Caso Marino: come era previsto, si trattava di una bolla di sapone
Le motivazioni della sentenza di primo grado di assoluzione di Ignazio Marino, di fatto confermata dalla Cassazione che ha giustamente cancellato lo scivolone clamoroso dell’appello, per quanto da accogliere lietamente per la persona, non possono che portare a considerazioni estremamente amare.
Il sindaco della capitale d’Italia è stato “dimesso” dal suo stesso gruppo di maggioranza, non con il voto di sfiducia in consiglio comunale, bensì con atto privatistico davanti ad un notaio, come conseguenza nefasta del vojeurismo, spacciato per trasparenza, sugli “scontrini”.
Un sindaco è stato estromesso, un’inchiesta penale durata due anni è stata necessaria, per apprendere quello che appariva già evidente da sempre: nessun reato era stato commesso.
Per anni, una concezione manichea ed eccessivamente radicale della “trasparenza” ha trasformato la politica in “caccia allo scontrino”, con filippiche volte ad imporre la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi e dei patrimoni di politici e dirigenti pubblici, come se nelle dichiarazioni dei redditi esistesse il rigo “proventi da corruzione, concussione e atti illeciti”.
Si è perso tempo a normare fino all’inverosimile, accettando una spinta, questa sì, realmente populistica di forze politiche “antisistema”, le cui idee, scontrini abolizione di tutto quanto abolibile, sono divenute, invece “sistema” ed hanno in larga parte caratterizzato l’ultimo quinquennio, fino a condizionare perfino le sorti del comune di Roma, per 7 cene per le quali non si è riusciti a provare, spiega la sentenza di assoluzione, l’elemento dell’uso privatistico della carta di credito del sindaco.
Fiumi di inchiostro, inchieste giudiziarie, interrogatori, 50 ed oltre pagine di una sentenza, tre gradi di giudizio, per una vera e propria bolla di sapone.
E per avere la conferma:
1) che gli uffici di gabinetto dei sindaci sono del tutto inutili, se tra “segreteria politica” e “segreteria particolare” nemmeno sono in grado di tenere dietro alla contabilità di 7 (sette!) cene ed appongono sigle al posto del sindaco (del resto la sentenza è chiara nello stigmatizzare un “sistema organizzativo” improntato “a imprecisione superficialità”;
2) che le spese di rappresentanza, continuo oggetto di indagini e sentenze della Corte dei conti (e talvolta anche di inchieste penali, come si nota) nemmeno si sa cosa siano. Eppure, infinite risorse sono destinate alla loro gestione e controllo, quando basterebbe forfettizzarle una volta e per sempre, avendole definito, prima, in modo chiaro.
Più che un’assoluzione a Marino, si tratta di una spietata condanna di un sistema ordinamentale al collasso.
Qui di seguito alcune considerazioni pubblicate da Italia Oggi il 16 ottobre 2015 sulla questione delle spese di rappresentanza, a seguito delle vicende del comune di Roma. Siamo ancora all’anno zero.
L’Intervento/dopo il caso marino
Serve chiarezza sui costi di rappresentanza
di Luigi Oliveri
Le dimissioni del sindaco di Roma dimostrano quanto sia necessario disciplinare una volta e per sempre e con chiarezza le «spese di rappresentanza».
Di certo, scontrini e fatture presentate dal sindaco dimissionario hanno giocato un ruolo decisivo nel precipitare degli eventi. Anche e soprattutto perché un’inaccettabile vuoto normativo perdura da anni sul tema.
La legge, infatti, menziona più volte le spese di rappresentanza, come, per esempio, una delle più rilevanti manovre finanziarie degli ultimi anni. Ma, tale previsione pone solo il precetto della riduzione, in un caotico unicum con le spese di «pubblicità», del 90% rispetto al 2009, senza averle definite. Il difetto maggiore è proprio l’assenza di una norma capace di indicare esattamente quale possa essere il limite di spesa «accettabile» entro il quale gli organi di governo risultino legittimati ad effettuare spese di rappresentanza e, soprattutto, quali siano le spese ammissibili.
Tutto questo, rende il sistema sfuggente e scivoloso, lasciato sostanzialmente all’interpretazione soggettiva. Secondo il sindaco dimissionario, per esempio, è stato perfettamente possibile e utile una spesa da 3.500 euro per una cena finalizzata a convincere un mecenate a donare 2 milioni alla Capitale, per restaurare alcuni monumenti. Ma, mancando un parametro qualsiasi per determinare se tale spesa sia effettivamente ammissibile e legittima, tutto rimane nella nebbia e scatena indagini giudiziarie, della magistratura contabile per verificare eventuali danni erariali, nonché della magistratura penale per chiarire la commissione per esempio del reato di peculato.
Sembra oggettivamente che tutto ciò sia spropositato. Sarebbe assolutamente necessario che il legislatore stabilisca quanto un sindaco può spendere, per quali destinazioni e quali voci, entro quali limiti e creare un’area di libertà e autonomia della spesa, rendendo evidenti e manifeste le eventuali violazioni. Anche perché i sistemi di «controllo» interno su tali spese sono debolissimi, perché basati su autodichiarazioni del tutto inverificabili e posti in essere, in generale, da dirigenti o funzionari alle dirette dipendenze dei sindaci, da essi nominati e privi di qualsiasi autonomia e terzietà.
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