Inconferibilità di incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione – art. 3 d.lgs. n. 39/2013 – art. 35 bis d.lgs. n. 165/2001 – sentenza di condanna non definitiva per delitto tentato – reati di cui al capo I del titolo II del libro secondo del codice penale – sussistenza.
che la questione giuridica rappresentata attiene, pertanto, alla corretta interpretazione della disposizione in esame, in particolare alla valutazione della eventuale estensione dell’ambito di applicazione oggettivo della norma in esame alle condanne per reati tentati, oltre che per i reati consumati, laddove il testo della norma dispone che “A coloro che siano stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati del capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, non possono essere attribuiti […]”;
che questa Autorità ha avuto, in passato, occasione di esprimersi in materia ritenendo che “Il regime delle inconferibilità di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 39/2013 non può estendersi anche alle ipotesi dei reati commessi nella forma del tentativo rientrando nella discrezionalità del legislatore identificare ipotesi circoscritte relative ai soli reati consumati comportanti, quale conseguenza della violazione dei fondamentali obblighi di fedeltà del pubblico dipendente, l’impossibilità di conferire allo stesso dipendente un incarico dirigenziale, ovvero lo svolgimento di una funzione dirigenziale (Corte cost., 3 maggio 2012, n. 145)” (orientamento n. 68 del 9 settembre 2014);
che tale orientamento traeva forza, seppure in forma mediata, dalla disciplina in tema di incandidabilità e di sospensione delle cariche elettive contenuta nel d.lgs. 235/2012, recante “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”, laddove prevede espressamente che talune incandidabilità/sospensioni in esame siano conseguenti a condanne sia per delitti consumati che per delitti tentato;
che pur avendo dato conto nell’atto di segnalazione a Governo e Parlamento n. 4 del 10 giugno 2015 della contraddizione interna al sistema conseguente alla riportata interpretazione, l’Autorità riteneva in ogni caso che l’inconferibilità in questione presupponesse sempre una condanna penale per reato consumato.
che occorre, innanzitutto, premettere che la scelta di fondo del decreto in questione, in un’ottica di attuazione effettiva dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della P.A contenuti nell’art. 97 della Costituzione, è di intervenire sul piano della tutela della funzione amministrativa rispetto a condotte infedeli del funzionario pubblico, anche per tutelare l’immagine dell’amministrazione pubblica;
che dall’esame della ratio ispiratrice del testo normativo in esame non residuano margini di dubbio circa la natura giuridica dell’istituto dell’inconferibilità di cui al d.lgs. 39/2013;
che, con riferimento agli effetti della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 166 c.p. rispetto all’istituto in parola, il periodo di inconferibilità individuato dall’art. 3 d.lgs. 39/2013 non si configura come una misura sanzionatoria di natura penale o amministrativa, ma come strumento di prevenzione della corruzione e di garanzia dell’imparzialità dell’amministrazione (così, delibera Anac n. 1292 del 23 novembre 2016 consultabile sul sito istituzionale);
che lo scopo perseguito dalla disposizione è di «evitare che l’esercizio della funzione amministrativa avvenga per mano di soggetti che abbiano dimostrato la propria inidoneità alla spendita di poteri pubblici in conformità ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Tale linea interpretativa poggia sulla considerazione che l’inconferibilità, giacché preposta al soddisfacimento di particolari esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto condannato presta servizio, non costituisce sanzione o effetto penale della condanna, ma conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche nella Pubblica Amministrazione o per il loro mantenimento.» (così, parere n. 78 del 21 ottobre 2015, consultabile sul sito istituzionale);
che si tratta, quindi, di una condizione soggettiva in cui viene a trovarsi colui che è stato condannato, anche se con condanna non passata in giudicato, già riconosciuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità, senza che sia rimesso alcun margine di apprezzamento all’amministrazione, la quale non ha il potere di graduare la sanzione in relazione alla diversa gravità dei fatti;
che tale conclusione risulta avvalorata da quanto deciso dal Consiglio di Stato in ordine alle comunque analoghe misure di incandidabilità di cui al d.lgs. 235/2012 laddove ha escluso che tali misure abbiano natura di effetto penale o di sanzione accessoria alla condanna, riconoscendo alle stesse effetto di natura amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V, 6 febbraio 2013, n. 695);
che allo stesso modo, anche la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulle previsioni del d.lgs. 235/2012, ha escluso il carattere sanzionatorio delle misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione ritenendole solo conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate e quindi misure di natura cautelare (da ultimo sentenza Corte costituzionale n. 276/2016);
che, d’altro canto, se è vero che il codice penale laddove considera una fattispecie di reato, la intende nella sua forma consumata, essendo sempre necessario richiamare l’art. 56 c.p. nel caso di condotta che si sia arrestata allo stadio del tentativo, è altrettanto vero che il testo dell’art. 3 del d.lgs. 39/2013 non elenca i singoli reati la cui commissione è causa di inconferibilità, ma si limita a indicare genericamente un genus di reati, quelli contro la Pubblica Amministrazione, così ricomprendendo evidentemente tutte le fattispecie che rientrano in tale categoria;
che, quindi, il generale riferimento del testo della norma “alla condanna per uno dei reati previsti dal Capo I del titolo II del libro secondo del codice penale”, pur in assenza della specificazione in ordine a fattispecie consumata piuttosto che a quella tentata (come, invece, risulta dal testo degli artt. 7 e 10 del d.lgs. 235/2012), deve essere considerato comprensivo di entrambe le fattispecie di reato;
che, anche per quanto riguarda il bene giuridico tutelato, non si può in alcun modo distinguere le fattispecie consumate da quelle tentate, essendo in entrambe individuabile in quella della imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa;
che il delitto tentato, pur nascendo dall’incontro delle singole fattispecie di parte speciale con il disposto di cui all’art. 56 c.p. è a tutti gli effetti un delitto “perfetto” e non una sottofattispecie del delitto consumato, essendo in esso presenti tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, di qualsivoglia ipotesi di reato;
che se non si applicasse la previsione di cui all’art. 3 d.lgs. n. 39/2013 anche alle fattispecie di delitto tentato si verificherebbe una irrazionale contraddizione sistematica all’interno dell’ordinamento e un vuoto di tutela dell’imparzialità dell’azione della Pubblica Amministrazione;
che, a sostegno delle conclusioni raggiunte soccorre, anche l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in una materia analoga (e cioè quella della sospensione dal servizio dei dipendenti pubblici condannati, anche con sentenza non definitiva, per uno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1, della Legge 27 marzo 2001, n. 97) secondo cui fra i delitti elencati nella disposizione normativa (art. 3 cit) rientrano, senza che sia necessaria un’indicazione specifica, sia le fattispecie consumate che quelle tentate, (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza n. 1522/2014 del 9.4.2014; Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza n. 5811/2007 del 6.11.2007, Tar Lombardia – Sez. Brescia, ordinanza n. 1306/04 del 23. 7.2004).
che il canone interpretativo cui si intende aderire deve ritenersi applicabile anche alla diversa fattispecie di inconferibilità di cui all’art. 35 bis del d.lgs. 165/2001, attesa la chiara identità di ratio con quella di cui all’art. 3 del d.lgs n. 39 del 2013 (così da ultimo delibera n. 1292 del 23 novembre 2016, consultabile sul sito istituzionale)
•di ritenere applicabile il medesimo canone anche all’ipotesi di inconferibilità di cui all’art. 35 bis del d.lgs. 165/2001
•di ritenere, di conseguenza, superato l’orientamento n. 68 del 9 settembre 2014 deve intendersi superato con la presente decisione.
Il Segretario, Maria Esposito
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