un commento di Luigi Oliveri tratto da phastidio.net
Nella PA i sogni digitali muoiono all’alba della Fase 2
di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
niente affascina cacicchi, assessori, funzionari quanto la frase “Dottò, se pijamo ‘n caffè pe’ parla’ de quaa pratica? Nun se po’ fa’ gnente pe’ accelerarla?“. È il “contatto diretto” con il geometra, il consulente, l’avvocato, l’intermediario, che dà l’inebriante senso del “potere”, di “contare” qualcosa.
La “pratica” va fatta comunque, nel rispetto dei principi costituzionali di buon andamento, imparzialità e servizio nell’esclusivo interesse della Nazione. Ma, sentirsi presi per il braccio ed importanti, per la possibilità di “accelerare”, è impagabile.
Purtroppo, non sono pochi i casi nei quali dal senso di appagamento per il “Dottò”, si può anche trascendere nel conflitto di interessi o nella vera e propria corruzione, per evitare i quali è stato apprestato un immenso apparato normativo. L’emergenza COVID-19 avrebbe indicato alla PA un antidoto molto importante nei confronti di questo modo peloso di intendere i rapporti con i cittadini: il lavoro agile.
Lo svolgimento delle attività amministrative da remoto ha certo un effetto di spersonalizzazione dell’attività. Ma, proprio per questo, ovviamente a condizione che gli enti dispongano di collegamenti di rete efficienti, di risorse nel cloud e di applicativi informatici utilizzabili da remoto ovunque, e soprattutto a condizione che si sviluppino piani di lavoro individuali capaci di indiare risultati operativi quantitativamente definiti, l’attività in remoto si presta ad essere maggiormente produttiva e meno “influenzabile” appunto dal “Dottò”.
E invece? Invece, Titolare, moltissime pubbliche amministrazioni non vedono l’ora di far partire anch’esse la “fase 2”, con tanti saluti al lavoro agile. Inviso a chi, incapace di piani di lavoro idonei a determinare risultati misurabili, pensa che l’attività lavorativa sia quel qualcosa di indefinito tra una timbratura in entrata ed una in uscita, purché comunque si sia “presenti in servizio”; e a chi ha proprio tanto bisogno di quegli ammiccamenti, di quelle “riunioni di lavoro”, di quel “volemose bbene, parlamo daa pratica mentre se famo du’ spaghi“.
Come dice, Titolare? C’è una “fase 2” per la PA, ovvero una norma che dal 4 maggio preveda l’abbandono del lavoro agile e la totale riapertura totale degli uffici? Per nulla. Il 29 aprile è stata pubblicata la legge 27/2020, di conversione del d.l. 18/2020, che conferma, all’articolo 87, che il lavoro agile è (deve essere, non si tratta di una facoltà) la forma ordinaria di lavoro nella PA; il 26 aprile, il Dpcm sulla “fase 2” (o 1,5) aveva già confermato che nel lavoro pubblico si deve restare in smart working.
Mal contati, i dipendenti pubblici che sono in questo momento impiegati in presenza, tra medici, infermieri, operatosi sociosanitari, addetti tecnici delle strutture ospedaliere, forze armate, forze dell’ordine, addetti alla protezione civile, polizia municipale, sono circa 700-800 mila.
In una situazione nella quale il distanziamento sociale resta ancora lo strumento principale di contrasto alla pandemia, evitare che gli altri circa 2,2-2,3 milioni di dipendenti pubblici (1 milione dei quali docenti e personale amministrativo delle scuole e delle università) si muovano, utilizzando mezzi pubblici (per i quali assicurare il distanziamento sociale appare impresa impossibile), e comunque incrementando possibilità di contatti indiretti, è ancora fondamentale.
Questo, tuttavia, per gran parte delle amministrazioni, soprattutto locali, non risulta evidentemente molto chiaro.
Ovunque si percepisce l’intento di “riaprire”, vagheggiando un’autonomia decisionale anche su questo campo, per la verità esclusa dalle norme che continuano ad imporre il lavoro agile.
Il fascino del “contatto diretto” col pubblico, e l’assenza dell’abitudine a conoscere e pianificare il lavoro fanno il resto. L’occasione per partire dall’obbligo di gestire le attività in lavoro agile per modificare finalmente in modo radicale l’organizzazione nella PA molto probabilmente andrà persa.
Eppure, Titolare, esistono norme che da molto tempo indicano modalità operative molto diverse, di per sé idonee a modelli di efficienza, meno connessi al darsi di gomito con l’utenza e finalizzati all’analisi delle procedure e al loro accesso da remoto. Basti pensare, per limitarsi ad un esempio solo, alle regole del Codice dell’Amministrazione Digitale (d.lgs 82/2005).
Da anni ed anni l’amministrazione pubblica deve raccogliere in un fascicolo informatico gli atti, i documenti e i dati del procedimento amministrativo, per consentirne l’accesso da remoto (articolo 41 del Cad); da anni ed anni si prevede che
[…] la riorganizzazione strutturale e gestionale delle pubbliche amministrazioni volta al perseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 12, comma 1, avviene anche attraverso il migliore e più esteso utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’àmbito di una coordinata strategia che garantisca il coerente sviluppo del processo di digitalizzazione” (articolo 15 del Cad);
Da anni ed anni
[…] la riorganizzazione strutturale e gestionale delle pubbliche amministrazioni volta al perseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 12, comma 1, avviene anche attraverso il migliore e più esteso utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’àmbito di una coordinata strategia che garantisca il coerente sviluppo del processo di digitalizzazione” (articolo 15, comma 2-bis del Cad);
Da anni ed anni le pubbliche amministrazioni debbono favorire
[…] l’uso da parte dei lavoratori di dispositivi elettronici personali o, se di proprietà dei predetti soggetti, personalizzabili, al fine di ottimizzare la prestazione lavorativa” (articolo 12 del Cad).
In più, l’apparato anticorruzione, in particolare l’articolo 9, comma 2, del dPR 62/2013, noto come Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, impone il tracciamento delle procedure amministrative, in modo da poter individuare chi materialmente abbia gestito le singole attività di cui si compongono, per individuare ritardi, ma, anche allo scopo di standardizzarne l’analisi metodologica ed operativa.
Il tutto, Titolare, richiede da sempre, dunque, quella riorganizzazione telematica che è sempre mancata: ragione per la quale si è mancato totalmente tra gli anni 2015 e 2018 l’obiettivo di estendere il lavoro agile almeno al 10% del personale pubblico, previsto dall’articolo 14 della legge 124/2015.
Per questa medesima ragione, le PA si sono trovate totalmente impreparate ad attivare all’improvviso lo smart working imposto dal d.l. 18/2020. E sempre per questa ragione, sebbene le regole previste dal d.l. 18/2020, convertito in legge 27/2020, non siano cambiate, le PA scalpitano per abbandonare il lavoro agile, tornare al tran tran della timbratura in entrata e in uscita, dell’ammiccamento e all’abbandono in un cassetto di ogni idea di riorganizzazione basata sulla digitalizzazione e l’efficienza.
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