tratto da giustizia-amministrativa.it
La realizzazione delle opere pubbliche, il contenzioso sugli appalti e l’economia[1]
Si diceva, tempo fa, che nel processo amministrativo c’è sempre un “convitato di pietra” identificabile nell’interesse pubblico, di cui il giudice della pubblica amministrazione è chiamato, in via di fatto se non di diritto, a tenere conto. La decisione giudiziale sarebbe cioè influenzata anche da valutazioni riguardanti l’effetto che sull’amministrazione concreta della cosa pubblica. Questa concezione risentiva delle origini endoamministrative della nostra Giustizia ed assimilava quello amministrativo più che ad un giudice, ad un organo di ultima istanza della pubblica amministrazione.
L’evoluzione successiva ha superato questa idea e costruito quello amministrativo come un processo di parti, e si è compiuta con l’emanazione del codice processo amministrativo che si apre con i principi di “tutela piena ed effettiva” (art. 1) e, soprattutto, di “parità delle parti, contraddittorio e giusto processo” secondo le previsioni dell’articolo 111, comma primo, della Costituzione (art. 2). Un processo, quindi, di parti in posizione paritetica tra loro in cui ciò che conta è unicamente l’applicazione della legge, alla quale soltanto il giudice è sottoposto.
Il tema dei rapporti tra contenzioso ed economia si pone oggi poiché quello che una volta era l’interesse pubblico inteso come raggiungimento degli obiettivi posti dal potere politico all’apparato amministrativo, sembra attualmente declinarsi in un nuovo senso: Sta infatti emergendo, a livello sovranazionale se non addirittura mondiale, un interesse generale alla effettività e alla certezza dell’azione di governo nazionale e locale (regole certe e chiare) per la creazione di un quadro regolatorio preciso, entro cui possano liberamente competere le forze economiche e sociali nella società globalizzata. La globalizzazione dei rapporti economici richiede che ogni nazione abbia regole chiare e prevedibili, come peraltro stabilisce anche la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Quello degli appalti pubblici è un settore particolarmente sensibile a tale esigenza, poiché il settore pubblico è forse il principale committente delle aziende private; per quanto riguarda le opere pubbliche poi, al beneficio derivante sul prodotto interno lordo dalla realizzazione dell’infrastruttura occorre aggiungere i benefici per la collettività intera conseguenti all’utilizzo della stessa (tralasciamo il patologico fenomeno delle “cattedrali nel deserto”). L’esigenza di certezza regolatoria in questo campo ha portato all’emanazione di discipline comunitarie tendenti a regolare in modo uniforme l’aggiudicazione degli appalti pubblici, al fine di creare un mercato unico europeo aperto e concorrenziale. Una maggior concorrenza, in quest’ottica, significa non solo maggiori opportunità di business per gli operatori economici ma, ancor più, implica lo stimolo ad un complessivo miglioramento qualitativo nell’offerta di lavori, servizi e forniture al settore pubblico.
Nel campo degli appalti pubblici di opere, in particolare, effettività e certezza del quadro regolatorio significa temporizzazione precisa nella loro realizzazione. Emerge quindi la necessità che le regole procedurali consentano agli operatori economici di programmare la propria azione in un quadro di certezza e prevedibilità, con conseguente speditezza nella realizzazione delle opere.
È forse, questo, un nuovo convitato di pietra che si è inserito nel processo amministrativo? A prescindere dalle polemiche strumentali circa il rapporto tra processo amministrativo e (riduzione del) prodotto interno lordo, rapporto che nessuno è riuscito a dimostrare, è vero che l’interesse (prioritario e pubblico) alla realizzazione delle opere emerge nella nostra legislazione. Il legislatore ha cioè considerato il fatto che l’annullamento di una procedura d’appalto vanifica il lavoro della stazione appaltante e la costringe a ricominciare il procedimento da un certo punto o, addirittura, fin dall’inizio laddove la gara venga annullata a partire dalla sua indizione, ritardando così l’esecuzione del contratto pubblico.
Pensiamo alla declaratoria giudiziale di inefficacia del contratto aggiudicato in seguito a procedura illegittima, che è inibita laddove sussistano “motivi imperativi di interesse generale” (artt. 121 e 122 c.p.a.). La regola viene, come sapete, declinata diversamente a seconda della gravità dei vizi rilevati nel processo. Al di fuori dei casi di maggiore gravità espressamente disciplinati dall’art. 121, la declaratoria di inefficacia del contratto è infatti una mera eventualità; ciò che rileva comunque è il fatto che in caso di annullamento giudiziale dell’aggiudicazione di una pubblica gara spetta al giudice amministrativo il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contratto nel frattempo stipulato. L’inefficacia del contratto non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti (C.d.S. V, 21 aprile 2016 n. 1597). In tal caso siamo chiamati a svolgere compiti che credo possano essere qualificati come “amministrazione attiva”, modulando gli effetti della nostra decisione nella fattispecie concreta in base all’esigenza di consentire la realizzazione dell’opera aggiudicata. Il convitato di pietra diventa quindi un convitato vivente, che dialoga con il potere giudiziale e che costituisce un limite all’estensione degli effetti della decisione sul caso concreto.
Il legislatore italiano ha considerato talmente rilevante l’interesse alla realizzazione delle opere che laddove sia stato aggiudicato un contratto per infrastrutture strategiche, al di fuori dei casi di gravi violazioni alla normativa sull’evidenza pubblica il contratto stipulato non può mai essere caducato; è la legge stessa quindi che ravvisa nella loro realizzazione un motivo imperativo di interesse generale (art. 125 c.p.a.).
Fin qui siamo nel campo della caducazione del contratto, fase che “segue” quella di annullamento e ne rappresenta una conseguenza in termini di conformazione della realtà concreta alla statuizione giudiziale. Ma il nostro convitato di pietra, divenuto vivente, emerge legislativamente anche con riguardo ai momenti precedenti la decisione. L’esigenza di consentire la realizzazione delle opere condiziona infatti la fase cautelare del processo: l’ordinanza di accoglimento della domanda cautelare non può avere efficacia superiore a 60 giorni e il giudice, anche in questo caso, deve tenere conto delle esigenze imperative connesse alla realizzazione del contratto (art. 120, commi 8-bis e 8-ter c.p.a). Ove tali esigenze sussistono, la mancata concessione della tutela cautelare comporterà quindi che al ricorrente il quale risulti vittorioso in giudizio, residuerà unicamente la tutela per equivalente.
In base poi all’art. 9, comma 2-sexies, del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito in legge 11 novembre 2014 costituiscono sempre “esigenze imperative connesse a un interesse generale” quelle funzionali alla tutela dell’incolumità pubblica[2].
L’interesse alla realizzazione dell’opera è quindi un elemento di cui dobbiamo tenere conto nelle nostre decisioni, ed è certamente un interesse di rilievo collettivo poiché le infrastrutture rappresentano una delle leve più importanti nel processo di crescita di un paese sia nel breve periodo, per l’aumento del livello del prodotto interno determinato da una maggiore spesa per investimenti, sia nel medio-lungo periodo con un rafforzamento del potenziale di crescita dell’economia del paese.
Ma allora ci si deve chiedere se le regole di procedura per l’aggiudicazione delle opere pubbliche tutelino, e in che misura, tale interesse e, oltre, se questo venga inciso dai tempi del processo amministrativo.
Sotto il primo profilo è stato calcolato che in Italia i tempi di “attraversamento”, cioè il periodo che intercorre tra la fine di una fase procedurale e l’inizio di quella successiva (ad esempio, l’intervallo tra la progettazione e l’affidamento dei lavori) rappresentano in media circa il 54 per cento della durata complessiva dei lavori pubblici[3] .Non è quindi tanto il tempo legislativamente previsto delle procedure che incide sulla realizzazione delle opere, quanto la scarsa capacità di gestirle; il rimedio quindi non sembra essere quello di eliminare le procedure (magari con qualche commissariamento) ma quello di indagare su queste cause di blocco delle procedure e razionalizzare l’intero processo di programmazione, valutazione e monitoraggio della realizzazione dei lavori. Sembrano giuste raccomandazioni quelle di effettuare più accurate analisi dei costi e dei benefici delle opere nella fase di selezione delle stesse e di dedicare una maggiore attenzione alla qualità della progettazione. È raccomandabile inoltre utilizzare lo strumento del dibattito pubblico (art. 22 d.lgs. 50/2016), per evitare blocchi già in fase di avvio della realizzazione delle opere.
Sotto il profilo processuale gli appalti impugnati presso i tribunali amministrativi regionali sono tendenzialmente meno del 3% del totale degli appalti banditi[4]. Sembra quindi che il contenzioso non incida che per una percentuale infinitesimale sull’aggiudicazione e realizzazione dei contratti pubblici ma i numeri statistici, come il pollo di Trilussa, nascondono sorprese e devono essere analizzati in dettaglio. Nell’ambito di questa minima percentuale, infatti, è stato verificato che le impugnazioni delle procedure sopra il milione di euro rappresentano circa il 50% del totale dei gravami, mentre per gli appalti di minore importo le percentuali scendono sensibilmente. Le procedure di maggior importo sono quindi anche quelle relativamente più contestate. Questo è un primo elemento di riflessione: il contenzioso amministrativo incide maggiormente sulle procedure di gara aventi maggior rilievo economico, mentre non incide affatto in quelle con minor rilievo: evidente il ruolo che gioca, in tal senso, il contributo unificato e ci si può chiedere se non sia stata creata, di fatto, un’area di impunità amministrativa per le procedure (che sono poi numerose) con minor valore economico. Torneremo dopo sulla questione.
Quanto alla tutela cautelare, le sospensive costituiscono in media il 30% delle ordinanze emesse, che a loro volta sono in numero inferiore ai dei ricorsi proposti: ne segue che meno di 1/3 delle procedure impugnate è sospeso in sede cautelare. Il cd. “effetto bloccante” del TAR si è verificato nell’anno 2015, per 959 su 136.645 procedure bandite e in una misura percentuale pari quindi allo 0,7%. I dati non cambiano per l’anno 2016: l’ “effetto bloccante” del TAR si è verificato per 849 delle 120.628 procedure bandite ovvero in misura percentuale pari, ancora una volta, allo 0,7%. Il dato aumenta pochissimo all’esito dell’appello al Consiglio di Stato.
I tempi del giudizio cautelare al TAR ammontano a 42 giorni nel 2015; a 38 giorni nel 2016 fino a 33 giorni per il 2017. Un trend quindi più che positivo, che evidenzia un miglioramento del tempo anche se la velocità del “processo appalti” va a scapito di altre tipologie processuali, ma questa è un’altra problematica che esula dalla presente sede.
Tornando alla nostra tematica, il vero problema è che nei grandissimi appalti tende a crearsi una situazione particolare poiché se la percentuale di sospensive accolte è sensibilmente più bassa della media tuttavia la stazione appaltante, in assenza di un provvedimento giurisdizionale cautelare e talvolta in concomitanza con un rinvio al merito, tende a sospendere autonomamente l’iter della procedura. È fin troppo evidente il timore dei funzionari della stazione appaltante di essere esposti a giudizio di danno erariale in caso di risarcimento per equivalente a favore del ricorrente vittorioso e non esecutore dell’appalto. Ricordiamoci che in base alla giurisprudenza comunitaria, in materia di pubblici appalti il risarcimento del danno non è subordinato alla dimostrazione della sussistenza di un elemento soggettivo in capo alla stazione appaltante.
Porrei quindi all’attenzione del gruppo di lavoro i seguenti elementi.
1) In primo luogo mi sembra preoccupante la scarsità del contenzioso sui piccoli appalti, dovuta al ruolo che gioca il contributo unificato. L’obiettivo di deflazionare il contenzioso, che fu all’origine dell’introduzione del contributo, è stato raggiunto a prezzo di una sostanziale ingiustizia, nel senso che l’area degli appalti di minor valore economico gode di una impunità fattuale. Il fenomeno è preoccupante anzitutto perché gli spazi lasciati vuoti dal giudice amministrativo, sovente vengono poi riempiti dal giudice penale (e non lamentiamoci poi dell’ipertrofia del penale!) e, inoltre e più direttamente per quel che ci riguarda, può sorgere il timore che le stazioni appaltanti, laddove intendano procedere ad aggiudicazione in modo non ortodosso, provvedano a frazionare artificiosamente i contratti da appaltare per entrare in questa area di impunità.
2) Il “blocco processuale” delle opere si concentra su quelle di grandissimo importo e si verifica essenzialmente per una autosospensione disposta dalle stazioni appaltanti in attesa della sentenza: quali possono essere i rimedi a questa prassi
3) Il blocco delle opere, al di fuori del caso qui sopra, avviene soprattutto in fase di programmazione delle stesse e a produrre tale effetto concorrono elementi del tutto estranei alle procedure di gara e al contenzioso, quale la difficoltà delle stazione appaltanti nello svolgere un’efficace attività di progettazione (non a caso è stata prevista la centrale unica di progettazione nella legge di stabilità per il 2019) ma, anche, una difficoltà di coordinamento dei vari livelli istituzionali nel disegnare e pianificare la realizzazione delle opere, cui va aggiunta la cosiddetta sindrome Nimby che porta a contestare opere utili per il benessere collettivo, ma che insistono nelle proprie vicinanze. Ci si può chiedere se lo strumento del dibattito pubblico, previsto dall’articolo 22 del d.lgs. 50/2016, possa ovviare a quest’ultimo fenomeno.
Per quanto riguarda più direttamente il nostro ruolo credo occorra considerare i seguenti elementi.
1) La compatibilità della tutela dell’interesse strumentale alla caducazione dell’intera gara con quello alla realizzazione dell’opera. L’interesse strumentale è posizione giuridica che ha una sua indiscutibile dignità, peraltro riconosciuta anche a livello comunitario. La sua soddisfazione comporta tuttavia la caducazione dell’intera gara di appalto, o comunque di segmenti procedurali rilevanti e, conseguentemente, vanifica il lavoro svolto dalla stazione appaltante che si ritrova a tornare all’inizio del procedimento rallentando l’avvio della realizzazione dell’opera. A tanto si potrebbe ovviare laddove le contestazioni avverso qualsiasi regola della gara, non solo le regole “escludenti”, venisse proposta al momento di indizione della stessa. La sentenza dell’Adunanza Plenaria 4/2018 ha però sancito che non esiste un interesse del concorrente nelle gare di appalto alla legalità astratta delle stesse, a prescindere dal conseguimento del bene della vita finale di talché le clausole non escludenti del bando di gara possono essere impugnate solo al momento finale della procedura, dai concorrenti che a causa di esse non abbiano conseguito l’aggiudicazione. Un onere di impugnazione “ex ante” di tutte le regole di gara può quindi essere disposto solo attraverso una modifica legislativa, e vi sono richieste in tal senso da parte delle associazioni dei costruttori edili. È ragionevole pensare ad una ipotesi del genere, tenendo conto che l’effetto bloccante si determina perlopiù a causa di una autosospensione della procedura da parte della stessa stazione appaltante? L’interesse generale alla sollecita realizzazione dell’opera può giustificare l’imposizione di un simile onere in capo ai concorrenti, che si vedrebbero costretti a proporre ricorso in un momento in cui il relativo interesse non è ancora sorto?
2) Il possibile ruolo del risarcimento per equivalente in funzione di compensazione della mancata caducazione del contratto stipulato, dandosi possibilmente criteri più precisi di quelli adottati odiernamente soprattutto per il danno da mancata qualificazione.
3) Il decreto sblocca cantieri ha inciso sui contratti sotto soglia prevedendo, tra l’altro, la possibilità per le stazione appaltanti di esaminare prima le offerte e, poi, i requisiti di ammissione dei concorrenti alla procedura (art. 36, comma 5, d.lgs. 50/2016 come riformato dal decreto). Si tratta di un modus operandi che la normativa comunitaria consente per le sole procedure aperte ex art. 56, par. 2, dir. 24/2014. Così operando, i tempi di svolgimento della procedura di gara vengono notevolmente abbreviati poiché l’esame della documentazione per la partecipazione alla gara riguarderà solo il miglior offerente, nonché altri partecipanti individuati a campione (ma la norma non dice né in che modo debbano essere individuati, né in quali percentuali, rimettendo il tutto alle decisioni della stazione appaltante). Laddove l’offerente migliore non presenti tutti i titoli di ammissione, verrà escluso e il contratto in gara sarà aggiudicato senza ritardo al concorrente che segue in graduatoria. Per contro, è presumibile un certo “condizionamento” della stazione appaltante chiamata a valutare una possibile esclusione di quello che è l’offerente rivelatosi migliore.
4) La qualificazione obbligatoria delle stazioni appaltanti, con la centralizzazione degli acquisti, può determinare un incremento dell’importo medio delle gare con possibile espulsione delle imprese piccole, e forse anche medie: si può ovviare con il controllo sulla (mancata) suddivisione in lotti delle gare ex art. 51, d.lgs. 50/2016?
5) Il termine di trenta giorni per notificare il ricorso è identico a quello per l’accesso agli atti di gara, dai quali potrebbe emergere l’illegittimità dell’aggiudicazione: questo può costringere le imprese a notificare ricorsi “al buio”. Si può pensare ad una sospensione del primo in attesa dell’esito della domanda di accesso? Ciò peraltro allunga i termini di svolgimento del processo, rendendoli anche incerti quanto al momento di avvio del termine decadenziale.
Cons. Alessandro Cacciari
Consigliere Tar
Pubblicato il 10 giugno 2019
[1] Relazione al Primo congresso nazionale dei magistrati amministrativi italiani
[2] Questa norma costituisce una delle maggiori esemplificazioni della pessima abitudine del legislatore di intervenire con disposizioni scoordinate dal contesto normativo cui si riferiscono (il codice del processo amministrativo), al fine di “placare” polemiche (più o meno strumentali) legate a fatti contingenti. La disposizione è infatti stata inserita in sede di conversione di un decreto-legge “omnibus” (conteneva misure urgenti “per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”, insomma di tutto un po’!) dopo l’alluvione di Genova del 9 e 10 ottobre 2014, la cui responsabilità si tentò, con scarso successo, di attribuire alla giustizia amministrativa accusata di avere bloccato la realizzazione di un canale scolmatore.
[3] Relazione del Segretario generale IVASS al convegno ANSPC 16 aprile 2019.
[4] Questi dati, come quelli che seguono, sono stati tratti dalla Relazione del Pres. Carbone al workshop Assonime dell’8 maggio 2018 su “giustizia amministrativa, appalti e buon funzionamento del mercato”.
Nessun tag inserito.