tratto da unsognoitaliano.it

La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 5

Una riforma approvata da un Parlamento delegittimato

di Salvatore Sfrecola

 

  Per i fautori del SÌ la legge di revisione della Costituzione è stata approvata “con una larga maggioranza” peraltro non sufficiente ad evitare il referendum (non sarebbe stato necessario, ai sensi dell’art 138, comma 2, Cost. se la legge fosse stata “approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”). Per il Comitato del NO, e per quanti condividono questa posizione, è stata una “finta maggioranza”. Anzi, “una minoranza che, grazie alla sovrarappresentazione parlamentare (il premio di maggioranza, n.d.A.) fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza solo sulla carta, non può spingersi fino a cambiare, con un violento colpo di mano, i connotati della Costituzione”. Infatti la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014 (Presidente Silvestri, relatore Tesauro), che ha dichiarato illegittimo il Porcellum, la legge con la quale le attuali Camere sono state elette (e che ha assicurato il “premio”), pur non delegittimando il Parlamento, in ragione del “principio della continuità dello Stato” largamente contestato in sede scientifica, avrebbe tuttavia richiesto una limitata sopravvivenza di quelle Camere, giusto il tempo di varare una nuova legge elettorale per poi essere sciolte ed andare a nuove elezioni.

Una soluzione “diplomatica”, si direbbe, ma chiara. Le Camere non possono venir meno immediatamente ma hanno una limitata legittimazione. Possono solo occuparsi dell’emergenza. Invece sono ancora in carica, ad oltre due anni e mezzo dalla sentenza che si è pronunciata sul Porcellum. Tra l’altro il rinvio al principio di continuità dello Stato, criticatissimo come si è detto, è motivato in modo assai fragile, con riferimento a due articoli della Costituzione (gli artt. 61, comma 2, e 77, comma 2) che riguardano, rispettivamente, la proroga dei poteri delle Camere sciolte (ma regolarmente elette), in attesa della prima riunione delle “nuove”, e la convocazione delle Camere “anche se sciolte” ai fini della conversione dei decreti legge. È chiaro che si tratta di due situazioni giuridiche molto diverse. Non ci azzeccano, direbbe Di Pietro.

Questo Parlamento, dunque, legittimato a funzionare solo in ragione dell’emergenza, non poteva spingersi fino a cambiare la Costituzione. Il Comitato per il NO parla di “un violento colpo di mano di una minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza”.

Su questa realtà il Capo dello Stato avrebbe dovuto vigilare perché fosse rispettata la sentenza della Consulta. Invece il 22 aprile 2013, di fronte al Parlamento in seduta comune, il giorno del suo secondo insediamento, Napolitano ha sostenuto, come ricorda Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, fautore del SÌ, che la prosecuzione della legislatura si giustificava proprio in funzione di riforme necessarie e non più eludibili.

Senza dubbio una forzatura. Neppure particolarmente elegante.

Tra i fautori del SÌ c’è anche il Prof. Stefano Ceccanti, costituzionalista, il quale ritiene che “la legittimità è un argomento che non si può usare. O si è legittimi o non si è legittimi. O bisognava andare a votare subito e il Parlamento non poteva fare più niente. Oppure non era necessario andare a votare e il Parlamento può fare tutto. Come può votare la fiducia al governo ed eleggere il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali, così allo stesso modo il Parlamento può riformare la Costituzione. Dopodiché, se esiste un dubbio di rappresentatività, sarà sciolto dal voto referendario”.

Non è così. Le Camere dovevano essere sciolte. Avrebbe dovuto provvedere in tal senso il Presidente della Repubblica. Non l’ha fatto e questo non si risolve come dice il Prof. Ceccanti con il voto referendario. Perché quel voto non può legittimare ciò che legittimo non è, perché il referendum non costituisce verifica della legittimità del procedimento legislativo. In diritto la forma spesso è sostanza, soprattutto quando si tratta delle regole della democrazia rappresentativa e della legalità costituzionale. Ma non c’è modo di far fronte alla prepotenza. Né è immaginabile un intervento della Corte costituzionale.

È un problema di sensibilità politica. L’idea che un Parlamento, eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, possa non solo sopravvivere oltre un ragionevole lasso di tempo ma addirittura si metta a riformare la Costituzione sarebbe inimmaginabile in qualunque democrazia liberale.

Anzi, interpellato da Formiche, Ceccanti va al contrattacco e risponde alle critiche mosse sul Fatto Quotidiano dal Presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky che in 15 punti ha manifestato la propria contrarietà alla riforma. In uno di questi il Presidente aveva affermato come la riforma della Costituzione non debba garantire la governabilità bensì un governo. Precisando di ritenere che “governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione e dell’abulia”. Per Ceccanti quella di Zagrebelsky è una “opzione di tipo culturale” e sposta l’accento sull’esperienza delle democrazie europee di pari importanza, le quali, “seppur con regole diverse – hanno tutte sempre assicurato un governo di legislatura. Ciò invece in Italia non è accaduto. Basta pensare alla cancelliera tedesca Angela Merkel che nei vertici europei ha visto alternarsi Prodi, Berlusconi,Monti, Letta e Renzi. Mi pare difficile sostenere che in Italia non ci sia un problema di governabilità e che le soluzioni adottate con la riforma non lo riducano”.

Queste considerazioni rivelano un altro aspetto del dibattito, spesso evocato ma non inquadrato nei suoi esatti termini. La questione della governabilità è evidentemente rimessa ad una saggia legge elettorale non alla revisione delle istituzioni. L’Italia, infatti, con questa Costituzione, ha avuto governi di legislatura proprio in ragione di una legge elettorale, il cosiddetto Mattarellum, che aveva sperimentato collegi uninominali, sostituita da quella dichiara incostituzionale, approvata in fretta e furia sul crepuscolo della legislatura 2001-2006, quando la maggioranza di Centrodestra, comprendendo di avere scarse possibilità di tornare a vincere nelle elezioni del giugno 2006, aveva cercato di parare il colpo, “riuscendo” a perdere per soli 24 mila voti. Insomma, come è accaduto altre volte, una legge fatta a misura degli interessi di chi la propone. Ed, infatti, la modifica della legge elettorale è avvenuta ripetutamente negli ultimi trenta anni.

Sono riforme dal fiato corto, che rivelano la cura di interessi particolari, quelli del partito egemone o che pensa di diventarlo.

Questo, comunque, attesta della stretta connessione tra Costituzione e legge elettorale. Infatti la governabilità non è assicurata dalla riforma costituzionale ma dalla maggioranza conquistata in sede elettorale, maggioranza che, a sua volta, assicura al partito egemone la possibilità di eleggere in solitario il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali ed i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura. È evidente che c’è un pericolo per la democrazia.

In difficoltà nel difendere la decisione di Napolitano di far sopravvivere le Camere, Clementi afferma che questa riforma è comunque valida perché “migliorerà la qualità della democrazia” spiegando che ciò è possibile “perché affronta i principali problemi che da decenni vengono sottolineati da ogni partito o schieramento politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tempo che cambia”.

Una risposta apodittica che fa il paio con l’affermazione che, grazie a questa riforma “ci sarà un miglioramento della qualità della legislazione, tanto nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla decretazione d’urgenza ai referendumpropositivi e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro ordinamento”. Apodittica perché la qualità della legislazione è dato dalla professionalità del legislatore, come sanno bene coloro che, giudici, avvocati, funzionari pubblici, s’interrogano quotidianamente sul significato delle parole della legge per cercare di comprendere quale sia l’obiettivo che si è voluto perseguire, sovente senza riuscirci. Un impegno arduo, perché frustrato dalla oscurità dei testi, dalla loro inutile ridondanza, dal lessico approssimativo. Come nella legge di revisione che non pochi hanno osservato essere scritta in un italiano scadente e ricordato nell’occasione come Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei Settantacinque, che ha redatto la bozza di Costituzione, avesse incaricato Concetto Marchesi, famoso storico della letteratura latina, Costituente, di farsi coadiuvare da alcuni illustri linguisti per una revisione del testo, si direbbe, “risciacquandolo” nel Tevere, come Manzoni aveva risciacquato “i panni in Arno”, insoddisfatto della prima stesura de I promessi sposi. “La Costituzione – precisò Ruini – si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita”. Anche questa esigenza è connotato fondamentale della democrazia. L’aveva richiamata Piero Calamandrei in Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, lodando esempi di “equilibrio e di armonia stilistica”, riconosciuti proprio in un documento di Ruini. Un po’ come dello Statuto Albertino, del quale aveva sentito dire da un altro Costituente “guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo”

            4 agosto 2016

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