Procedimento disciplinare lungo e barocco? La noia degli slogan mediatici
La riforma del procedimento disciplinare, presentata dal Governo come assolutamente necessaria per licenziare i dipendenti infedeli, è proprio necessaria?
Nel corso della trasmissione L’Arena dell’8 novembre 2015 la domanda è stata posta a Sylvia Kranz, responsabile dell’ufficio dei procedimenti disciplinari associato di Lugo di Romagna, che svolge le proprie funzioni per 85 comuni.
L’ufficio diretto dalla Kranz è stato, a giusta ragione, preso come esempio virtuoso di una PA che funziona e che è capace anche di licenziare i dipendenti infedeli.
Per questa ragione, dopo i fatti di San Remo, l’ufficio associato è stato più volte citato dai media.
Su La Stampa del 24 ottobre, nell’articolo “Tra dirigenti complici e sanzioni troppo leggere. Solo 3 statali «furbetti» su 100 perdono il posto”, il cronista ha dato il giusto spazio all’esempio virtuoso di Lugo, e racconta, in merito all’attività della dottoressa Kranz: “In pochi anni ha licenziato venti «furbetti»: chi s’era portato a casa e teneva sotto il letto la macchina per il badge, chi andava a timbrare il cartellino in pigiama e tornava a dormire. «Io non aspetto mai la sentenza penale – dice Kranz -. Vado in cancelleria, raccolgo gli atti, studio e licenzio. E non ho mai perso una causa. Lo farei anche a Sanremo. Subito, cominciando dai dirigenti che non sentono, non vedono e non parlano»”.
La stessa Sylvia Kranz, su La Stampa del 30 ottobre rilascia un’intervista dal titolo “Così licenzio prima della sentenza i dipendenti pubblici infedeli”, nel quale spiega in semplici parole l’attività realizzata, raccontando anche di aver proposto al Governo e, in particolare, al Ministro Madia, un progetto per estendere a costo zero la propria esperienza anche alle altre amministrazioni.
La meritoria attività della dottoressa Kranz, pare di poter concludere, è la prova evidente che attualmente la normativa consente di licenziare – se del caso – i dipendenti pubblici.
Ma, torniamo alla domanda posta dal conduttore Giletti alla dottoressa Kranz. La quale ha risposto, sostanzialmente, che una legge di semplificazione sarebbe la benvenuta, perché l’attuale normativa è troppo “barocca”, non risulta chiaro sempre chi sia il soggetto responsabile del procedimento e ci sono troppi termini da rispettare.
Subito tra gli ospiti un’esponente dalla maggioranza non ha mancato di manifestare platealmente la propria soddisfazione, considerando la risposta della Kranz come l’ammissione della assoluta necessità che la riforma al procedimento disciplinare occorra eccome e che il Ministro Madia non agisca per capriccio.
Ma, stanno davvero così le cose? Ovviamente, una trasmissione televisiva dai ritmi incalzanti nel corso della quale un ospite riesce a mala pena a parlare per 20 secondi di seguito non consente di esprimere concetti complicati in modo chiaro e completo.
Allora, occorre subito sgombrare il campo da ogni possibile equivoco: è evidente che una nuova legge per consentire il licenziamento dei dipendenti pubblici non è per nulla necessaria. Se lo fosse, non si capirebbe come avrebbe potuto, in questi anni, la dottoressa Kranz agire con la sua struttura. Ella ha potuto giungere al licenziamento di circa 20 dipendenti (quasi il 10% del totale dei licenziamenti di tutta la PA nel 2013) esattamente perché la legge lo consente.
Dunque, occorre rimettere le cose a posto. Un conto è ritenere necessaria la riforma Madia per poter licenziare; altro è considerare opportuno ogni intervento normativo utile a eliminare dal sistema vigente possibili difetti. Questa è stata, sostanzialmente, l’invocazione della dottoressa Kranz, sulla quale è difficile non condividere.
Tuttavia, è giusto, approfittando del tempo e dello spazio diversissimi consentiti da uno scritto, precisare qualcosa.
Si pone certamente un problema relativo alle competenze, cioè su “chi” quale organo debba attivare l’azione disciplinare. Ma non si tratta di un tema irrisolvibile o, comunque, dirimente. Vediamo perché.
Il possibile “conflitto di competenze” si pone solo negli enti nei quali sia presente la dirigenza. Infatti, in questo caso la responsabilità di applicare le sanzioni disciplinari è ripartita, ai sensi dell’articolo 55-bis del d.lgs 165/2001, come introdotto dalla riforma-Brunetta tra:
il dirigente della struttura nella quale lavora il dipendente accusato, qualora l’infrazione disciplinare commessa determini l’applicazione della sanzione massima della sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione, fino a 10 giorni;
- l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, per tutte le sanzioni che vanno dalla sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione, da 11 giorni, fino al licenziamento.
Il problema che si pone riguarda solo l’individuazione del soggetto che deve agire ed è limitato, per altro, a precise fattispecie dei codici disciplinari contenuti nei contratti collettivi di lavoro. Questi, infatti, individuano infrazioni “tipiche” connettendole alle possibili sanzioni. Per esempio, ai sensi dell’articolo 3, comma 5, del Ccnl 11.4.2008 del comparto Regioni-autonomie locali, “la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni si applica, graduando l’entità della sanzione in relazione ai criteri di cui al comma 1, per:
- a) recidiva nelle mancanze previste dal comma 4[1], che abbiano comportato l’applicazione del massimo della multa;
- b) particolare gravità delle mancanze previste al comma 4;
- c) assenza ingiustificata dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono dello stesso; in tali ipotesi l’entità della sanzione è determinata in relazione alla durata dell’assenza o dell’abbandono del servizio, al disservizio determinatosi, alla gravità della violazione degli obblighi del dipendente, agli eventuali danni causati all’ente, agli utenti o ai terzi;
- d) ingiustificato ritardo, non superiore a 10 giorni, a trasferirsi nella sede assegnata dai superiori;
- e) svolgimento di attività che ritardino il recupero psico-fisico durante lo stato di malattia o di infortunio;
- f) testimonianza falsa o reticente in procedimenti disciplinari o rifiuto della stessa;
- g) comportamenti minacciosi, gravemente ingiuriosi, calunniosi o diffamatori nei confronti di altri dipendenti o degli utenti o di terzi;
- h) alterchi negli ambienti di lavoro, anche con utenti o terzi;
- i) manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’ente, salvo che siano espressione della libertà di pensiero, ai sensi dell’art.1 della legge n.300 del 1970;
- j) atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, lesivi della dignità della persona;
- k) violazione di obblighi di comportamento non ricompresi specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi;
- l) sistematici e reiterati atti o comportamenti aggressivi, ostili e denigratori che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente”.
Per comprendere, allora, se ad agire deve essere il dirigente o l’ufficio per i procedimenti disciplinari, occorre confrontare l’infrazione segnalata con le fattispecie tipiche contrattuali. Azione certo non automatica né banale, ma fattibile. Per altro, non necessaria negli enti privi di dirigenza, che, nel caso degli enti locali, sono la stragrande maggioranza, dal momento che in quel caso agisce direttamente e solo l’ufficio apposito.
Potrà forse essere barocco, potrebbe essere tutto semplificato, ma la ratio sottesa a questa ripartizione delle competenze nella riforma-Brunetta c’è ed è chiara: assegnare al dirigente stesso la responsabilità di sanzionare i dipendenti ad esso assegnati, sollevando l’ufficio da eccessivi carichi di lavoro e, per altro, agendo in termini molto brevi.
Infatti, l’azione disciplinare condotta dai dirigenti deve concludersi entro 60 giorni; nel caso in cui la competenza sia dell’ufficio, il termine raddoppia, va a 120 giorni.
Dunque, la ripartizione delle competenze ha l’evidente scopo di ridurre l’operato degli uffici, che sono organi collegiali e quindi di complessa organizzazione, e di velocizzare il procedimento per sanzioni considerate di entità tale da essere connesse all’esercizio del potere datoriale dei dirigenti.
Non pare che questo costituisca un’architettura barocca. Tuttavia, sembra che su questo aspetto si stia concentrando l’attenzione del Governo. Su Il Sole 24 Ore del 6 novembre l’articolo “Pa, stretta sui licenziamenti per i «furbi» e meno discrezionalità ai dirigenti” informa che “L’ipotesi (e la novità) principale allo studio è quella di porre incapo all’«Ufficio per i procedimenti disciplinari» (l’Upd, già presente in tutte le strutture) le procedure per irrogare sanzioni superiori al rimprovero scritto, prevedendo termini perentori di inizio e fine del procedimento”.
La novità, tuttavia, non risolverebbe affatto del tutto la questione della competenza, che si riproporrebbe esattamente com’è oggi, in relazione alla necessità di valutare se la sanzione debba contenersi o andare oltre il rimprovero scritto (cioè la censura). Poi, chiamare novità un ritorno al passato, cioè limitare alla censura la competenza diretta del dirigente, non appare francamente del tutto logico e coerente.
La dottoressa Kranz, poi, solleva anche la questione dei termini, guarda caso anch’essa oggetto – stando al Sole 24 Ore – di particolare attenzione da parte di Palazzo Vidoni, che vorrebbe prevedere “termini perentori di inizio e fine del procedimento”. Giusto pretendere detti termini perentori, ci mancherebbe.
Meno corretto, tuttavia, è lasciar credere che oggi non esistano. Perché, invece, già oggi i termini di inizio e fine del procedimento disciplinare sono con assoluta chiarezza perentori.
Proviamo a leggere l’articolo 55-bis del d.lgs 165/2001, nell’interezza del comma 2: “Il responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cui il dipendente lavora, anche in posizione di comando o di fuori ruolo, quando ha notizia di comportamenti punibili con taluna delle sanzioni disciplinari di cui al comma 1, primo periodo, senza indugio e comunquenon oltre venti giorni contesta per iscritto l’addebito al dipendente medesimo e lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato, con un preavviso di almeno dieci giorni. Entro il termine fissato, il dipendente convocato, se non intende presentarsi, può inviare una memoria scritta o, in caso di grave ed oggettivo impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per l’esercizio della sua difesa. Dopo l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile della struttura conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell’addebito. In caso di differimento superiore a dieci giorni del termine a difesa, per impedimento del dipendente, il termine per la conclusione del procedimento è prorogato in misura corrispondente. Il differimento può essere disposto per una sola volta nel corso del procedimento. La violazione dei termini stabiliti nel presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa”. Essendovi, dunque, la sanzione della decadenza i termini sono senz’altro perentori.
E se ad agire è l’ufficio per i procedimenti disciplinari? Leggiamo il successivo comma 4: “Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi del comma 1, secondo periodo. Il predetto ufficio contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quelle di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti e salva l’eventuale sospensione ai sensi dell’articolo 55-ter. Il termine per la contestazione dell’addebito decorre dalla data di ricezione degli atti trasmessi ai sensi del comma 3 ovvero dalla data nella quale l’ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell’infrazione, mentre la decorrenza del termine per la conclusione del procedimento resta comunque fissata alla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. La violazione dei termini di cui al presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa”. Come si nota, anche in questo caso la violazione dei termini implica la decadenza dall’azione disciplinare: quindi anche in questo caso i termini sono perentori.
Viene a mancare, dunque, nettamente il presupposto che il procedimento disciplinare sia privo di termini certi e perentori.
Li si vogliono abbreviare? Ben venga, ma è una questione completamente diversa dall’asserita assenza di termini perentori.
Il procedimento di termini ne ha, poi, troppi? Ma, in realtà si ha:
- un termine iniziale che decorre dalla notizia dell’infrazione;
- un termine per contestare per iscritto l’infrazione disciplinare al dipendente e convocarlo per le difese;
- un termine per concludere il procedimento;
- un eventuale differimento dei termini, per casi tipizzati;
- un’eventuale sospensione dei termini, qualora, ai sensi dell’articolo 55-ter, comma 1, del d.lgs 165/2001 “l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente”.
Siamo proprio sicuri che la presenza di tre fasi e di tre termini fissi, un differimento eventuale ed una sospensione eventuale consentano di qualificare come “barocco” il procedimento disciplinare? Ma, allora, un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, oppure una procedura di gara d’appalto o anche un procedimento di valutazione di impatto ambientale cosa sono?
Infine, molto si discute sulla “discrezionalità” nel gestire l’azione disciplinare. La discussione si fonda sulla confusione che da sempre caratterizza la locuzione “discrezionalità amministrativa”. Secondo molti, troppi, tale discrezionalità coincide, nella sostanza, nell’arbitrio, cioè la scelta di adottare la decisione che meglio pare. Non è così. La discrezionalità consiste nell’applicare regole tecnico-giuridiche per guidare la decisione, tra tante legittime possibili, verso quella che meglio contemperi gli interessi in gioco. Molte volte, la discrezionalità è molto limitata nella sola scelta di quale tra decisioni già definite a monte da norme generali e astratte è da applicare al caso concreto: la “tecnica” consiste nell’abbinare il “caso” alla decisione vincolante precostituita dall’ordinamento.
Nel caso del comune di San Remo e, comunque, di ogni azione da “furbetti del cartellino”, la “discrezionalità” è quella della seconda tipologia sintetizzata sopra. Consiste solo nel rilevare e provare il fatto: la sanzione è automatica.
Infatti, l’articolo 55-quater del d.lgs 165/2001 (anch’esso introdotto dalla riforma-Brunetta), contiene un elenco tipico di casi al ricorrere dei quali non può, ma deve scattare il licenziamento disciplinare, ovviamente all’esito del procedimento che accerti l’effettivo verificarsi dei fatti, tra i quali la lettera a) prevede espressamente la “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”.
Dal che si può concludere che l’attuale normativa, senza attendere alcuna revisione, consente tranquillamente all’ufficio dei procedimenti disciplinari di avviare e concludere entro 120 giorni un procedimento per giungere al licenziamento del dipendente che falsifichi la propria presenza in servizio, se documenti, fatti e prove raccolti ed analizzati nel corso del procedimento dimostrino i fatti. Il tutto, senza dover aspettare il procedimento penale, poiché l’articolo 55-ter del d.lgs 165/2001 rende il procedimento disciplinare del tutto autonomo da quello giurisdizionale. Tutto il resto è “colore”. O noia, se volete.
[1] I comportamenti previsti dal comma 4 dell’articolo 3 del Ccnl 11.4.2008 del comparto regioni-autonomie locali sono:
a) inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell’orario di lavoro;
b) condotta non conforme ai principi di correttezza verso superiori o altri dipendenti o nei confronti del pubblico;
c) negligenza nell’esecuzione dei compiti assegnati, nella cura dei locali e dei beni mobili o strumenti a lui affidati o sui quali, in relazione alle sue responsabilità, debba espletare attività di custodia o vigilanza;
d) inosservanza degli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni e di sicurezza sul lavoro ove non ne sia derivato danno o disservizio;
e) rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio dell’ente, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 6 della legge 20 maggio 1970 n. 300;
f) insufficiente rendimento, rispetto ai carichi di lavoro e, comunque, nell’assolvimento dei compiti assegnati.
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