo ed agli slogan populistici, si riesce a scriverle bene, ad incastrare tutti gli elementi, a fare una corretta valutazione di impatto e delle conseguenze e, soprattutto, qualora si tratti di una riforma attuativa di altra riforma della Costituzione, ad attendere che prima entri in vigore la riforma costituzionale, per poi, ma solo poi, adottare le leggi ordinarie necessarie.
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