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Il ritorno (silenzioso) delle province

E ora chiamatele cantoni o quadranti

Sono state abolite due anni fa, cancellando elezioni dirette e organi politici. Ma adesso Regioni e Comuni le considerano necessarie. Cambiano i confini e anche i nomi. Le fusioni previste in Emilia Romagna. I casi della Lombardia e del Piemonte.

 
 
 

In Lombardia li vogliono chiamare cantoni, come in Svizzera. In Piemonte quadranti funzionali. In Sicilia hanno trovato un nome più creativo, liberi consorzi. In Friuli Venezia Giulia più macchinoso, unioni territoriali intercomunali. Ma dietro le variazioni sul tema, la musica resta la stessa ed ha il ritmo di una volta: il ritorno delle province. Prima abolite, espulse da tutte le istituzioni del regno, considerate simbolo assoluto dello spreco di denaro pubblico, appendice borbonica di una pubblica amministrazione già borbonica di suo. Adesso piano piano rivalutate, tornate utili. Addirittura necessarie a sentire i loro vicini di casa, Regioni e Comuni, che si danno un gran da fare per rimetterle in piedi. Con un nuovo partitone di Risiko per la revisione dei confini.

 

Il manifesto

Pochi giorni fa, a Cuneo, si sono riuniti i sindaci piemontesi per discutere il loro «Manifesto delle autonomie locali». Cosa dicono? «In tutti i Paesi europei esiste un livello di governo dell’area vasta (le vecchie province, ndr) poiché esso è uno strumento di perequazione e di garanzia dei diritti». Diritti. Altro che sprechi e fannulloni. Per questo, scrivono, la «Regione potrà ridefinire le attuali circoscrizioni (…) coincidenti con le province» in modo da «garantire equilibrio tra i diversi territori e coesione sociale». Il ritorno delle province. Forse la vendetta delle province. Sia chiaro, le province non sono mai state abolite del tutto. La legge del 2014, la famosa Delrio, ne ha cancellato gli organi politici eletti dal popolo: il presidente, la giunta con gli assessori e il consiglio, cioè il parlamentino. Non ci sono più politici che fanno solo questo di mestiere, con relativo codazzo e relative elezioni. Ma come pezzo dello Stato le province ci sono ancora.

 

Ma cosa fanno adesso?

È vero, in questi anni hanno perso buona parte delle funzioni e dei dipendenti, sono state degradate a bad company della Repubblica e lasciate su un binario morto. Ma resistono sotto il controllo dei sindaci della zona, organizzati in assemblee. Sono soprattutto loro, sindaci, a rivendicarne il ruolo. Non solo perché le province alcune funzioni le hanno ancora, come la manutenzione delle strade, l’ambiente o l’edilizia scolastica. Non solo perché altre le hanno riavute indietro dalle Regioni. Ma perché – citando ancora il manifesto dei sindaci piemontesi – la «nuova missione istituzionale delle province» sta tutta «nelle funzioni di supporto ai Comuni». Dateci una mano, insomma, perché da soli non ce la facciamo.

 

I consorzi e le unioni

A pensarla così non sono solo i sindaci piemontesi. In Emilia Romagna il governatore Stefano Bonaccini, numero uno di tutti i governatori italiani, ha detto «no al nuovo centralismo regionale» e punta a quattro grandi province al posto delle vecchie nove. La nuova cartina è già pronta: si unirebbero Parma con Piacenza, Bologna con Ferrara, Modena con Reggio, e poi le tre della Romagna. In Lombardia il presidente Roberto Maroni vuole creare otto cantoni, che prendano il posto delle 12 vecchie province. In Sicilia, dove in realtà hanno pasticciato parecchio, il numero non scenderà ma cambierà solo il nome, liberi consorzi. Mentre in Friuli Venezia Giulia il numero finirà per aumentare: le nuove unioni territoriali intercomunali saranno 18, anche se in realtà somiglieranno più alle vecchie unioni di Comuni. Dettagli. Zitte zitte, le province stan tornando. L’importante è non chiamarle così.

10 aprile 2016 (modifica il 10 aprile 2016 | 20:20)
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