Dal sito blOgLIVERI di Luigi Oliveri

Gli operatori della pubblica amministrazione, come cittadini e imprese e, ovviamente, avvocati, sono abituati ai contrasti giurisprudenziali.

Su una stessa materia, su un medesimo atto e norma specifica, è purtroppo normale ed ordinario assistere a pronunce bianche e nere di giudici diversi dello stesso grado e tra giudici di grado diverso.

Certo, quando si giunge al contrasto insanabile tra due sezioni diverse del medesimo Tar Puglia sull’ordinanza di chiusura delle scuole emessa dal presidente della regione Puglia si arriva fino al paradosso. Ma, tutto sommato, nemmeno questa situazione al limite del grottesco stupisce più di tanto.

D’altra parte, l’esito delle vertenze ed il contenuto delle pronunce che le chiudono anche se riguardino materie identiche possono essere diversi perchè specifici sono i singoli casi, distinti i giudici che li esaminano, diversificate e più o meno efficaci in un senso o nell’altro le strategie difensive dei legali.

Queste oggettive osservazioni, però, non eliminano l’evidenza dei fatti: il pubblico amministrare e gestire è attività estremamente complessa, difficile, irta di ostacoli mine vaganti, tali da rendere incerto ogni esito e da rendere impossibile ogni concreta previsione di efficacia.

E’ per questa ragione che tutte le astrattamente corrette teorie sulla “managerialità” della PA, sulla necessità del “lavoro in team”, sull’opportunità che i dirigenti “gettino il cuore oltre l’ostacolo”, sul “lavoro per risultati”, sulla ricerca del “conseguimento dell’obiettivo con efficienza ed efficacia”, restano petizioni di principio, parole al vento, neve al sole.

Abbiamo una normativa piena di previsioni che inducono ad elaborare programmi, strategici ed attuativi, cicli della “performance”, previsioni di obiettivi, sistemi di valutazione, Organismi Indipendenti di Valutazione, pubblicità dei piani e dei progetti, periodicità delle riunioni tecniche, complessissime azioni di attribuzione di valutazioni relative all’ente, alla singola struttura, al singolo dipendente; un insieme di regole mirate alla valutazione del risultato della gestione. Che regolarmente cade miseramente di fronte al persistere di un apparato di norme totalmente diverso, parallelo ed inconciliabile, per il quale la managerialità, il risultato, il cuore oltre l’ostacolo e la discrezionalità nelle scelte non valgono assolutamente nulla.

E’ l’apparato del cavillo, del latinorum, del termine che può essere perentorio, ordinatorio, sollecitatorio, acceleratorio; del silenzio che può essere assenso o diniego o non significativo; della competenza che può essere assoluta o relativa; dell’illegittimità che può essere per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere (a sua volta scaturente da sviamento di potere, violazione di norme interne, assenza di motivazione, contraddizione della motivazione, contrasto con precedenti decisioni dello stesso genere, e così via); dell’illegittimità che può anche costituire danno erariale ma del danno erariale che prescinde dall’illegittimità amministrativa.

Questo apparato del cavillo è all’origine di tutti i contrasti tra giudici e giurisdizioni e del fenomeno delle sentenze capaci di affermare l’alfa e l’omega sullo stesso argomento, nello stesso tempo, persino nello stesso tribunale tra diverse sue sezioni.

E’ evidente ormai da anni ed anni che amministrare in questo modo, con pulsioni che vanno per altro in sensi totalmente opposti (le regole sull’amministrazione per risultati proprio non si tengono con la disciplina della legittimità giuridica e contabile in vigore), risulti impossibile, inefficiente, inefficace, defatigante, prolisso, costoso.

Ma, la soluzione non può essere quella grossolana, pur non di rado proposta, di abolire i Tar (cosa assolutamente inutile: non decidessero i Tar sulle controversie connesse alle decisioni della PA, provvederebbe il giudice ordinario; chi pensa di eliminare il problema abrogando i Tar non conosce la Costituzione e in particolare il suo articolo 113).

La soluzione dovrebbe essere quella di adottare, finalmente, leggi chiare, scritte in italiano fluente e comprensibile, utilizzando, se del caso, anche periodi scomposti in elenchi numerati o ordinati per lettera.

Il Legislatore, così come qualsiasi Autorità, centrale o territoriale, dovrebbe comprendere che deve parlare all’inclito e al volgo, ma soprattutto deve parlare ai giudici.

Chi formula una regola, non può non proporsi di scriverla in modo da non lasciare nessun residuo dubbio sul significato, o di dare corso alla prova di resistenza.

Le norme debbono parlare a tutti, ma soprattutto ai giudici, in modo che non possa determinarsi l’assurdo di sentenze diametralmente opposte.

E, in tema di valutazione della legittimità degli atti, non possono non esservi meccanismi di valutazione della capacità dei giudici di ogni ordine e grado di adottare la pronuncia corretta.

Perchè, se è vero che le norme si prestano a contrasti, non possono e non debbono convivere norme e loro letture opposte. L’ordinamento richiede che la lettura finale sia una.

Il Legislatore rinuncia troppo spesso alla funzione essenziale dell’interpretazione autentica, capace di definire una volta e per sempre appunto contrasti giurisdizionali.

E non sarebbe male se l’interpretazione autentica fosse seguita da valutazioni negative e conseguenze nei confronti di quei giudici che si fossero distinti per l’adozione insistita della lettura risultata, poi, erronea.

Se non si adottano cautele e rimedi di questo genere, l’efficacia, il risultato, la managerialità resteranno dotto esercizio meramente retorico e lo stesso atto gestionale potrà risultare annullato, e quindi privo di efficienza ed efficacia, in alcuni casi, o pienamente legittimo e quindi produttivo di conseguenze gestionali in altri casi, ma a random.

Infine: in questa situazione, appaiono leggermente patetiche le omelie sulla presenza di troppi “giuristi” in una PA che avrebbe bisogno di professionalità tecniche, specie di analisi dei processi, di programmazione economico finanziaria e di informatici. Anche questo sarebbe vero, in teoria. Ma, bisognerebbe dirlo, poi, alla Corte dei conti, ai Tar, ai giudici ordinari.

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