11/01/2017 – La Consulta apre al doppio cognome in caso di accordo tra i genitori

La Consulta apre al doppio cognome in caso di accordo tra i genitori
di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale

Le norme impugnate

La Corte d’appello di Genova ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., e dell’art. 72, comma 1, R.D. n. 1238 del 1939, recante l’ordinamento dello stato civile, abrogato e sostituito dagli artt. 33 e 34, D.P.R. n. 396 del 2000, il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, nella parte in cui prevede “l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori”.

Vediamo le norme. L’art. 237 c.c., inserito nel Capo ove si tratta delle prove della filiazione, regola i fatti costitutivi del possesso di stato, che risulta da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere. In ogni caso devono concorrere alcuni fatti, tra i quali quello che la persona abbia sempre portato il cognome del padre che essa pretende di avere e che questi l’abbia trattata come tale.

L’art. 262 c.c. dispone che il figlio naturale assume il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, o quello del padre, se congiuntamente o separatamente è stato riconosciuto da entrambi i genitori. L’art. 299 c.c. prevede che l’adottato assuma il cognome dell’adottante e lo aggiunge al proprio; se figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori assume solo il cognome dell’adottante. Dispone poi che qualora l’adozione sia compiuta da entrambi i coniugi, l’adottato assume il cognome del marito; se compiuta da una donna maritata, l’adottato, che non sia figlio del marito, assume il cognome “della famiglia di lei”.

L’art. 33, D.P.R. n. 396 del 2000 dispone al comma 2 che il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio nato fuori del matrimonio, riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi, hanno facoltà di scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne vengono a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a loro scelta, quello del genitore.

L’art. 34 vieta di imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi ridicoli o vergognosi. I nomi stranieri devono essere espressi in lettere dell’alfabeto italiano. Ai figli di cui non sono conosciuti i genitori non possono essere imposti nomi o cognomi che facciano intendere l’origine naturale, o cognomi di importanza storica o appartenenti a famiglie particolarmente conosciute nel luogo in cui l’atto di nascita è formato.

Le censure e il giudizio della Consulta

Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo ha eccepito la violazione:

– dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe compresso il diritto all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali;

– degli artt. 3 e 29, comma 2, Cost., poiché sarebbe leso il diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro;

– dell’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento all’art. 16, comma 1, lett. g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché alla Ris. 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei figli.

Secco il giudizio della Corte costituzionale con la Sent. n. 286 depositata il 21 dicembre 2016: la questione è fondata, per cui è incostituzionale la norma desumibile dagli articoli sopra citati “nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”. Parimenti illegittima la norma dell’art. 299, comma 3, c.c., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

Il révirement della Corte

La Corte costituzionale richiama i precedenti pronunciamenti in materia di cognome paterno, tutti di segno negativo. Così l’Ord. n. 176 del 1988, in cui però già evidenziava come la sostituzione della regola che prevede l’attribuzione esclusiva del cognome paterno con un criterio più rispettoso dell’autonomia di entrambi i coniugi “sarebbe possibile e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, ma, tale innovazione essendo questione di politica e di tecnica legislativa, rientra nella competenza esclusiva del conditor iuris”.

Nell’Ord. n. 586 dello stesso anno ha rilevato che la mancata previsione della facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno non contrasta né con l’art. 29 Cost., “in quanto viene utilizzata una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela dell’unità della famiglia fondata sul matrimonio”, né con l’art. 3 Cost., in riferimento ai figli adottivi, poiché la preclusione vale anche per questi ultimi.

Per quanto concerne l’opportunità di introdurre un diverso sistema di determinazione del nome, quale quello del doppio cognome, ugualmente idoneo a salvaguardarne l’unità senza comprimere l’eguaglianza dei coniugi, la scelta in ordine ad esso e le relative modalità tecniche rientrano nella decisione che compete esclusivamente al legislatore.

E’ poi tornata ad esprimersi sulla materia con la Sent. n. 61 del 2006, con cui ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli del codice civile e del D.P.R. n. 396 del 2000 nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata.

Non ha però esitato ad evidenziare che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’eguaglianza fra uomo e donna.

Da allora, molta acqua è passata sotto il ponte delle pari opportunità ma nulla si è mosso sul versante legislativo, nemmeno col D.Lgs. n. 154 del 2013, con cui sono state pur poste le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio.

Lapidaria la conclusione cui giungono i giudici costituzionali: “Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre”.

Sulla base di queste riflessioni, la Corte cambia radicalmente approccio alla materia per farsi carico della lesione che questa preclusione arreca da un lato al diritto all’identità personale del minore, dall’altro alla parità di trattamento tra i coniugi, che – si legge nella sentenza – non trova nemmeno giustificazione nella finalità di salvaguardare l’unità familiare.

I nuovi principi

La Consulta cambia decisamente prospettiva, quasi fosse una sorta di nemesi rispetto a un legislatore che in questa materia si è mostrato più che latitante. E lo fa appellandosi ai principi sanciti dalla Carta costituzionale, primo tra i quali quello della piena realizzazione del diritto all’identità personale, che trova copertura nell’art. 2 Cost., del quale è sicura espressione il diritto al nome.

La previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica, a detta dei giudici, il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.

Sponda in tal senso è anche offerta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano

Il secondo principio invocato dalla Consulta è quello di uguaglianza dei coniugi ai sensi dell’art. 3 Cost., che viene leso “attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome”, che come tale si pone in netta contraddizione con la finalità – pur prevista dall’art. 29 Cost. – di garantire l’unità familiare.

E quindi: “Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica”.

Per queste motivazioni, la Corte riconosce l’illegittimità delle norme nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del padre, limitandola alla sola parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. Illegittimità che viene estesa, in via consequenziale, all’art. 262, comma 1, c.c., che contiene identiche regole nel caso di riconoscimento del figlio naturale effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori.

Resta pur sempre la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno in assenza dell’accordo dei genitori, in attesa di un intervento legislativo che la Consulta insiste a ritenere indifferibile, destinato a disciplinare organicamente la materia secondo criteri finalmente consoni al principio di parità.

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