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Lavoro accessorio (voucher): l’esempio del comune di Torino non è una buona prassi
Non è il lavoro accessorio, noto come voucher, di per sé né l’origine di tutti i mali del mercato del lavoro in Italia, né uno strumento in linea astratta il cui fine è la precarizzazione del lavoro. Il problema consiste nell’utilizzo e nel fine concreto perseguito.
Certo, occorre sottolineare che, contrariamente a quanto affermato da gran parte degli osservatori in questi giorni, è stato proprio il cosiddetto Jobs Act, con l’articolo 48 del d.lgs 81/2015 a disporre la liberalizzazione più spinta possibile dell’utilizzo del lavoro accessorio.
Vediamo nella tabella che segue l’evoluzione normativa dell’istituto, per dimostrare la progressiva liberalizzazione fino al punto estremo vigente oggi:
Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo originario
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Articolo 70 d.lgs 276/2003 – testo dell’ultima modifica prima dell’abolizione
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Articolo 48 d.lgs 81/2015
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1. Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, nell’ambito:
a) dei piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap;
b) dell’insegnamento privato supplementare;
c) dei piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia a manutenzione di edifici e monumenti;
d) della realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;
e) della collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi o di solidarietà.
2. Le attività lavorative di cui al comma 1, anche se svolte a favore di più beneficiari, configurano rapporti di natura meramente occasionale e accessoria, intendendosi per tali le attività che coinvolgono il lavoratore per una durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare e che, in ogni caso, non fanno complessivamente luogo a compensi superiori a 3 mila euro sempre nel corso di un anno solare.
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1. Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente. Fermo restando il limite complessivo di 5.000 euro nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative di cui al presente comma possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente comma. Per gli anni 2013 e 2014, prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, fermo restando quanto previsto dal comma 3 e nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno solare, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università;
b) alle attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all’articolo 34, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, che non possono, tuttavia, essere svolte da soggetti iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
3. Il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno.
4. I compensi percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all’articolo 72 sono computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.
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1. Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Fermo restando il limite complessivo di 7.000 euro, nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente comma.
2. Prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di compenso per anno civile, rivalutati ai sensi del comma 1, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.
3. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano in agricoltura:
a) alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università;
b) alle attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all’articolo 34, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, che non possono, tuttavia, essere svolte da soggetti iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
4. Il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno.
5. I compensi percepiti dal lavoratore secondo le modalità di cui all’articolo 49 sono computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.
6. E’ vietato il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
7. Resta fermo quanto disposto dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001.
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Si nota molto facilmente che il lavoro accessorio passa da uno strumento straordinario di avvicinamento al lavoro per categorie di soggetti lontani dal mercato[1], ad una disciplina aperta ad ogni settore produttivo, a qualsiasi tipo di datore di lavoro e a qualsiasi tipologia di destinatario-lavoratore, con una crescita progressiva del tetto annuo dei compensi percepibili.
Nella sostanza, attualmente il lavoro accessorio finisce per sostituire:
1) sia le mini collaborazioni coordinate e continuative, regolate nel previgente ordinamento dall’articolo 61, comma 2, del d.lgs 276/2003, come “prestazioni occasionali”, intendosi per tali rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare[2] con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila euro;
2) sia le vere e proprie collaborazioni coordinate e continuative, se come tali si intendano prestazioni non occasionali e, dunque, di durata prolungata, superiore al limite di 30 giorni fissato dal precedente ordinamento.
Poiché l’articolo 1 del d.lgs 81/2015 ha introdotto indicatori molto rigorosi per ricondurre le co.co.co. a vere e proprie prestazioni di collaborazione autonoma, utilizzare il lavoro accessorio al posto delle co.co.co. può rivelarsi molto utile per evitare di incorrere nell’eventuale sanzione “reale” della trasformazione del rapporto in lavoro subordinato.
Inoltre, l’utilizzo del lavoro accessorio, se male applicato, può anche condurre alla conseguenza della riduzione molto forte non solo degli oneri “burocratici” connessi alla sottoscrizione di contratti di lavoro, ma anche degli oneri economici. Infatti, si tende a far coincidere il valore del voucher, 10 euro lordi (dei quali 1,3 euro come versamento contributi all’Inps, 0,7 euro come assicurazione Inail e 0,5 euro come rimborso spese al concessionario), cioè 7,5 euro netti, con il compenso orario della prestazione prevista.
Si tratta di un travisamento. Il voucher è sia un sistema di regolazione del rapporto di lavoro, sia un mezzo di pagamento: non è affatto, invece, la determinazione del costo orario della prestazione. Se un’attività prevista normalmente nel mercato come collaborazione tra committente e prestatore fosse stata fissata in 15 euro netti l’ora, le parti, accordandosi per un pagamento mediante voucher dovrebbero prevedere che ogni ora venga retribuita con due buoni, mantenendo il valore di 15 euro orari.
Spessissimo, invece, non avviene così: il valore facciale del voucher viene fatto coincidere con il pagamento dell’ora di lavoro.
Qui cominciamo a vedere i difetti molto gravi nell’impiego dei voucher da parte delle amministrazioni pubbliche, come nel cattivo esempio dato dal comune di Torino, nell’ambito del progetto “Giovani per l’integrazione”.
L’articolo 3 del bando dell’iniziativa evidenzia i compiti dei soggetti coinvolti, che verranno pagati appunto con voucher:
“I prestatori di lavoro accessorio individuati a seguito del presente avviso svolgeranno principalmente la propria attività nei seguenti ambiti:
– accoglienza, orientamento e prima informazione agli utenti di uffici e sportelli pubblici (Ufficio Immigrazione della Questura di Torino e altri uffici della Città di Torino);
– affiancamento ai dipendenti pubblici per comunicare con l’utenza straniera e superare le difficoltà nel far comprendere i contenuti linguistici e le procedure;
– diffusione ampia ed aggiornata delle informazioni riguardanti i servizi offerti sul territorio cittadino, utilizzando anche la guida Torino è la mia città”.
Come si nota, si tratta di attività lavorative qualificabili come straordinarie, sì, dal momento che fanno parte di un progetto di durata limitata; manca, tuttavia, il requisito dell’occasionalità “mera”, comunque non più richiesta dalla normativa, dal momento che le prestazioni sono certamente continuative e ripetitive.
Lo conferma il successivo articolo 4 del bando: “L’orario di lavoro, da svolgersi esclusivamente presso la sede assegnata, sarà definito dal coordinatore del progetto secondo le esigenze di servizio e sarà orientativamente di 4 ore giornaliere da effettuarsi nella fascia oraria mattutina o pomeridiana, fino al raggiungimento di un tetto massimo di 500 ore”.
E’ semplicissimo notare che:
1) si parla di “orario di lavoro” da prestare;
2) di “esigenze di servizio”;
3) di limite orario giornaliero (anche se flessibile) entro fasce orarie.
Se il tutto fosse disciplinato mediante co.co.co. e se il decreto “mille proroghe” non avesse rinviato l’applicazione alle PA dell’articolo 2 del d.lgs 81/2015, si rientrerebbe facilmente in un’ipotesi di collaborazione che dissimula un rapporto di lavoro subordinato, consistenti, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, citato in “rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Possiamo, quindi, trovare conferma nell’osservazione proposta sopra: la disciplina “liberalizzata” del lavoro accessorio si ponga come alternativa piena alle collaborazioni, sollevando i committenti dai rischi connessi alla regolazione delle prestazioni come co.co.co.. Se, attualmente, questo alle PA non è utile, visto che potranno ancora per il 2017 utilizzare le “vecchie” co.co.co., ciò si può rivelare utilissimo nel lavoro privato, qualora la collaborazione prevista rimanga contenuta entro i tetti massimi di percezione dei compensi previsti dalla norma.
Ovviamente, poiché il tetto massimo comunque non potrebbe superare i 7.000 euro, la spinga verso il dumping dei compensi è molto forte. Teoricamente, un rapporto di collaborazione regolato con voucher, sulla base della rappresentazione erronea che il valore del voucher corrisponda al costo orario, può comportare una collaborazione continuativa tra committente e prestatore di ben 700 ore l’anno: quasi un part-ime al 50%.
Il progetto del comune di Torino non è lontanissimo da questi valori, perché, come visto sopra, prevede un limite annuo di 500 ore, poco meno di un terzo della prestazione lavorativa prevista dai contratti collettivi.
L’articolo 5 del bando del comune chiarisce: “Il prestatore sarà retribuito attraverso buoni lavoro (voucher) per un valore netto massimo di 3.750,00 euro per 500 ore di prestazione effettuata”. Poiché 500 ore moltiplicate per 7,5 euro netti a voucher dà, come risultato, 3.750 euro, si ha la riprova che il progetto considera la prestazione lavorativa del valore orario appunto di 7,5 euro, con la corrispondenza piena tra valore facciale del voucher e costo orario.
Osserviamo, ora, alcuni dei requisiti professionali richiesti dal bando in capo ai candidati:
– avere una buona conoscenza parlata e scritta della lingua italiana;
– avere una buona conoscenza parlata e scritta della lingua araba, ovvero della lingua cinese, ovvero di ambedue le lingue inglese e francese.
Date le prestazioni richieste e le competenze previste, le “mansioni” assegnate dal progetto possono facilmente farsi rientrare in quelle proprie della categoria B[3] dei dipendenti degli enti locali.
Rifacendosi ai parametri tabellari e contrattuali, se il comune di Torino assumesse i mediatori culturali inquadrandoli nella categoria che più pare adeguata, vista la necessità di conoscere le lingue e di relazionarsi col pubblico, cioè la categoria di ingresso nella posizione economica B3, il costo orario lordo sarebbe di circa 14 euro e quello netto di circa 10 euro. Di poco inferiori gli oneri, se l’inquadramento fosse nella posizione economica B1: lordo 13,25, netto 9,45.
L’effetto “dumping” è evidente. Se si applicassero i costi orari contrattuali, il tetto massimo netto sarebbe di euro 4.725 o di euro 5.000 a seconda del tipo di inquadramento.
C’è da chiedersi: l’utilizzo del lavoro accessorio, specie se riferito a prestazioni per le quali il datore richiede un impegno continuativo e dispone di un forte potere organizzativo sostanzialmente pari a quello del lavoro subordinato, giustifica non solo il mezzo, il lavoro accessorio, ma, soprattutto, una forte riduzione della retribuzione che spetterebbe se si utilizzasse il contratto di lavoro subordinato?
Poniamo attenzione ad un altro aspetto: il comma 7 dell’articolo 48 del d.lgs 81/2015 dispone, con indicazione pleonastica ma tutto sommato utile, che “Resta fermo quanto disposto dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001”. In particolare, poiché il lavoro accessorio è certamente una forma di lavoro flessibile, si applica il disposto iniziale del comma 2: “Per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”.
Nulla impedirebbe, allora, al comune di Torino di regolare le prestazioni richieste mediante contratto di lavoro subordinato a tempo determinato: infatti, l’esigenza cui fare fronte ha carattere sicuramente temporaneo, tale da giustificare l’impiego (nella PA il contratto a tempo determinato è rimasto “causale”, soggetto alle giustificazioni richieste proprio dall’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001).
Allora, essendo possibile per il comune attivare la prestazione mediante contratto a tempo determinato, che ben può essere previsto con un part-time di 4 ore al giorno, resta da comprendere il perché della scelta del lavoro accessorio.
Il bando del comune riserva lo svolgimento delle attività previste a chi rientri in una fascia ISEE (indicatore della situazione economica equivalente) non superiore a 25.000 euro, verificata attraverso attestazione ISEE in corso di validità. Sembra, dunque, che il comune abbia inteso utilizzare il progetto anche per avvicinare al lavoro persone con uno specifico svantaggio economico. Ma, se si fosse attivata un’assunzione a tempo determinato per la categoria B1, indubbiamente questo risultato sarebbe stato ottenuto, poiché vi sarebbe stato un avviamento da parte dei servizi per il lavoro, utilizzando il sistema dell’articolo 16 della legge 56/1987, la cui applicazione prevede anche il punteggio Isee.
In ogni caso, la “liberalizzazione” dell’istituto apportata dal 2012 in poi, fa sì che i voucher non rispondano più al fine inizialmente previsto di creare opportunità reddituali e di incremento della spendibilità nel mercato del lavoro per categorie particolarmente svantaggiate.
Il bando del comune crea, dunque, un mixage poco convincente tra politiche attive del lavoro a scopi sostanzialmente di sostegno al reddito, ed utilizzo di attività lavorative coordinate e continuative, che potrebbero benissimo essere regolate da contratti di lavoro subordinato.
Il tutto, col rischio di creare un “cattivo” precariato. Sia per l’effetto di dumping sul costo orario, sia perché in ogni caso per i lavoratori interessati non può crearsi alcuna prospettiva di trasformazione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato, dal momento che sempre l’articolo 36 del d.lgs 165/2001 vieta inderogabilmente che lavori flessibili nella PA possano convertirsi in lavoro a tempo indeterminato.
Progetti come quelli del comune di Torino, che sotto forme diverse si vanno diffondendo sempre più negli enti locali, rischiano di creare sacche progressivamente sempre più diffuse di “precariato” in un ambito, quello del lavoro pubblico, nel quale ciò è vietato in linea di principio. Torniamo all’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001: il penultimo periodo di tale norma dispone che “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato”. Come si nota, si enuncia un fine molto preciso: prevenire proprio il precariato, imponendo addirittura di costituire rapporti di lavoro a termine attingendo a graduatorie per rapporti di lavoro a tempo indeterminato, così da non far insorgere aspettative ingiustificate nei lavoratori.
Alla luce di questa norma, che ai sensi dell’articolo 48, comma 7, del d.lgs 81/2015, “resta ferma”, pare assai discutibile che possano attivarsi attività di lavoro accessorio per quasi un terzo dell’impiego orario nel comparto e per lo svolgimento di attività rientranti in profili e mansioni regolati dalla contrattazione collettiva: il tutto indirettamente, certamente involontariamente, conduce ad un aggiramento delle regole di contenimento del precariato.
Ma, se l’applicazione di una norma porta anche solo indirettamente alla vanificazione dei fini complessivi della disciplina ordinamentale della quale tale norma fa parte, è evidente che se ne sta dando un’attuazione fuorviante.
Proprio le previsioni dell’articolo 36 del d.lgs 165/2001, che restano ferme ed obbligatorie nella PA, dovrebbero lasciar propendere per un utilizzo dei voucher molto ristretto, molto più vicino a scopi e destinatari propri dell’originaria formulazione dell’articolo 70 del d.lgs 276/2003. Un impiego estremamente contenuto e per attività molto semplici e non continuative (con anche limitate esigenze di coordinamento) può anche essere connesso ad una politica attiva del lavoro, tale da far considerare il pagamento del voucher non come una vera e propria retribuzione sinallagmatica, bensì come intervento di sostegno al reddito.
Se, invece, si configura il voucher come determinazione del costo orario di una prestazione continuativa nel tempo, con forte integrazione nell’attività ordinaria degli uffici, determinazione di un orario di lavoro e penetrante coordinamento del datore, l’elusione delle regole appare evidente, come inevitabile è l’effetto di contenimento forzoso del costo del lavoro.
Proprio questi appaiono gli elementi di criticità del lavoro accessorio, che, come si nota, dipendono più dal modo col quale ad esso si fa ricorso, più che dalla norma che li regola.
Certo, se si tornasse all’originaria stesura della legge Biagi, magari aggiornata e rivista a distanza dei quasi 14 anni trascorsi, l’opera di razionalizzazione dell’utilizzo dei voucher e di contenimento del rischio di un loro improprio utilizzo risulterebbe più semplice.
Luigi Oliveri
[1] Il testo originario dell’articolo 71 del d.lgs 276/2003 stabiliva che potevano svolgere attività di lavoro accessorio:
a) disoccupati da oltre un anno;
b) casalinghe, studenti e pensionati;
c) disabili e soggetti in comunità di recupero;
d) lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.
Questo articolo era stato abrogato dall’articolo 22, comma 4, del d.l. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 133/2008.
[2] Nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, si prevedeva un limite non superiore a 240 ore annue, a seguito dell’articolo 48, comma 7, della legge 183/2010.
[3] Si riporta la descrizione del profilo e delle mansioni per i dipendenti ascritti alla categoria B dal Ccnl 31.3.1999:
CATEGORIA B
Appartengono a questa categoria i lavoratori che svolgono attività caratterizzate da :
* Buone conoscenze specialistiche (la base teorica di conoscenze è acquisibile con la scuola dell’obbligo generalmente accompagnato da corsi di formazione specialistici) ed un grado di esperienza discreto;
* Contenuto di tipo operativo con responsabilità di risultati parziali rispetto a più ampi processi produttivi/amministrativi;
* Discreta complessità dei problemi da affrontare e discreta ampiezza delle soluzioni possibili;
* Relazioni organizzative interne di tipo semplice anche tra più soggetti interagenti, relazioni esterne (con altre istituzioni) di tipo indiretto e formale.
* Relazioni con gli utenti di natura diretta.
Esemplificazione dei profili:
* lavoratore che nel campo amministrativo provvede alla redazione di atti e provvedimenti utilizzando il software grafico, fogli elettronici e sistemi di videoscrittura nonché alla spedizione di fax e telefax, alla gestione della posta in arrivo e in partenza. Collabora, inoltre, alla gestione degli archivi e degli schedari ed all’organizzazione di viaggi e riunioni.
* lavoratore che provvede alla esecuzione di operazioni tecnico manuali di tipo specialistico quali l’installazione, conduzione e riparazione di impianti complessi o che richiedono specifica abilitazione o patente. Coordina dal punto di vista operativo altro personale addetto all’impianto.
* lavoratore che esegue interventi di tipo risolutivo sull’intera gamma di apparecchiature degli impianti, effettuando in casi complessi diagnosi, impostazione e preparazione dei lavori.
Appartengono, ad esempio, alla categoria i seguenti profili: lavoratore addetto alla cucina, addetto all’archivio, operatori CED, conduttore di macchine complesse (scuolabus, macchine operatrici che richiedono specifiche abilitazioni o patenti), operaio professionale, operatore socio assistenziale.
Ai sensi dell’art. 3, comma 7, per i profili professionali che, secondo la disciplina del DPR 347/83 come integrato dal DPR 333/90, potevano essere ascritti alla V qualifica funzionale, il trattamento tabellare iniziale è fissato nella posizione economica B3.
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