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Il peccato originale della nuova “riforma epocale” della Pa
06.08.15
Luigi Oliveri
Della legge delega di riforma della pubblica amministrazione non appare chiara la direzione. Si vuole ampliare o ridurre l’intervento dello Stato? Si vuole un apparato amministrativo tecnicamente autonomo o strettamente legato alla politica?
Ancora una riforma della pubblica amministrazione
La legge delega Madia per riformare la pubblica amministrazione viene da molti definita come una “riforma epocale” dell’apparato amministrativo. Sarebbe, in effetti, l’ennesima delle riforme “epocali” che si inseguono da circa venti anni, ripetendo sempre gli stessi temi: spinta verso la digitalizzazione, maggiore trasparenza, rafforzamento della “conferenza dei servizi” come strumento di raccordo dell’azione di più amministrazioni, accorpamento degli uffici, licenziabilità della dirigenza pubblica, strumenti di valutazione del personale, razionalizzazione delle società partecipate. E, ovviamente, risparmi.
La ricorrenza dei temi e la ridondanza delle leggi (sempre “epocali”) che li trattano da anni non fanno sperare troppo nella efficacia e definitività della riforma Madia, anche se ovviamente c’è da augurarsi che riesca nell’intento, mentre la gran parte dei contenuti di dettaglio può essere valutata solo successivamente all’emanazione delle circa quindici deleghe legislative previste. Su alcuni grandi ambiti è tuttavia possibile provare a valutarne già ora gli esiti.
Risparmi
Il governo ripone molta fiducia nella possibilità che la riforma permetta di contenere in maniera rilevante la spesa pubblica. Oggettivamente, l’impianto non appare di per sé in grado di far conseguire evidenti e, soprattutto, immediati risparmi, se non dal tentativo di accorpare le prefetture trasformandole in uffici direzionali del governo dove concentrare tutte le attività degli uffici decentrati, nonché ridurre a metà circa le camere di commercio. Il contenimento della spesa potrebbe derivare dall’attivazione reale della digitalizzazione e dall’estensione di strumenti di netta riduzione degli oneri amministrativi, come il silenzio-assenso o la segnalazione certificata di inizio attività – sistemi che consentono all’iniziativa dei privati la formazione delle autorizzazioni amministrative, riducendo l’attività degli enti a funzioni di indirizzo e controllo. Tuttavia, per valutare realmente quanto queste semplificazioni potranno far contenere la spesa (è del 2005 una riforma alla legge sul procedimento amministrativo che ha gli stessi contenuti), occorrerà certamente un periodo medio-lungo. E bisognerebbe indurre le amministrazioni a pianificare e rendere evidenti i tagli di spesa connessi alla riduzione degli oneri.
Semplificazione
Tuttavia, l’attività della pubblica amministrazione è nella gran parte formata da prestazioni di servizi ad alta intensità di manodopera. Questo fa sì che una parte molto rilevante dei costi sia legata alla spesa per gli stipendi. Non è un caso che da circa quindici anni i blocchi delle assunzioni o alla contrattazione siano stati gli strumenti mediante i quali conseguire risparmi certi e misurabili. Dopo la sentenza della Consulta 178/2015 che ha considerato incostituzionale il congelamento della contrattazione, sarà più difficile incidere sui costi del personale. Né appare facile insistere sul blocco delle assunzioni, che ha cagionato un progressivo invecchiamento della flotta dei dipendenti pubblici. Per la “sburocratizzazione” allora sarebbe decisivo, oltre all’informatizzazione e agli strumenti di deflazione operativa, anche ridurre una volta per tute l’insopportabile carico di norme e regole, che rendono complicatissima la gestione, non solo per i cittadini, ma per lo stesso apparato pubblico. Tuttavia, proprio la legge delega Madia evidenzia il consueto difetto della ridondanza di regole di dettaglio.
Il personale
A partire dal 1993, con la “riforma Cassese”, le modifiche “epocali” all’ordinamento del personale pubblico non si contano. A ben vedere, i criteri di delega rivolti al governo, per quanto riguarda in generale i dipendenti, si scostano ben poco dall’ultima delle riforme epocali, quella voluta dall’ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta: la valutazione dei dipendenti, sia pure in chiave di semplificazione, i controlli anti-fannulloni, l’irrigidimento dei procedimenti disciplinari. Per altro, proprio la sentenza della Corte costituzionale 178/2015, nel rilanciare la contrattazione collettiva, rimette in pista le misure della riforma Brunetta per concentrare verso pochi dipendenti gli incentivi per i risultati. Vi è poi un altro leitmotiv: la dirigenza pubblica. La riforma Madia spinge in maniera molto decisa verso l’estensione dello spoils system. Non tanto con l’introduzione della sbandierata “licenziabilità” dei dirigenti pubblici, in realtà sempre esistita. Piuttosto, mediante un altro più potente sistema di condizionamento: la discrezionalità assoluta, tale da non richiedere motivazioni sia nella scelta di chi incaricare, ma soprattutto di chi lasciare senza incarico, a languire nel ruolo unico.
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