L’istituto della restitutio in integrum nell’ambito dell’esercizio dell’azione disciplinare nel pubblico impiego: natura retributiva e non risarcitoria all’esito dell’illegittima applicazione della sospensione disciplinare cautelare
di Garofalo Silvio Quinzone, Dott.
10 settembre 2019
1. Applicazione della restitutio in integrum nei vari ambiti dell’ordinamento giuridico
Con la locuzione “restitutio in integrum” gli antichi giureconsulti romani solevano indicare il ripristino dell’originario stato sfera di diritti modificata dal verificarsi di eventi per lo più negativi (ad esempio, la restituzione di quanto eseguito in forza di un contratto nullo, per cui le prestazioni effettuate a favore dell’altro risultano prive di valido titolo) ed era chiesta ed ottenuta dal magistrato laddove ne ricorressero i presupposti (nell’esempio proposto, l’accertamento e la dichiarazione di nullità del contratto). Tale espressione letteralmente si può tradurre in “restituzione all’integrità” ed infatti viene spesso anche richiamata nella versione “restitutio ad integrum”, in particolare in medicina dove quest’ultima formulazione viene utilizzata per indicare “una ritrovata normalità e funzionalità degli organi ammalati a seguito di malattie che li avevano colpiti, con conseguente scomparsa definitiva di tutti i fenomeni morbosi”[1]. In generale negli altri ambiti dell’ordinamento giuridico la proposizione viene intesa come “restituzione nelle condizioni primitive”, ad esempio in diritto civile si può fare riferimento al settore delle obbligazioni, delle responsabilità civili, del pagamento dell’indebito (art. 2033 c. c.) e alla reintegrazione in pristino che si ha nel risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c. c.) od anche alla riduzione in pristino connessa alle azioni possessorie (art. 1168, 1169 e 1170 c.c.) e dell’azione di denuncia di nuova opera (art. 1171 c.c.).
Infine, la restitutio in integrum è anche prevista e disciplinata in diritto canonico, e precisamente al LIBRO VII (I PROCESSI) – PARTE II (IL GIUDIZIO CONTENZIOSO) – SEZIONE I – IL GIUDIZIO CONTENZIOSO ORDINARIO – TITOLO IX (LA COSA GIUDICATA E LA RESTITUTIO IN INTEGRUM) – (Cann. 1641 – 1648)[2], dove la stessa è un rimedio ad una sentenza passata in giudicato, che, per nuovi elementi sopravvenuti, è manifestamente contraria al diritto. In questi casi è ammesso il ricorso per la restitutio in integrum in modo che il Giudice che ha emesso la sentenza ovvero il tribunale di appello (rispettivamente entro tre mesi dalla scoperta dei vizi ovvero dalla notizia della pubblicazione della sentenza), valutate tutte le gravi evidenze portate alla sua attenzione dalla parte interessata, revocare la sentenza e riportare lo status quo ante della stessa. Tale rimedio è ammesso se la sentenza è fondata su documenti dimostratisi poi falsi, o se nuovi elementi di fatto esigano una decisione contraria, o se la sentenza è effetto di dolo d’una parte, ovvero se essa consegue a inosservanza evidente della legge. Quindi revocata la sentenza, si ha un effetto ripristinatorio di far riacquistare efficacia alle situazioni soggettive giuridiche e/o patrimoniali precedenti alla stessa.
Nel settore penale si prevede che ogni autore di fatti illeciti è obbligato alla restitutio in integrum (art. 185 c.p.), ed è intesa come una modalità di risarcimento del danno[3]. Così anche in ambito internazionale, laddove la restitutio in integrum è declinata come forma di restituzione dello status quo ante nei riguardi dello Stato che ha subito le conseguenze dell’illecito perpetrato: ad esempio, il caso di un fermo o detenzione illegittimi di navi, mezzi e persone da parte di cittadini di uno Stato straniero).
Ordunque, in generale nel linguaggio giuridico attuale quando ci si riferisce ad una “restitutio in integrum” si vuole significare la circostanza ovvero il provvedimento volto a ripristinare integralmente una situazione preesistente che è stata modificata da un fatto o da un atto giuridico.
2. Utilizzo della restitutio in integrum nel pubblico impiego: tra processo penale e illecito disciplinare
Venendo alla figura della restitutio in integrum nell’ambito del pubblico impiego e nello specifico dei casi che vedono i dipendenti pubblici coinvolti in procedimenti penali pendenti e, per gli stessi fatti ed atti, anche l’attivazione di procedimenti disciplinari per i quali si comminata la sanzione della sospensione facoltativa cautelare dal servizio[4], che hanno diritto ad usufruire di tale istituto qualora, all’esito del giudizio penale (anche se conclusosi con la condanna dell’imputato), ritenendo illegittima la sospensione facoltativa dal servizio precauzionalmente disposta durante il procedimento penale, la sanzione disciplinare non venga irrogata (tra le più recenti sentenze in tal senso: Cass. civ., Sez. lav., 10 agosto 2018, n. 20708).
Va rilevato che deve trattarsi dell’ipotesi di sospensione cautelare facoltativa e non di casi in cui il dipendente – ai sensi della vigente normativa che prevede le relative casistiche – deve essere sospeso obbligatoriamente. Ciò in quanto, mentre la determinazione della sospensione facoltativa spetta alla P.A. (datore di lavoro) effettuando una valutazione discrezionale, con riguardo non solo all’opportunità, ma anche alla durata e al mantenimento della stessa (ex multis: Cons. di Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6815)[5], per quella di natura obbligatoria, la valutazione è stata fatta a priori dal legislatore collegando la stessa al verificarsi di atti e fatti di una gravità tale da non ritenere, al momento, proseguibile il rapporto di lavoro, tant’è che se vengono accertati, si applicherebbe la sanzione del licenziamento[6].
Pertanto, si ribadisce che la restitutio in integrum deve essere accordata solo ed esclusivamente con riferimento alle sospensioni facoltative e non anche a quelle obbligatorie, che costituiscono per la P.A. un potere-dovere ineludibile. Infatti, l’orientamento giurisprudenziale consolidatori sul punto, afferma che: “L’obbligatorietà della sospensione costituisce factum principis (o meglio, volontà di legge influente direttamente e in via definitiva, sulla sospensione delle prestazioni reciproche nell’ambito del rapporto di lavoro) che impedisce la prosecuzione del rapporto di lavoro, senza che tale circostanza possa esser addebitata alla P.A. datrice di lavoro con la conseguenza che, su di essa, non può gravare alcuna imputabilità dell’inadempimento di erogare quanto dovuto” (Tra le prime pronunce in tal senso: cfr. Consiglio Stato, Ad. Plen., 2 maggio 2002, n. 4; Consiglio Stato, Sez. V – Sentenza 5 novembre 2012, n. 5593). Tale principio si basa sul fatto che il periodo di sospensione cautelare obbligatoria è, appunto, atto dovuto da parte dell’Amministrazione in conseguenza di una misura penale restrittiva della libertà personale del dipendente condannato in sede penale e che, per ciò solo, è disposta per effetto delle richiamate, precise e vincolanti disposizioni legislative (tra cui: art. 289 c.p.p., la sospensione dal servizio per sentenza di condanna anche non definitiva ai sensi dell’art. 4 della legge n. 97 del 2001, la sospensione dalla funzione ai sensi dell’art. 15 della legge n. 55 del 1990 novellato dall’art. 1 della legge n. 16 del 1992), che non implicano l’esercizio di una qualche discrezionalità da parte dell’Amministrazione procedente, e che di fatto impedisce la prestazione dell’attività lavorativa e, dunque, interrompe il sinallagma contrattuale (T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 02/03/2005, n. 1600).
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3. Le previsioni normative disciplinanti la restitutio in integrum
L’istituto in esame trova la sua previsione normativa sin dal combinato disposto degli artt. 96 e 97 del D.P.R. n.3/57 (che furono riprese anche all’art. 506 del Decreto legislativo, 16/04/1994 n° 297 – T.U. in materia di Istruzione, poi successivamente abrogato dall’art. 72, comma 1, lett. b), D. Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150), secondo il quale nelle ipotesi di illegittima sospensione va effettuata a favore del dipendente sospeso cautelarmente una reintegrazione parziale o totale, a seconda dei casi specifici, della situazione precedente alla sospensione, in quanto lo stesso ha per tale periodo percepito solo “un’indennità pari al 50% dello stipendio tabellare, nonché gli assegni del nucleo familiare e la retribuzione individuale di anzianità, ove spettanti” (Art. 64, comma 7, del CCNL Funzioni centrali 2016-2018).
In base alle previsioni delle disposizioni appena richiamate al dipendente deve essere garantita la restitutio in integrum qualora:
1) La sospensione dalla qualifica viene inflitta per durata inferiore alla sospensione cautelare sofferta o se viene inflitta una sanzione minore o se il procedimento si conclude con il proscioglimento dell’impiegato (art. 96);
2) Quando la sospensione cautelare sia stata disposta in dipendenza del procedimento penale e questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso (art. 97).
3) Altra ipotesi prevista al citato art. 97 è quella del dipendente sospeso per procedimento penale che sia stato prosciolto con formule diverse da quelle già indicate.
In quest’ultima ipotesi, potendo residuare delle responsabilità sotto il profilo disciplinare il procedimento disciplinare riprende (ai sensi delle disposizioni della legge sul rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale che nel tempo è stato disciplinato dall’art. 97 del d.P.R. n. 3/1957, dalla contrattazione collettiva, dalla legge n. 97/2001, dall’art. 55 ter del d.lgs. n. 165/2001, inserito dal d.lgs. n. 150/2009 e recentemente modificato dal d.lgs. n. 75/2017). Nel caso vi sia un inutile decorso dei 180 giorni previsti per procedere all’avvio dell’azione disciplinare dalla data in cui è divenuta irrevocabile (rectius, in cui è depositata: C. Cost., 25 luglio 1995, n. 374) la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l’impiegato abbia notificato all’amministrazione la sentenza stessa, si ha la restitutio in integrum[7]. Per cui, quanto corrisposto durante il periodo di sospensione cautelare, a titolo di indennità, dovrà essere conguagliato con quanto dovuto al dipendente se fosse rimasto in servizio, escluse le indennità o i compensi connessi alla presenza in servizio o a prestazioni di carattere straordinario (come prevede attualmente anche la normativa pattizia, ad esempio, l’art. 64 del CCNL Funzioni centrali 2016-2018.
Sempre in tema di sospensione collegata alle vicende penali e alla restitutio in integrum all’art. 97 così si conclude:
“La sospensione cessa se la contestazione degli addebiti non ha luogo entro il detto termine ed il procedimento disciplinare, per i fatti che formarono oggetto del procedimento penale, non può più essere iniziato. In tal caso l’impiegato ha diritto agli assegni previsti nel primo comma.
Qualora il procedimento disciplinare sia stato sospeso a seguito di denuncia all’autorità giudiziaria, la scadenza del termine predetto estingue altresì il procedimento disciplinare che non può più essere rinnovato”.
4. I contributi giurisprudenziali sul tema della restitutio in integrum
Su tale articolato tessuto normativo, ripreso dalle previsioni della nuova formulazione della contrattazione collettiva[8], si è innestata l’azione della giurisprudenza, per cui la restitutio in integrum è stata riconosciuta in sede giurisdizionale nell’ipotesi di annullamento della sanzione inflitta (Cass. n. 26287/2013), di mancata conclusione del procedimento disciplinare a causa del decesso del dipendente (Cass. n. 13160/2015), di irrogazione di una sanzione meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare sofferta (Cass. nn. 5147/2013 e 9304/2017), di omessa riattivazione del procedimento in conseguenza delle dimissioni (Cass. n. 20708/2018) o del pensionamento (Cass. n. 18849/2017) e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva, come riportato recentemente nella pronuncia della Suprema Corte di Cassazione Civile – Sez. L. – n. 7657 del 19/03/2019. Tutte ipotesi, ordunque, di illegittimo esercizio del potere di sospensione cautelare da parte dell’amministrazione, per cui il dipendente ha domandato il beneficio della restitutio in integrum consistente nel riconoscimento della retribuzione non percepita a causa del provvedimento cautelare, corrispondente alla differenza tra l’assegno alimentare e lo stipendio di qualifica.
Anche sulla quantificazione di tali differenze vi sono state delle precisazioni da parte dei Giudici che hanno statuito, tra l’altro, che “nei casi in cui il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di condanna, anziché di proscioglimento, la ricostruzione della posizione giuridica ed economica del dipendente va operata, detraendo, dalla durata della sospensione cautelare, i periodi corrispondenti sia alla irrogata sanzione disciplinare della sospensione della qualifica sia alla condanna penale inflitta, ancorché non scontata” (ex plurimis: Cons. Stato Sez. VI, 14/06/2004, n. 3862; conformi: C.G.A. Reg. Sic., 04/04/2005, n. 189; Trib. Bari Sez. I, 12/06/2006) e che sulla somma corrisposta a titolo di restitutio in integrum, vanno riconosciuti al dipendente gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dal servizio (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 11 giugno 2007, n. 4954). La giurisprudenza ha proseguito delineando le casistiche della non piena restituito in integrum del dipendente, affermando che: “Nel calcolo di quanto dovuto a titolo di restitutio in integrum per il periodo di sospensione cautelare dal servizio in dipendenza di procedimento penale non devono essere computate le competenze accessorie che presuppongono l’effettiva prestazione dell’attività lavorativa, tra cui il compenso sostitutivo delle ferie e dei riposi settimanali non goduti. Infatti, la mancata fruizione delle ferie in questo caso non è risarcibile, in quanto non è imputabile ad esigenze di servizio e, quindi, all’Amministrazione, ma risulta un effetto conseguente alla sospensione dal servizio, disposta in pendenza di un procedimento penale” ( Cons. Stato Sez. IV, 10/12/2003, n. 8118).
Questi richiamati pronunciamenti lasciano intendere, dunque, che vi sono dei limiti alla restitutio in integrum ai fini economici ed infatti, a parte gli stipendi arretrati sicuramente spettanti al dipendente pubblico allontanato illegittimamente dal servizio, la corresponsione non è per nulla automatica, non potendosi prescindere dalla situazione di fatto inerente allo specifico dipendente.
I Giudici si sono dovuti anche pronunciare su casi di richieste di restitutio in integrum da parte di coloro che lamentavano l’illegittima esclusione da concorsi pubblici e richiedevano, pertanto, le somme per stipendi e accessori non percepiti a causa della ritardata assunzione, oltre interessi e rivalutazione. Nel merito la Giustizia amministrativa ha stabilito che: “L’obbligo di retribuzione della prestazione lavorativa sorge con il perfezionamento degli atti costitutivi del rapporto di impiego ed in presenza dell’effettivo svolgimento della prestazione. In assenza del provvedimento costitutivo del rapporto di lavoro e dei conseguenti adempimenti contabili per il pagamento degli assegni con carattere di fissità, nessuna pretesa può essere validamente avanzata per la remunerazione di prestazioni non rese. Infatti, la “restitutio in integrum” agli effetti economici spetta al pubblico dipendente soltanto nei casi in cui vi sia stata una sentenza che accerti l’illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già in atto e non anche nell’ipotesi in cui il giudicato accerti l’illegittimità del diniego di costituzione di tale rapporto (cfr., Cons. St., sez.VI, 28 marzo 1998, n. 365). Pertanto, il danno non può essere pari all’integrale ammontare del trattamento economico e previdenziale non goduto nel periodo intercorrente tra la data in cui la ricorrente avrebbe dovuto essere assunta in servizio e quella di effettiva costituzione del rapporto, per effetto di una virtuale ricostruzione della posizione economica e previdenziale; infatti, ciò che non può essere ottenuto integralmente con l’azione di adempimento e di “restitutio in integrum”, non può certo essere ottenuto, in via obliqua, con l’azione di risarcimento del danno per equivalente. Come già affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 30 giugno 2011, n. 3934), in sede di quantificazione per equivalente del pregiudizio patito dal ricorrente in ipotesi di omessa o ritardata assunzione per illegittima esclusione da un pubblico concorso, il danno non si identifica in astratto nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione (elementi che comporterebbero una vera e propria “restitutio in integrum” e che possono rilevare soltanto sotto il profilo della responsabilità contrattuale” (Così il Consiglio di Stato VI, Sent., (ud. 05-12-2017) 01-03-2018, n. 1262, ribadendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, tra le molte: T.A.R. Calabria Catanzaro – Sentenza n. 989 pubblicata il 16 maggio 2019; Consiglio di Stato, Sez. V, 17 luglio 2017, n. 3498; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 21 giugno 2017, n. 7209; T.A.R. Catanzaro, Sez. II, 26 luglio 2017, n. 1199; Cons. Stato, III Sez. , n. 1029/2015). In tal senso anche pronunce più risalenti nel tempo: Tar Calabria-Reggio Calabria con sentenza n. 1 del 2 gennaio 2007; CdS, Ad. Pl., 10/1991; V, 1023/1999; V, 365/1998).
Da ultimo, e ci si avvia alla conclusione, la Giustizia di legittimità si è interessata nuovamente dell’istituto della restitutio in integrum e con la già evidenziata pronuncia n. 7657 del 19.3.2019, anche alla luce di tutti i richiamati principi che, tra l’altro, ha confermato in pieno, ha aggiunto che la restitutio in integrum ha natura retributiva e non risarcitoria e ciò in quanto: “Il potere del datore di lavoro di estromettere temporaneamente dall’azienda o dall’ufficio il dipendente sottoposto a procedimento penale è espressione del generale potere organizzativo e direttivo e trova fondamento costituzionale, quanto all’impiego privato, nell’art. 41 Cost. e in relazione all’impiego pubblico nell’art. 97 Cost., perché finalizzato a garantire, in pendenza del procedimento penale, la corretta gestione dell’impresa o l’efficienza e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione.
La misura cautelare, per il suo carattere unilaterale, non fa venir meno l’obbligazione retributiva che, nei casi in cui la stessa sia oggetto di disciplina da parte della legge o della contrattazione collettiva, è solo in tutto o in parte sospesa ed è sottoposta alla condizione dell’accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente. Solo qualora il procedimento si concluda sfavorevolmente per il dipendente con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell’adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate, dalle quali dovranno essere detratte solo quelle relative al periodo di privazione della libertà personale perché in tal caso, anche in assenza dell’atto datoriale, il dipendente non sarebbe stato in grado di rendere la prestazione”.
Note
[1] Fonte: Dizionario medico per la famiglia – Volumi singoli
[2] Can. 1645 – §1. Contro una sentenza che sia passata in giudicato, purché consti palesemente della sua ingiustizia, si dà la restitutio in integrum. §2. Non si ritiene che consti palesemente l’ingiustizia, se non quando:
1) la sentenza si appoggia talmente a prove successivamente trovate false, che senza di esse la parte dispositiva della sentenza non regga;
2) furono in seguito scoperti documenti che dimostrano senza incertezza fatti nuovi e che esigono una decisione contraria;
3) la sentenza fu emessa per dolo di una parte e a danno dell’altra;
4) fu evidentemente trascurato il disposto di una legge che non sia semplicemente procedurale;
5) la sentenza va contro una precedente decisione passata in giudicato.
Can. 1646 – §1. La restitutio in integrum per i motivi di cui nel can. 1645, §2, nn. 1-3, deve essere chiesta al giudice che ha emesso la sentenza entro tre mesi, da computarsi a partire dal giorno in cui si venne a conoscenza degli stessi motivi. §2. La restitutio in integrum per i motivi di cui nel can. 1645, §2, nn. 4 e 5, deve essere chiesta al tribunale di appello entro tre mesi dalla notizia della pubblicazione della sentenza; che se nel caso di cui nel can. 1645, §2, n. 5, la notizia della precedente decisione si abbia più tardi, il termine decorre da questa data. §3. I termini di cui sopra non decorrono per tutto il tempo in cui la persona lesa è di età minore.
Can. 1647 – §1. La richiesta di restitutio in integrum sospende l’esecuzione della sentenza non ancora intrapresa. §2. Se tuttavia da probabili indizi ci sia il sospetto che la richiesta fu fatta per porre ritardi all’esecuzione, il giudice può decidere che la sentenza sia mandata ad esecuzione, assegnata tuttavia un’idonea cauzione a chi chiede la restitutio, sicché non abbia danni se questa gli sia concessa.
Can. 1648 – Concessa la restitutio in integrum il giudice deve sentenziare sul merito della causa.
[3] A tal riguardo, va rilevato che in ambito penale, per il richiamo operato dallo stesso legislatore alle previsioni civili (art. 1168-1169) sul termine “restituzione” esiste un dibattito: così alcuni ritengono che debba intendersi come la restituzione del mal tolto, taluni lo interpretano più estensivamente come ogni reintegrazione nella situazione preesistente al reato. L’orientamento giurisprudenziale predominante appoggia quest’ultima lettura.
[4] Che costituisce una momentanea interruzione (dunque non di natura definitiva) del rapporto di servizio.
[5] La funzione precipua della sospensione facoltativa è stata riconosciuta nell’essere finalizzata ad impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l’immagine e il prestigio dell’amministrazione di appartenenza, la quale, quindi, è tenuta a valutare se nel caso concreto la gravità delle condotte per le quali si procede giustifichi l’immediato allontanamento dell’impiegato. Ed ove l’amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per la sospensione, in difetto di una diversa espressa previsione di legge o di contratto, opera il principio generale secondo cui «quando la mancata prestazione dipenda dall’iniziativa del datore di lavoro grava su quest’ultimo soggetto l’alea conseguente all’accertamento della ragione che ha giustificato la sospensione» (Corte Cost. n. 168/1973). Tant’è che la verifica dell’effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare l’immediato allontanamento è indissolubilmente legata all’esito del procedimento disciplinare, perché solo qualora quest’ultimo si concluda validamente con una sanzione di carattere espulsivo potrà dirsi giustificata la scelta del datore di lavoro di sospendere il rapporto, in attesa dell’accertamento della responsabilità penale e disciplinare (Cassazione Civile – Sez. L. – n. 7657 del 19/03/2019).
[6] Prima norma a prevedere la disciplina della sospensione dal servizio è stato il D.P.R. n. 3/1957 – T. U. sugli impiegati civili dello Stato. Il Capo II del Titolo VII era infatti dedicato alla sospensione cautelare e alla sospensione per effetto della condanna penale (Art. 91 ss.). All’art. 91 la sospensione dal servizio obbligatoria in ipotesi in cui il dipendente pubblico venisse colpito da misura cautelare restrittiva della libertà personale; all’art. 92 la sospensione cautelare facoltativa; all’art. 96 il computo della sospensione cautelare e all’art. 97 la revoca della sospensione. In altre sono previste ipotesi di sospensione le quali: legge 19 marzo 1990, n. 55; D. Lgs. n. 276/2000; Legge 27 marzo 2001, n. 97; previsioni anche all’art. 289 del c.p.p. e tutto è stato riportato poi nelle previsioni di cui alle varie contrattazioni collettive: Artt. 63 e 64 del CCNL comparto Funzioni Centrali Periodo 2016-2018; Artt. 14 e 15 del comparto Istruzione e Ricerca; Artt. 60 e 61 del CCNL comparto Funzioni Locali ed Artt. 67 e 68 CCNL comparto Sanità.
[7] Ciò in linea con la disposizione dell’art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19, che apporta modifiche in materia di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti. A tal riguardo, infatti, si dispone, in ossequio alla sentenza della Corte Costituzionale n. 971 del 1988, che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione di legge ed al comma 2, si prevede che la destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni.
[8] Altro esempio: Art. 68 del CCNL del comparto SANITA’ – Periodo 2016-2018:
“8. Nel caso di sentenza penale definitiva di assoluzione o di proscioglimento, pronunciata con la formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” oppure “non costituisce illecito penale” o altra formulazione analoga quanto corrisposto, durante il periodo di sospensione cautelare, a titolo di indennità verrà conguagliato con quanto dovuto al dipendente se fosse rimasto in servizio, escluse le indennità o i compensi connessi alla presenza in servizio o a prestazioni di carattere straordinario. Ove il procedimento disciplinare riprenda, ai sensi dell’art. 69, comma 2, secondo periodo (Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale), il conguaglio dovrà tener conto delle sanzioni eventualmente applicate.
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In tutti gli altri casi di riattivazione del procedimento disciplinare a seguito di condanna penale, ove questo si concluda con una sanzione diversa dal licenziamento, al dipendente precedentemente sospeso verrà conguagliato quanto dovuto se fosse stato in servizio, esclusi i compensi per il lavoro straordinario, quelli che richiedano lo svolgimento della prestazione lavorativa, nonché i periodi di sospensione del comma 1 e quelli eventualmente inflitti a seguito del giudizio disciplinare riattivato”.
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