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Blocco contratti pubblico impiego: la Consulta decida come giudice delle leggi e non ragioniere o audit interno

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Il pressing sulla Corte costituzionale si fa sempre più serrato, nel nome della ragione finanziaria.

Dopo la sentenza 70/2015 che ha dichiarato l’incostituzionalità della norma del Governo Monti che ha bloccato ai pensionati la rivalutazione per gli anni 2013 e 2014, il fuoco di fila del Governo stesso e della gran parte della stampa sulla Consulta è stato incessante e violentissimo.

In tantissimi hanno utilizzato ragionamento in tutto metagiuridici, per mettere in discussione una sentenza, quella sulle pensioni, in tutto e per tutto ed esclusivamente giuridica. Come non può non essere una sentenza che è emessa dal “giudice delle leggi”, cioè un esame di conformità della legge alla legge suprema, la Costituzione.

L’esito della campagna di pressione nei confronti della Consulta è sotto gli occhi di tutti. Per un vero, la Corte costituzionale si è ritenuta nel dovere di preannunciare il rigetto della questione di legittimità costituzionale riguardante l’aggio dell’8% ad Equitalia, per la sua attività di riscossione: una decisione che, ovviamente, sarà da rispettare, ma si presta a critiche molto maggiori di quelle riguardanti la decisione sulle pensioni, in quanto lascia ad Equitalia una configurazione quasi privatistica, mentre è un elemento dell’ordinamento pubblico.

Ma, ancora più di rilievo è l’ulteriore esito del tiro alla Consulta: la presentazione, da parte dell’Avvocatura di Stato, del “conto” dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale delle norme, sempre del Governo Monti, che hanno allungato fino al parossismo il blocco dei contratti relativi al lavoro pubblico, fermi al 2009.

Si tratta di un “conto” da 35 miliardi di euro: tanto costerebbe l’accoglimento del ricorso, tra arretrati, riallineamento ed inserimento della spesa nel Def e nel bilancio pluriennale.

L’Avvocatura di Stato, anch’essa coinvolta in aspre critiche per non aver presentato il “conto” del costo della questione relativa alle pensioni, ha adempiuto, in fondo, in modo pragmatico al proprio dovere: sostenere le ragioni del Governo per la legittimità costituzionale delle leggi approvate dallo Stato, attraverso il Parlamento.

Dunque, anche l’argomentazione relativa al rispetto dell’equilibrio dei conti è, certamente, uno strumento del quale l’Avvocatura è corretto si avvalga.

Tuttavia, l’onestà intellettuale imporrebbe di prendere atto che l’argomentazione proposta non può di per sé rappresentare sufficiente ragione per respingere non solo il ricorso relativo al blocco della contrattazione pubblica, ma qualsiasi ricorso per la legittimità costituzionale di leggi con conseguenze finanziarie.

L’argomentazione del “costo” e della necessità di tenere conto degli equilibri di bilancio, come del resto imposto dall’articolo 81 della Costituzione, è fin troppo debole e capziosa.

E’ fino troppo evidente che l’articolo 81 della Costituzione è una norma rivolta non certo alla Consulta, giudice delle leggi, ma a Governo e Parlamento. Il comma 1 di tale norma dispone: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”.

E’ vero che anche la Corte costituzionale è parte, fondamentale, dello Stato. E’ anche vero che l’equilibrio delle entrate e delle spese è, tuttavia, frutto esclusivo dell’azione del potere legislativo ed esecutivo, gli unici che materialmente “muovono” le risorse.

L’articolo 81 della Costituzione costituisce solo un parametro di scenario e secondario per lo scrutinio di legittimità costituzionale delle leggi. E’ fin troppo chiaro che una legge capace di generare una spesa equilibrata da corrispondenti entrate esatte, tuttavia, in modo da penalizzare alcune categorie di cittadini sì da ledere, per esempio, il principio di eguaglianza posto dall’articolo 3 della Costituzione, anche se rispettosa dell’articoli 81, non potrebbe, tuttavia, sfuggire alla sua intrinseca incostituzionalità.

Se così non fosse, se, cioè, il principio del pareggio o equilibrio di bilancio (per altro fissato in termini relativi e non assoluti) dovesse essere considerato prevalente o, comunque, necessario metro di misurazione della legittimità costituzionale delle leggi, allora nessuna legge di stabilità o, comunque, avente contenuti di carattere finanziario ed economico, potrebbe mai essere dichiarata incostituzionale.

Tutte le leggi, infatti, debbono rispettare il principio del pareggio. Allora, per qualsiasi Governo e Parlamento (li citiamo insieme, pur consapevoli che il potere legislativo spetti solo al Parlamento, perché nei fatti, da troppo tempo, il potere legislativo si è autoridotto ad essere quasi un mero ratificatore dell’esecutivo) basterebbe presentare le tabelle finanziarie, dimostrare il rispetto del principio e rivendicare davanti alla Consulta, per mezzo dell’Avvocatura, l’intangibilità della legge, perché altrimenti si verificherebbe uno squilibrio finanziario.

Tutto questo sarebbe illogico e paradossale. Il potere legislativo ed esecutivo, nell’amministrare l’interesse pubblico, esercitano la sovranità e l’indirizzo politico: il che significa assumere decisioni consistenti nel ritenere prioritari determinati obiettivi rispetto ad altri, sì da considerare prevalente l’opportunità di destinare finanziamenti o, al contrario, tagli di spesa per determinati fini, rispetto ad altri.

Ma, il rispetto del pareggio di bilancio è sempre e solo accessorio, consequenziale e logicamente successivo, alla scelta politica e di governo: una certa spesa si attiva o si taglia, determinando la necessità del pareggio, in conseguenza di una scelta politica, non il contrario.

La Corte costituzionale, però, non ha il compito di esaminare le leggi in funzione delle loro conseguenze economico-finanziarie. Solo il degrado della scienza giuridica, da anni dimostrato dalle continue esortazioni a fare a meno nella PA di professionalità giuridiche per sostituirle con quelle economiche, può far trarre simile fuorviante conclusione.

La Corte costituzionale non è la Corte dei conti, né un ufficio di audit finanziario, né un organo di controllo ragioneristico: è il giudice delle leggi, che valuta l’esercizio della sovranità e dell’indirizzo politico alla luce del rispetto dei tanti vincoli posti dalla Costituzione. L’articolo 81 è solo un accessorio, che può avere rilievo solo laddove l’eventuale incisione sui precetti costituzionali determinati da una legge siano ragionevoli, equilibrati, non lesivi, e, dunque, il rispetto del principio degli equilibri di bilancio possa emergere dalle retrovie.

L’esame di legittimità costituzionale del blocco della contrattazione non può e non deve riguardare le “conseguenze” economiche che, inevitabilmente, vi sarebbero.

Quello che la Consulta deve decidere è proprio se tali conseguenze economiche, inevitabili, siano rispettose della Costituzione, qualsiasi sia la loro entità. Una sentenza di accoglimento indurrebbe Governo e Parlamento a rispettare l’articolo 81 modificando bilanci e previsioni di spesa, sì da adeguare una legislazione incostituzionale, dunque irrispettosa della legge suprema e dei diritti, e correggere l’illegittima spendita delle risorse connessa alla norma incostituzionale.

Detto questo, siamo dell’idea che molto probabilmente la Consulta rigetterà il ricorso, ma non per la questione del “costo” dell’eventuale accoglimento, bensì per una ragione molto più semplice: non appare irrazionale che lo Stato, quale datore di lavoro di 3,2 milioni di dipendenti, proprio per assicurare equilibri di bilancio e razionalità della spesa e della gestione, adotti una politica di bilancio che tenga nel dovuto conto della necessità di tenere sotto controllo una voce di spesa di circa il 19,7% sulla spesa totale. Lo Stato ha agito come un datore privato e, anzi, non ha attivato sistemi ben più traumatici, come contratti di solidarietà o licenziamenti o tagli diretti al valore nominale dei trattamenti economici, come è avvenuto in altri Paesi.

Queste sarebbero argomentazioni rispettose della Costituzione e si spera che la Consulta comunque si attenga a similari principi, quale che sia la sua decisione finale, non riducendosi ad ufficio ragioneria del Governo.

 

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