L’inganno della normativa anticorruzione
Su Il Fatto Quotidiano del 5 agosto 2016 il direttore, Marco Travaglio, si accorge della sostanziale inutilità della normativa anticorruzione, che induce a realizzare inutili piani triennali anticorruzione, regolarmente violati e che nessuno controlla.
Lo spunto dell’articolo è dato dalle nomine in Rai: in questi mesi la società pubblica ha fatto incetta di giornalisti e consulenti presi dall’esterno. Eppure, esiste un piano triennale di prevenzione della corruzione ai sensi del quale prima di reclutare personale dall’esterno “deve essere effettuata una ricognizione preliminare della disponibilità di risorse interne adeguate…a ricoprire la posizione ricercata”. Giustamente, il direttore de Il Fatto si chiede se in un’azienda con 1700 giornalisti è proprio così possibile che manchino le professionalità interne per chiamare alla direzione di testate, strutture e programmi una gragnola di soggetti esterni.
La sostanza della questione, tuttavia, sta nella circostanza che la Rai ha platealmente violato il proprio piano triennale di prevenzione della corruzione. Senza che, ovviamente, nessuno, dall’interno, abbia eccepito alcunché.
Tanto è vero che sulla questione l’Usigrai, sindacato dei giornalisti, ha dovuto presentare un esposto alla Corte dei conti e all’Anac. Quest’ultima, più di aprire un eventuale fascicolo non potrà fare, non disponendo di alcun potere né di indagine, né giudiziario, né repressivo. La Corte dei conti a sua volta, dovesse aprire (il che appare improbabile) un fascicolo, potrà eventualmente solo chiedere i danni derivanti da un eccesso di spesa, ma tutte le nomine effettuate resterebbero intangibili.
E il piano anticorruzione? Solo “ornamento”. Infatti, in Rai e come in Rai nella quasi totalità della pubblica amministrazione, il meccanismo di funzionamento è assolutamente perverso: viene individuato un “parafulmine”, il responsabile della prevenzione della corruzione, che dovrebbe applicare sanzioni nei confronti degli organi interni che lo nominano e lo vigilano. Il che priva di qualsiasi potere il responsabile stesso e crea, invece, una rete di coperture del tutto paradossale, ben sintetizzata sempre da Marco Travaglio: “ Quindi, ricapitolando: il Dge i direttori di rete violano il Piano anticorruzione e il relativo Protocollo al Tg2 e al Tg3, la maggioranza del Cda li copre, poi però i direttori di rete devono segnalare al dg le violazioni che lui stesso ed essi stessi hanno perpetrato, affinchè lui punisca loro e sé medesimo. E, se non lo fanno, vengono tutti puniti per non essersi puniti. Ora, con tutto il rispetto per Cantone: ma quando arrivano i carabinieri? ”.
La cosa “fa notizia” perché accaduta in Rai. Ma questo sistema perverso ed ingannevole, perché fa credere ai cittadini la sussistenza di chissà quali misure per garantire piena imparzialità ed inesistenza di conflitti di interessi nelle nomine e negli incarichi, nei comuni e nelle pubbliche amministrazioni esiste da sempre e la normativa anticorruzione non ha alcuna capacità di fermarlo.
D’altra parte, mentre da un lato Parlamento e Governo approvano norme sempre più cavillose e bizantine sull’anticorruzione, dall’altro approva disposizioni normative i cui effetti sono diametralmente opposti a quelli delineati dalla disciplina anticorruzione.
Un esempio, sempre a proposito di incarichi di vertice? La riforma Madia della dirigenza. Il PNO, cioè il Piano Nazionale Anticorruzione, nelle sue varie versioni, individua in procedure selettive e di reclutamento nelle quali si dia troppo spazio alla discrezionalità della scelta un rischio corruttivo elevatissimo, invitando a porvi rimedio. Cosa prevede, allora, l’articolo 11 della legge 124/2015? Che gli incarichi dirigenziali siano affidati ai dirigenti inseriti nel ruolo unico nazionale sulla base di una serissima ed approfondita valutazione di Commissioni nazionali “indipendenti” (ma i cui componenti sono di nomina politica). Bene, si direbbe: sono certamente rispettati i criteri di pubblicità delle selezioni, trasparenza e tracciamento delle modalità di scelta, meritocrazia nella valutazione dei curriculum. Certo. Peccato, però, che le Commissioni non realizzino una graduatoria vincolante, ma si limiteranno a creare delle “rose” di nomi, nell’ambito delle quali saranno gli organi politici (ministri, sindaci, presidenti delle regioni, ecc…) a scegliere in modo totalmente arbitrario il dirigente che risulterà più gradito. Un sistema perfetto per aggirare qualsiasi strumento anticorruttivo. Perché si fa apparire il rispetto di regole come, appunto, trasparenza e pubblicità, che però sono solo una veste esterna relativa ad una fase preliminare della procedura. La fase di sostanza, quella della scelta, invece, è slegata da qualsiasi obbligo di selezione e motivazione, rimessa alla scelta totalmente discrezionale della politica.
Pertanto, sarà evidente che la “negoziazione” sui nomi si sposterà nei rapporti tra politica e Commissioni: basterà concordare che nelle “rose” rientrino – sempre – i dirigenti colorati e tesserati e graditi, sui quali inevitabilmente, poi, ricadrà la scelta finale.
Il problema è che la normativa su anticorruzione e trasparenza è solo un travestimento: un insieme di adempimenti e procedure che obbligano ad una micidiale attività burocratica volta alla produzione di documenti di decine e decine di pagine, tanto piene di “misure” anticorruttive, quanto illeggibili e facilmente violabili, senza che nessuno possa farci nulla. Infatti, si perpetra l’errore micidiale delle “riforme” di questi 25 anni: l’eliminazione di controlli esterni e preventivi su atti e decisioni, sostituiti da controlli interni inutili, affidati o a soggetti nominati e pagati dalla politica (revisori dei conti oppure organismi di valutazione) o a dipendenti dell’ente stesso, come i responsabili della prevenzione della corruzione, che possono intervenire comunque prevalentemente dopo l’adozione della decisione, ma con capacità e poteri flebili, perché sotto la pressione del datore di lavoro, che dovrebbe essere oggetto del controllo e dell’eventuale sanzione “interna”.
Non si tratta, ovviamente, di criticare il principio: le misure anti corruzione sono doverose e necessarie. Il problema è che le disposizioni attualmente vigenti costituiscono solo orpelli in bella vista, ma sono privi di efficacia e, comunque, depotenziati dalle “riforme”.
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