tratto da FB
Pubblicazione dei patrimoni dei dirigenti. I vizi della delibera Anac
Luigi Oliveri
La deliberazione Anac 26 giugno 2019, n. 586, adottata per definire in modo risolutivo l’ambito di applicazione dell’articolo 14, comma 1-bis, del d.lgs 33/2019, alla luce della sentenza della Corte costituzionale 20/2019, ha di fatto ripristinato gli obblighi previsti dalla norma dichiarata incostituzionale. Per questa ragione, la decisione dell’Autorità non può essere considerata condivisibile, anche perché appare affetta da una serie di vizi sia di competenza, sia di merito con specifico riferimento alle valutazioni contenute.
Competenza. La deliberazione Anac succede alla deliberazione 241/2017 (poi sospesa in attesa della pronuncia della Consulta) ed ha lo scopo di “chiare” l’applicabilità dell’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 33/2013.
L’Anac, in sintesi, ritiene che le amministrazioni non statali sono chiamate a stabilire con propri regolamenti di organizzazione quali tipologie di incarichi dirigenziali siano gravati dall’obbligo di pubblicare sulla sezione Amministrazione Trasparente dei portali la situazione reddituale e patrimoniale, suggerendo di estendere gli obblighi ai dirigenti “di vertice”.
Il problema da affrontare riguarda la competenza dell’Anac ad intervenire su questo specifico campo della fissazione, con proprie linee guida, di adempimenti ed obblighi e va risolto sia con riferimento in assoluto all’attribuzione normativa di una competenza a provvedere, sia con riferimento nello specifico alle statuizioni contenute nella sentenza della Consulta 20/2019.
Partiamo dal primo aspetto e non possiamo non osservare che le linee guida proposte dall’Anac per un verso non hanno alcun potere vincolante, per altro verso sono adottate, nel caso di specie, in carenza di potere.
L’assenza di potere vincolante discende dalla mancanza, nel d.lgs 33/2013, di una espressa previsione normativa, analoga a quelle presenti nel codice dei contratti, che attribuiscano all’Anac il potere (e dunque la competenza) di adottare linee guida vincolanti, tali, quindi, da obbligare le amministrazioni ad attuarle.
Nè tale competenza può essere reperita nell’articolo 3, comma 1-ter, del d.lgs 33/2013. Tale norma dispone: “L’Autorità nazionale anticorruzione può, con il Piano nazionale anticorruzione, nel rispetto delle disposizioni del presente decreto, precisare gli obblighi di pubblicazione e le relative modalità di attuazione, in relazione alla natura dei soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte, prevedendo in particolare modalità semplificate per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, per gli ordini e collegi professionali”.
Come si nota, la norma:
-
non prevede (a conferma di quanto indicato sopra) alcun potere di emanare linee guida, tanto meno vincolanti;
-
semmai, la fonte per provvedere è il Piano nazionale anticorruzione, non linee guida;
-
in ogni caso, l’Anac può “precisare” gli obblighi di pubblicazione, non introdurli. Nel vocabolario Treccani on line il verbo precisare significa “dire, esporre con precisione, spiegarsi bene fornendo particolari circostanziati”. Precisare, cioè, significa disaggregare i termini di un ragionamento, non certo introdurne di nuovi.
Dovrebbe apparire evidente a tutti che nel momento in cui l’Anac, mediante un atto non previsto dalla legge, le linee guida, e comunque non vincolante, impone alle amministrazioni non statali, attraverso regolamenti di organizzazione, di introdurre l’obbligo per i dirigenti di vertice di pubblicare la loro situazione patrimoniale, di certo non sta precisando gli obblighi, ma ne sta introducendo di nuovi.
E’ bene sottolineare che l’Avvocatura dello Stato nel corso del giudizio avanti alla Corte costituzionale aveva invocato proprio l’articolo 3, comma 1-bis, del d.lgs 33/2013 a fondamento di una presunta intenterpretazione “costituzionalmente orientata” dell’articolo 14, comma 1, lettera f), e delle delibere attuative Anac, volta a negare l’incostituzionalità dell’obbligo di pubblicazione dello stato patrimoniale dei dirigenti. Ma, come è evidente dato il tenore della sentenza 20/2019, la Corte costituzionale non ha tenuto in alcun conto la suggestione proposta dall’Avvocatura dello Stato, negando indirettamente all’articolo 3, comma 1-bis, del d.lgs 33/2013 il rango di fonte di una competenza dell’Anac a fissare obblighi di pubblicazione normativamente non previsti.
Andando al secondo aspetto, è proprio la sentenza 20/2019 a confermare che comunque la delibera 586/2019 è stata adottata dall’Anac in carenza di potere e di competenza.
Leggiamo il seguente – decisivo – passaggio della sentenza: “La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale. Eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione.
La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio»”.
A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti.
Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.
Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto di segnalazione n. 6 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto di suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti.
Non prevedendo invece una consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost.”.
Dunque, in sintesi, la sentenza afferma:
-
l’assenza di differenziazione tra le tipologie degli incarichi dirigenziali costituisce un vizio dell’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 33/2013;
-
bene ha operato, quindi, il giudice rimettente nel rilevare questo vizio, del quale la Consulta ha tenuto conto ai fini dell’emanzione della sentenza 20/2019;
-
mancando la differenziazione tra incarichi dirigenziali, si evidenzia l’assenza di proporzionalità dell’obbligo di pubblicare lo stato patrimoniale;
-
è il Legislatore, quindi il Parlamento, che avrebbe dovuto distinguere, in rapporto al grado di esposizione al rischio di corruzione, gli incarichi soggetti all’intenso obbligo di pubblicare i dati patrimoniali, rispetto a quelli non soggetti;
-
tale compito, quindi, non spetta all’Anac, che non è il Legislatore;
-
tanto è vero che l’Anac a suo tempo propose al Parlamento una graduazione degli incarichi dirigenziali;
-
ma, il Parlamento non ha accolto tale proposta;
-
proprio l’assenza della graduazione determina violazione dell’articolo 3 della Costituzione da parte dell’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 33/2013.
Il ragionamento della Consulta appare assolutamente chiaro. Non si comprende, dunque, come l’Anac possa averlo così marcatamente travisato, tanto da:
-
sostituirsi al Legislatore, indicato – come ovvio – dalla Consulta come unico titolare del potere di graduare le funzioni dirigenziali in relazione agli obblighi di pubblicazione;
-
porre, conseguentemente, obblighi di pubblicazione di natura estensiva, rispetto al contenuto della norma censurata.
E’ da notare che la Consulta, che pure dispone del potere di adottare sentenze “additive” o comunque interpretative, ha ritenuto di non potersi sostituire al Legislatore nella graduazione delle funzioni dirigenziali. Si legge, infatti, nella pronuncia 20/2019: “Ha osservato l’Avvocatura generale dello Stato che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica.
Sorge, dunque, l’esigenza di identificare quei titolari d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione possa essere applicata, senza che la compressione della tutela dei dati personali risulti priva di adeguata giustificazione, in contrasto con il principio di proporzionalità.
È evidente, a questo proposito, che le molteplici possibilità di classificare i livelli e le funzioni, all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in relazione alla diversa natura delle amministrazioni di appartenenza, impediscono di operare una selezione secondo criteri costituzionalmente obbligati.
Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati.
Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore”.
Se la Corte costituzionale, che dispone del potere di adottare “pronunce manipolative” delle norme ritiene, correttamente, di non potersi sostituire al Legislatore, invitato a pronunciarsi urgentemente, non si capisce su quali basi l’Anac, invece, abbia ritenuto di poterlo fare.
Non resta, in ogni caso, che concludere per l’inapplicabilità della deliberazione 586/2019 dell’Anac, constatandone il vizio di assoluta carenza di potere.
Nel merito. In ogni caso, anche laddove si potesse dimostrare che l’Anac abbia adottato la delibera 586/2019 nel corretto esercizio della propria competenza, anche nel merito le indicazioni ivi contenute appaiono non condivisibili e da disapplicare.
Il tutto per il già citato plateale travisamento dei contenuti della sentenza 20/2019. L’Anac parte da un dato di fatto: la sentenza dichiara “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)”.
Dunque, è una sentenza che fa salva in parte la norma censurata e, precisamente, nella parte che si applica ai titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001.
L’Anac, quindi, si sente presa dalla necessità di verificare se sia doveroso e lecito estendere queste tipologie di incarichi anche ad altri dirigenti della PA.
Quelli previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, sono i seguenti:
– incarichi di Segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente (conferiti con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali previste dal comma 6);
– incarichi di funzione dirigenziale di livello generale (conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, in misura non superiore al 70 per cento della relativa dotazione, agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali richieste dal comma 6).
Ora, secondo l’Anac occorre necessariamente estendere la portata dell’articolo 14, comma 1, lettera f), per la parte non incostituzionale, a tutta la dirigenza “apicale”. Infatti, secondo l’Autorità “il fatto che la Corte richiami una norma del d.lgs. 165/2001 come parametro unico di riferimento per graduare gli incarichi dirigenziali, non permette di escludere che la normativa, nei termini indicati dalla Corte, possa essere applicabile anche alle amministrazioni non statali ma anzi, proprio da una lettura complessiva della sentenza, si deve ritenere che anche queste ultime siano ricomprese nell’ambito di applicazione della disciplina”.
La delibera 586/2019 supporta questa conclusione con tre argomentazioni:
1) “E’ utile sottolineare che la Corte, nel ripercorrere la disciplina rilevante sulla trasparenza dei dati dei dirigenti come modificata dal d.lgs. 97/2016, afferma che “la totalità della dirigenza amministrativa” è stata ora attratta nell’ambito dei doveri di trasparenza prima previsti per i titolari di incarichi politici”. Si tratta però, di una conclusione non corretta. E’ esattamente il travisamento di cui abbiamo fin qui parlato. L’Anac ritiene di ricavare dall’affermazione contenuta nella sentenza 20/2019 secondo la quale la disciplina della trasparenza vada applicata alla totalità della dirigenza amministrativa, la conclusione secondo la quale occorre, quindi, interpretare l’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 33/2013 in modo che sia il più possibile esteso ad un ordine di grandezza quasi corrispondente appunto alla totalità della dirigenza amministrativa.
Ma è evidente che simile chiave di lettura non può essere condivisa. Infatti, così operando, l’Anac di fatto ridà operatività alla norma che la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima, restringendo l’illegittimità a poche fattispecie.
Soprattutto, l’Anac equivoca totalmente il ragionamento della Corte costituzionale, dal quale trae una chiave di lettura diametralmente opposta a quella seguita dalla sentenza.
Abbiamo già visto prima i passaggi decisivi di essa, che però qui è il caso di riportare. Scrive la Consulta: “La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale. Eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo – che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare – sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione.
La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio
La sentenza, come è chiaro, quando ricorda che l’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 33/2012 “non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi” lo fa non certo per consentire attuazioni della pronuncia che di fatto la pongano nel vuoto, ma allo scopo esattamente opposto di sottolineare come la norma si applichi solo a ristrette categorie di dirigenti, visto che la stessa normativa anticorruzione impone diversi oneri di gestione del rischio corruttivo in relazione al diverso livello di esposizione degli uffici a tale rischio.
Mentre, quindi, la sentenza della Consulta auspica una distinzione degli incarichi dirigenziali per stabilire con chiarezza a quali pochi casi l’articolo 14, comma 1, lettera f), possa considerarsi applicabile, al contrario l’Anac parte da un’osservazione della sentenza di carattere del tutto marginale, per costruire un’inesistente necessità di estendere gli obblighi di pubblicazione dei patrimoni oltre il confine della dirigenza di massimo vertice nell’ambito delle amministrazioni dello Stato.
2) L’Anac, in secondo luogo, ritiene che l’estensione della portata dell’articolo 14, comma 1, lettera f), riferito ai dirigenti di vertice debba fondarsi sull’articolo 27 del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale le amministrazioni diverse da quelle statali debbano adeguare i propri ordinamenti ai principi del capo II del medesimo d.lgs 165/2001 sulla dirigenza.
Ma, anche questa affermazione si rivela erronea. L’adeguamento non consiste nell’uniformazione. L’adeguamento ai principi sulla dirigenza non può che fermarsi, appunto, ai principi, senza spingersi al dettaglio. Le amministrazioni regionali, locali e sanitaria non possono spingersi fino alla costituzione di incarichi dirigenziali distinti in fasce, per la semplice ragione che questo non è loro consentito, nemmeno in via di adeguamento attraverso l’esercizio dei poteri regolamentari e di organizzazione.
Non si deve dimenticare che l’ordinamento della dirigenza in fasce distinte è, con ogni evidenza, disciplina che incide direttamente sulla configurazione del rapporto di lavoro; pertanto, la potestà normativa connessa appartiene in via esclusiva al Parlamento nazionale, in quanto si tratta di ingerirsi in materie regolate dal codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro nell’impresa, che l’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, riserva alla potestà legislativa dello Stato.
Oltre tutto, solo la contrattazione nazionale collettiva di lavoro delle amministrazioni delle funzioni centrali prevede trattamenti stipendiali distinti in fasce; il che dimostra ulteriormente come non sia possibile nessun’opera di “adeguamento” ordinamentale volta ad introdurre negli enti non appartenenti alle amministrazioni dello Stato incarichi dirigenziali di vertice della tipologia di quelli previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001.
3) infine, l’Anac sostiene che “una applicazione rinviata all’intervento legislativo per dirigenti di alcune amministrazioni sarebbe contraria al principio di uguaglianza (situazioni uguali trattate temporaneamente in modo diverso) e alla stessa finalità espressa dalla Corte per giustificare il proprio intervento manipolativo, vale a dire quella di assicurare “la salvaguardia – almeno provvisoria – di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, [..]””.
Ma, è esattamente il contrario! La Consulta ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, lettera f), del d.lgs 165/2001 proprio laddove sia letto nel senso di estenderne la portata a tutta la dirigenza indistinta. La Consulta pretende proprio che vi siano obblighi di pubblicità diversi a seconda della tipologia dell’incarico dirigenziale, perché lesivo dell’articolo 3 è, invece, accomunare indistintamente e acriticamente tutta la dirigenza in quella disegnata dall’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001.
Il nucleo minimo di trasparenza da salvaguardare (fermo restando, per la verità, che tutti i dirigenti, qualunque sia il loro incarico sono comunque tenuti a pubblicare i redditi e depositare presso l’amministrazione di appartenenza le dichiarazioni patrimoniali), quindi, esattamente in attesa che intervenga il Legislatore, non essendo consentito a nessuno, Anac compresa, di sostituirsi al Parlamento, è “minimo” esclusivamente nei termini indicati dalla Consulta.
Non si può, quindi, che riferirsi al chiarissimo punto 1) del dispositivo della sentenza, che considera incostituzionale ogni obbligo di pubblicità esteso ad incarichi dirigenziali diversi da quelli previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001, espressamente citato dal medesimo punto 1) del dispositivo e, quindi, insuscettibile di qualsiasi interpretazione diversa, specie se estensiva.
Ancora non si può condividere l’avviso dell’Anac secondo il quale “l’elemento significativo rimane quello dei compiti svolti in cui il collegamento con gli organi di indirizzo va valutato quale indice di rilevanza delle attività e delle attribuzioni assegnate in quanto a capo di strutture complesse. Il collegamento con gli organi di decisione politica appare, infatti, un criterio non univoco, non essendo da solo, cioè, sempre tale da consentire una reale graduazione degli incarichi dirigenziali rispetto alle funzioni e ai compiti svolti, che, per l’applicazione della norma in questione, ad avviso della Corte, devono comunque essere di elevatissimo rilievo anche in termini di gestione di risorse umane, strumentali e di spesa”.
Il “collegamento con gli organi di decisione politica” può lasciar considerare accettabile l’assimilazione degli obblighi di pubblicazione del patrimonio imposto dalla legge nei confronti dei componenti degli organi di governo ai titolari di incarichi dirigenziali, solo se tale “collegamento” sia connesso non al rilievo dell’attività svolta, bensì all’effettivo personale collegamento di natura politica.
L’Anac incorre nell’errore di estrapolare dalla sentenza spezzoni di ragionamento, per utilizzarli a base del proprio intento di estendere la portata dell’articolo 14, comma 1, lettera f). Se si legge il passaggio della sentenza nel quale la Consulta si riferisce all’apicalità, si ha contezza molto evidente del corretto approdo interpretativo: “Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore.
Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati.
Tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente.
L’attribuzione a tali dirigenti di compiti – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute”.
L’Anac non intende dare rilievo al rapporto fiduciario, restringendo ai compiti “propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa” l’indagine della Consulta sulla possibilità di applicare ancora l’articolo 14, comma 1, lettera f), ad un nucleo “minimo”.
Al contrario, tale nucleo minimo non può che riferirsi a quel tipo di dirigenza che oltre a svolgere funzioni propositive, organizzative e gestionali (che per altro costituiscono esattamente il tratto comune di tutta la dirigenza, tranne in parte quella medica e quella professionale, come ad esempio gli avvocati) abbia proprio quel rapporto fiduciario che avvicina il dirigente nominato fiduciariamente alla sfera del politico che lo incarica.
L’Anac sorvola sul decisivo spunto motivazionale della sentenza della Consulta, che parte da un presupposto incontestabile: “I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi. La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. Su trattava, quindi, di comprendere se questa estensione operata dalla novella fosse o meno costituzionalmente legittima. Tale estensione, sottolinea la Corte, fa si che gli obblighi di pubblicazione della situazione patrimoniale “oltre che per i titolari di incarichi politici”, imponga a tutta la dirigenza “la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale”.
Ma, tale imposizione comprime eccessivamente il diritto alla riservatezza dei dirigente che non siano nella stretta connessione con la politica derivante dall’endiadi incarico fiduciario/gestione di elevatissimo livello. Questo perché i dati che l’articolo 14, comma 1, lettera f), impone di pubblicare “non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare”.
Insomma, per la grandissima parte della dirigenza non è ragionevole invocare gli obblighi di trasparenza considerati, invece, razionali per gli organi di governo. Vi sono limitati casi, un “nucleo minimo” nei quali la dirigenza possa essere coinvolta nell’obbligo di pubblicare i dati patrimoniali e questi casi coincidono con quegli incarichi connessi al rapporto fiduciario che la collega alla politica in modo chiaro ed evidente, tanto che la stessa Consulta dal 2007 afferma che lo spoil system sia applicabile esclusivamente proprio ai dirigenti di cui all’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001.
Questi dirigenti esprimono in modo chiaro e tondo una loro “personale adesione” (come afferma la giurisprudenza della Consulta) all’indirizzo politico, che contribuiscono a produrre e non si limitano ad attuare.
L’Anac non tiene conto che i dirigenti di cui all’articolo 19, commi 3 e 4, sono – di fatto – dei veri e propri sottosegretari, con i quali condividono moltissime competenze; si tratta di organi tecnici, di chiarissimo stampo politico e non è un caso che molto di frequente capi di gabinetto, ma anche proprio commissari straordinari, vice ministri, sottosegretari e ministri siano spesso stati selezionati esattamente dalla dirigenza di cui all’articolo 19, commi 3 e 4.
Si tratta di una dirigenza “tipizzata”, realmente in grado di formare l’indirizzo politico, nei confronti della quale, spiega la Consulta, una compressione della riservatezza è ammessa, tale è la connotazione politica e quindi il legame, sia pure indiretto, col “consenso” di chi vota.
La restante dirigenza non dispone di questi legami e l’estensione che l’Anac propone, per altro con strumenti regolamentari e quindi in contrasto chiarissimo con l’articolo 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, si conferma, quindi non solo priva di legittimazione a provvedere, ma anche di fondamento di merito e suscettibile di condurre all’esito opposto di quello indicato dalla sentenza della Consulta.
Enti locali, regioni, del servizio sanitario, quindi, non solo possono, ma si ritiene debbano non tenere in alcun conto le indicazioni della deliberazione 586/2019 dell’Anac. Per altro, regolamenti di organizzazione che dessero attuazione a tali indicazione si rivelerebbero illegittimi, se non nulli, proprio perché fondati sull’interpretazione suggerita dall’Anac, sicuramente contrastante con l’arresto giurisprudenziale che pure, formalmente, vorrebbe concretizzare.
Nessun tag inserito.