tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
Illegittima la clausola del concorso che preveda l’esclusione dei candidati che abbiano indicato una PEC non di titolarità
di Marcello Lupoli – Dirigente P.A.
 
E’ illegittima la clausola di un bando di concorso pubblico che preveda l’esclusione dalla procedura selettiva a causa della mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’interessato, stante la sproporzionalità rispetto alla finalità di comunicazione cui l’indirizzo di posta elettronica certificata risulta preordinata, dovendosi fare applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale, della disposizione di cui all’art. 4D.P.R. n. 487/1994.
E’ questo, in estrema sintesi, il portato della sentenza 10 giugno 2020, n. 2285, resa dal TAR Campania, Napoli, Sez. V.
Il ricorso portato all’attenzione dei giudici amministrativi partenopei è finalizzato ad ottenere l’annullamento, previa sospensiva, della deliberazione con la quale l’amministrazione banditrice di una selezione pubblica (nella fattispecie concreta, un’azienda ospedaliera universitaria) aveva disposto l’esclusione dal concorso della parte ricorrente, nonché, in parte qua, del relativo bando laddove era previsto che i candidati dovessero, a pena di esclusione, indicare nella domanda di partecipazione un indirizzo PEC contenente il nome ed il cognome del candidato, con conseguente inammissibilità delle domande che recassero, quale indirizzo per le comunicazioni da parte dell’amministrazione, una PEC che fosse nella titolarità di altra persona, ancorché familiare e/o convivente.
L’esclusione dalla procedura concorsuale operata nei confronti della parte ricorrente per aver indicato nell’istanza di partecipazione alla selezione bandita, inoltrata telematicamente tramite il collegamento al portale dedicato, un indirizzo PEC non nella sua titolarità è censurata alla stregua del prospettato contrasto con la disposizione recata dall’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, da applicare anche all’indirizzo digitale.
Ed invero, la doglianza si fonda sulla considerazione che l’indicazione dell’indirizzo (fisico o digitale) al quale il candidato intende ricevere le comunicazioni concernenti il concorso è rimessa alla responsabilità di quest’ultimo, con conseguente esclusione di ogni addebito in capo all’amministrazione, mal comprendendosi, pertanto, il modus agendi sanzionatorio di quest’ultima consistito nell’esclusione di coloro i quali avessero eletto domicilio presso un indirizzo digitale di titolarità altrui.
A tanto la prospettazione del ricorrente aggiunge che – accertato il rispetto dei principi disciplinanti i pubblici concorsi attraverso la registrazione al portale telematico effettuata da ciascun candidato con upload sulla stessa piattaforma della domanda di partecipazione debitamente sottoscritta con firma autografa dell’interessato – l’ulteriore requisito del bando consistente nell’utilizzo di un indirizzo di posta elettronica certificata contenente il nome ed il cognome dell’interessato con la previsione che, in difetto, sarebbe stata disposta l’esclusione non sarebbe assistito da una finalità utilitaristica, rappresentando, per quanto sopra osservato, un “mero dato formale” inidoneo a produrre il previsto effetto sanzionatorio, ponendosi anche in contrasto con il favor partecipationis cui sono informate le procedure concorsuali pubbliche e non trovando applicazione, secondo l’assunto dell’interessato, il disposto recato dall’art. 65 del C.A.D. (in quanto il bando di concorso prevedeva che le domande di partecipazione, regolarmente sottoscritte, fossero presentate per via telematica non a mezzo PEC, ma – come dianzi evidenziato – per il tramite del portale dell’amministrazione resistente, formalità questa rispettata dalla parte interessata).
Un ulteriore profilo di censura viene individuato nella violazione della par condicio tra i candidati, allorquando l’amministrazione banditrice, rivisitando il proprio orientamento restrittivo, aveva consentito a coloro che avevano eletto domicilio digitale presso un indirizzo formulato in difformità rispetto ai criteri contemplati dal bando di produrre ex post la correlata certificazione di proprietà, con conseguente ammissione a proseguire nella procedura selettiva, senza operare una sanatoria generalizzata.
I giudici amministrativi campani, dopo aver già accolto con provvedimento interinale l’avanzata istanza di sospensione, ritengono anche nel merito ammissibile e fondato il ricorso interposto.
Ed invero – dopo aver chiarito, dal punto di vista rituale, che la “prescrizione del bando oggetto di impugnativa, sebbene prevista a pena di esclusione, ha […] spiegato la sua portata lesiva al momento dell’esclusione, in quanto non riferita ad un requisito da possedersi a pena di esclusione o ad una modalità onerosa di presentazione della domanda […], ma al contenuto della domanda di partecipazione, che è stato vagliato al momento della disposta esclusione”, con conseguente tempestiva impugnativa, “non potendo rispetto alla fattispecie de qua trovare applicazione il principio stabilito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 4/2018 e 3/2001, in ordine all’onere di immediata impugnativa delle prescrizioni dei bandi di gara (e di concorso) a carattere escludente” – il collegio partenopeo affida la parte motiva della pronuncia in disamina alle seguenti considerazioni per affermare come non sia necessaria l’indicazione nella domanda di concorso di un indirizzo PEC nella titolarità dell’interessato.
Ed infatti – osserva la pronuncia in disamina – “la previsione del bando di concorso, in forza del quale la resistente Amministrazione ha disposto l’esclusione della ricorrente dalla procedura concorsuale de qua, deve ritenersi illegittima, essendo la sanzione dell’esclusione prevista per la mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’istante illogica e sproporzionata rispetto alla finalità di comunicazione cui l’indicazione di un indirizzo PEC risulta preordinata, dovendosi fare applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale, della previsione dell’art. 4D.P.R. n. 487/1994 laddove dispone che “L’amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento dell’indirizzo indicato nella domanda…”, ricadendo pertanto, all’esito dell’elezione di un domicilio digitale da parte del concorrente presso un indirizzo PEC non nella sua titolarità, il rischio della mancata ricezione della comunicazione a carico del concorrente medesimo, con conseguente esonero di responsabilità da parte dell’Amministrazione”.
A tanto pervengono i giudici amministrativi napoletani rilevando come nella fattispecie concreta sub iudice la procedura concorsuale prevedesse l’invio della domanda di partecipazione “non via PEC, ma iscrivendosi al portale dell’Amministrazione ed inviando la domanda debitamente sottoscritta (da ciò la certezza della riferibilità della domanda alla parte), mentre l’indicazione dell’indirizzo PEC era richiesta solo ai fini delle comunicazioni da parte dell’Azienda Ospedaliera ai candidati e quindi nell’esclusivo interesse dei candidati medesimi (essendo l’Amministrazione esentata da ogni responsabilità una volta assolta la prova della spedizione della comunicazione alla PEC indicata dall’interessato nella domanda di partecipazione)”.
Orbene, la prospettazione di parte ricorrente viene ritenuta degna di accoglimento e, ad ulteriore supporto, la sentenza in parola rileva anche che “secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 65 del C.A.D. riferito alle istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica (e non dunque alle comunicazioni inviate dall’Amministrazione), l’utilizzo di una PEC nella titolarità dell’istante, e quindi senza dubbio a lui riconducibile, è in grado di supplire anche alla mancata sottoscrizione delle domande di concorso, essendo l’invio della PEC assimilabile all’apposizione della firma (sul punto la pronuncia fa rinvio alla sentenza del TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 18 gennaio 2018, n. 167).
Il riferimento suddetto, ancorché non direttamente applicabile alla fattispecie concreta scrutinata dai giudici amministrativi campani, consente a contrario agli stessi di evidenziare che “laddove […] la domanda di partecipazione al concorso venga inviata non tramite PEC dell’interessato, trova applicazione il disposto dell’art. art. 65, comma 1, lett. c), D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (C.A.D.) il quale dispone che, per essere valida, un’istanza presentata per via telematica alle PP.AA. e ai gestori dei servizi pubblici, se non proveniente dalla pec dell’interessato, deve essere non solo accompagnata da un documento di identità dell’interessato medesimo, ma anche da questi sottoscritta”.
Quindi – osservano i giudici amministrativi partenopei – è tale prescrizione che andava applicata nell’ipotesi de qua, non essendo stato contemplato per la partecipazione al concorso in argomento l’invio della domanda tramite PEC, bensì tramite il portale della stessa amministrazione banditrice della selezione.
Inoltre, in adesione al rilievo censorio della parte ricorrente, la più volte menzionata previsione del bando viene riconosciuta come lesiva anche del principio del favor partecipationis, al quale – insieme a quelli di semplificazione, di imparzialità in funzione della par condicio tra i candidati e di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa – le procedure concorsuali finalizzate all’assunzione ai pubblici impieghi devono uniformarsi, così superandosi inutili formalismi, che, in quanto tali, non rispondono ad alcuna logica sottesa.
Ergo, le chiare e dirimenti argomentazioni contenute nella parte motiva della sentenza in disamina appalesano l’illegittimità della censurata previsione del bando di concorso, con l’effetto non solo del suo annullamento in parte qua, ma anche del conseguente provvedimento di esclusione della parte ricorrente dalla selezione pubblica cui la stessa aveva presentato regolare domanda di partecipazione.

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