tratto da linkiesta.it

Strenna di Capodanno. Licenziamento per aumentare i profitti

 
1 Gennaio 2017 – 05:10

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BERLINO – Nel breve volgere dell’anno che si chiude e del nuovo che si apre, giunge la sentenza della Corte di Cassazione secondo la quale il datore di lavoro può licenziare un dipendente non solo in caso di difficoltà economiche, ma anche per determinare “un incremento della reddittività”. In altre parole: per cercare di aumentare i profitti.

Così nello scenario dell’economia globale l’Italia sempre più si adegua alle regole del flexible capitalism, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta – l’abbiamo imparato in fretta – per precarietà, in un mondo postindustriale dove da tre lustri a questa parte, non si parla più di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”.

Infatti, come evidenzia il quotidiano economico “Italia oggi”che per primo ha segnalato la notizia, con la sentenza (n. 25201 del 7 dicembre 2016) della Corte di Cassazione, ” viene a cadere un tabù che aveva resistito anni nel nostro ordinamento, ossia che la ricerca del profitto o della migliore redditività dell’impresa non potesse travalicare ovvero travolgere il posto di lavoro dei dipendenti, da tutelarsi sempre e a ogni costo di fronte alla ricerca «spasmodica» del profitto da parte delle aziende.” .

Non c’è risulato di referendum costuzionale che conti, e nemmeno il cambio di governo, bensì ancora una volta è la “crisi economica” il sipario dietro il quale si nasconde e opera la compagine di comando eletta dalla globalizzazione, che unisce le grandi multinazionali supportate dai dirigenti politici, dagli uomini d’affari e dai rappresentanti dei grandi media.

Insomma nonostante la vittoria del “no”, tutto procede come da programma, e non potrebbe essere diversamente. Per cancellare ogni dubbio, la sentenza della Cassazione fa pure leva sul principio di libertà imprenditoriale sancita appunto dall’articolo 41 della Costituzione, e – con un passaggio destinato a fare giurisprudenza – stabilisce che:

“Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo – si legge nel dispositivo – l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addottata dall’imprenditore”.

Cosìcché una sentenza – scioccante per le abitudini italiane – riconferma che i movimenti sindacali e del lavoro non rappresentino più un’alternativa generale credibile al potere delle multinazionali che generano la disoccupazione, la povertà, la sofferenza e la miseria di massa. Non a caso il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, indica Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore.

Perché, spiega Sloterdijk, «è stato Lee Kwan Yew a inventare il modello che si è rivelato di grande successo e che poeticamente potremmo chiamare capitalismo asiatico: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, poiché può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia».

La sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che esso non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo; anzi costoro sono accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire i propri interessi particolari

Anche perché il Paese che tentasse di ostacolare le galoppate finanziarie del capitalismo liberista verrebbe punito dal mercato attraverso la fuga dei capitali, la svalutazione della moneta e l’abbassamento del rating del credito. E’ già accaduto nella storia dei Paesi industrializzati, sicché la grande impresa – con il pretesto dei rincari del costo del petrolio e delle materie prime, degli assilli della competizione globale – è sempre meno disposta a contrattare e sempre più propensa a indicare i lavoratori e le loro rivendicazioni contrattuali tra le maggiori cause del disastro economico.

Il risultato è che l’interesse collettivo che dovrebbe essere il principio ispiratore delle politiche pubbliche non è evidenziato dai media, come pure l’obbligo del governo di rendere conto del proprio operato ai cittadini. Pertanto la sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che esso non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo; anzi costoro sono accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire i propri interessi particolari. Sicché la domanda sorge naturale: il fatto che al referendum del 4 dicembre abbia vinto il “no” è servito a qualcosa?

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