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ANTONIO PURCARO (*) ed IMMACOLATA GRAVALLESE (**)

La riforma della dirigenza pubblica con particolare riguardo alla dirigenza locale: riflessioni a margine della legge delega 124/2015


Con la pubblicazione nella G.U. Serie Generale n. 187 del 13 agosto 2015 della legge 7 agosto 2015, n. 124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” si apre una nuova stagione di riforma per la pubblica amministrazione.

Non vi è chi [1] non abbia notato la coincidenza di date con la stagione di riforme avviata 25 anni fa con la pubblicazione della legge 7 agosto 1990 n. 241 foriera di significativi cambiamenti nella cultura e nella pratica della pubblica amministrazione.

La legge 124 è in larga parte una legge delega e come tale l’effettiva incidenza dell’opera riformatrice sull’ordinamento della pubblica amministrazione centrale e locale si potrà apprezzare solo con l’approvazione dei decreti delegati e la loro attuazione concreta.

Tra le deleghe contenute nella legge quella destinata sicuramente ad avere maggiore impatto sull’assetto organizzativo della pubblica amministrazione centrale e locale è quella contenuta nell’art.11 interamente dedicata a tracciare le linee guida per il nuovo ordinamento della dirigenza pubblica.

Ripercorrendo il percorso che ha condotto all’attuale assetto della dirigenza statale e locale il presente articolo si propone un primo commento delle disposizioni introdotte in materia dalla legge delega e un esame delle conseguenti ricadute con particolare riguardo alla pubblica amministrazione locale.

L’evoluzione legislativa in tema di dirigenza.

Nella classificazione tradizionale delle funzioni statali, che si fa risalire alla dottrina sulla separazione dei poteri del Montesquieu del XVIII secolo, l’amministrazione non nasce con una propria identità, ma è parte del potere esecutivo, all’interno del quale sono presenti due diversi tipi di attività, quella amministrativa e quella politica e di governo.

La criticità del rapporto governo-amministrazione risiede nell’apparente paradosso secondo cui “un’amministrazione imparziale è chiamata ad attuare indirizzi politici che sono per definizione parziali e possono essere, nel sistema maggioritario, fortemente di parte”.

In Assemblea costituente, Costantino Mortati rappresentò l’opportunità che la Carta prevedesse norme che assicurassero il ruolo autonomo della dirigenza in funzione della imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione stessa, nonché di un corretto rapporto con il potere politico, precisando come ai funzionari dovessero essere assicurate “alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici”, dal momento che “lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti”(Cfr. COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE, II SOTTOCOMMISSIONE ( I sez.), seduta del 14 gennaio 1947, in La Costituzione della repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Camera dei deputati- Segretariato Generale, vol. VIII, Roma, 1971, pag. 1863 ss.

A conclusione del dibattito, il testo definitivo della Carta costituzionale realizzava uno “statuto dell’amministrazione” abbastanza vicino alle idee manifestate dal Mortati: infatti per l’art. 97 Cost. i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo da assicurare l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione, mentre per l’art. 98 Cost. i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

E’ vero che la Carta non stabilisce espressamente il principio di separazione tra politica e amministrazione, ma l’idea di amministrazione che il costituente cerca di delineare è pur sempre quella di un apparato autonomo dalla politica e dotato di funzioni e responsabilità proprie.

Il quadro sopra delineato comporta quindi “la fine dell’apparato amministrativo come irresponsabile, non implicato nelle decisioni, interamente assorbito dal ministro”. Con la Costituzione, pertanto, si registra la nascita di un policentrismo, che consente di realizzare una struttura articolata degli stessi apparati centrali, configurabile mediante il trasferimento ad organi burocratici, retti da dirigenti ”direttamente responsabili ed in posizione di sufficiente dipendenza”.

Ai ministri, non più in posizione di superiorità gerarchica, viene riservato ciò che è “generale”, non ciò che è “particolare”, riconoscendo finalmente loro soltanto compiti di indirizzo, coordinamento e controllo.

Data fondamentale del nostro percorso di inquadramento storico dell’evoluzione del rapporto tra politica e amministrazione è sicuramente quella del 1972, quando con D.P.R. 30 giugno, n. 748, si procede all’istituzione della dirigenza statale nel chiaro tentativo di sottrarre l’alta burocrazia alla precedente piena dipendenza gerarchica dal ministro per farne invece un corpo di collaboratori del vertice politico dotato di competenze proprie ed autonome e di maggiori responsabilità.

Prima di questo momento la carriera dirigenziale non era distinta da quella direttiva e lo status di dirigenti, meglio dire degli impiegati direttivi del più alto grado, era disciplinato anch’esso dallo Statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.

Ritornando al D.P.R. 748/72 va precisato che la nuova normativa sulla dirigenza pubblica si sforza di “identificare al vertice dell’amministrazione un gruppo dirigente dotato di specifiche prerogative, conferendogli una relativa autonomia rispetto al vertice politico”, con l’attribuzione di una relazione gerarchica attenuata tra politica e amministrazione e l’attribuzione alla dirigenza di poteri propri.

Tuttavia la riforma del 1972 non porta i frutti sperati. Bisognerà attendere il decreto legislativo 29/2003, con la privatizzazione del pubblico impiego, per vedere affermato il principio della separazione tra indirizzo e gestione.

Il decreto legislativo in questione fissa negli artt. 3 e 14 “gli aspetti caratterizzanti della nuova dirigenza pubblica, muovendo proprio dal richiamato principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa, quest’ultima affidata ai dirigenti, che assumono così un’autonoma legittimazione e una diretta responsabilità per la gestione”.

Per la verità l’introduzione del principio della distinzione tra indirizzo e gestione era stato anticipato dalla legge 8 giugno 1990 n.142 che nel dettare la riforma dell’ordinamento delle autonomie locali aveva previsto all’art.51 l’attribuzione in capo ai dirigenti dei compiti di gestione.

La riforma del 1993 tuttavia non abbandonava del tutto il modello gerarchico-piramidale restando ad esempio in capo al ministro il potere di avocazione degli atti dirigenziali, il principio di separazione così enfaticamente introdotto veniva subito contraddetto.

Bisogna aspettare la stagione di riforma avviata con la legge delega 15 marzo 1997 n.59 e con la legge 15 maggio 1997 n.127 per vedere affermato tanto negli enti locali quanto nello stato il principio di separazione tra indirizzo e gestione.

Negli enti locali la competenza all’assunzione degli atti gestionali passa così dagli organi di governo alla dirigenza, viene introdotta la figura del direttore generale e profondamente riformata la figura del segretario comunale che diviene di nomina del capo dell’amministrazione locale.

Con il decreto legislativo 80/1998 si tenta di dare avvio ad un vero mercato della dirigenza statale con la previsione di un ruolo unico che superando le dotazioni organiche dei singoli ministeri ricomprenda tutti i dirigenti statali, ruolo dal quale le amministrazioni attingono per affidare gli incarichi dirigenziali.

Per realizzare ciò si opera una scissione tra rapporto di lavoro del dirigente che si instaura con la firma del contratto individuale a valle della procedura di concorso e che è a tempo indeterminato ed atto di conferimento dell’incarico che è invece a termine.

Con il medesimo decreto si estende il regime di diritto privato dal rapporto di lavoro anche ai direttori generali delle amministrazioni pubbliche, che erano stati esclusi dalla prima privatizzazione.

Con il decreto 80/1998 si accentua inoltre la distinzione tra indirizzo e gestione residuando al ministro il solo potere di annullamento straordinario degli atti dirigenziali e non più il potere di avocazione.

Ma la riforma realizzata con il decreto legislativo sopraindicato è importante perché introduce nel nostro ordinamento una sorta di meccanismo di spoils system in coincidenza con la formazione del nuovo governo. Detto sistema riguarda le figure apicali della dirigenza pubblica e prevede, inoltre, la temporaneità degli incarichi.

Del resto ferma restando la divisione dei ruoli fra organi di direzione politica e burocrazia, l’azione amministrativa procede in una visione dinamica nella stessa direzione e con le stesse cadenze dell’azione politica del governo, né può divergere da quest’ultima negli obiettivi, come non può raggiungere risultati confliggenti.

Da qui la necessità di un continuo e stretto raccordo funzionale, attraverso la puntuale definizione di nuove regole, al fine del perseguimento e della tutela dell’interesse pubblico comune.

In questo contesto generale si registra la necessità nel 2001 di predisporre un testo unico per raccogliere le norme che regolano i rapporti di lavoro relativamente al personale contrattualizzato dipendente dalle amministrazioni pubbliche. Il decreto legislativo 165, reca come titolo “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

Le vicende del rapporto tra politica e amministrazione segnano la storia di un rapporto difficile, complesso e contraddittorio.

Con la Legge 15 luglio 2002, n. 145, considerata a ragione in dottrina come un’autentica “controriforma” della dirigenza pubblica viene pressocchè riscritta la disciplina del c.d. governo dell’alta burocrazia, rafforzando ulteriormente e pericolosamente il rapporto tra il ministro e la dirigenza pubblica.

Sarà il provvidenziale intervento della Corte Costituzionale ha ristabilire i corretti rapporti tra organi di governo e dirigenza.

Con la legge 15 luglio 2002, n. 145 viene soppresso il ruolo unico della dirigenza statale, di fatto mai decollato, e vengono ricostituiti i ruoli dirigenziali in ciascun amministrazione ministeriale.

Il quadro di riferimento cerca di trovare un assestamento con il D.Lgs. 150/2009, attuativo della legge delega 15/2009, riforma finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e al miglioramento della efficienza e della trasparenza delle pubbliche amministrazioni. La filosofia di questa riforma risiede nella constatazione che senza una dirigenza competente e moderna saldamente allineata agli standard di efficienza dei paesi economicamente più avanzati il Paese non può crescere.

Il D.Lgs. 150/2009 annovera tra i suoi principi generali (art. 1, comma 2) l’intendimento di realizzare il “rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza”, ancorché il dirigente pubblico, quanto alle “determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro” agisce, ormai, da oltre quindici anni con la “capacità” e, soprattutto, i “poteri” del privato datore di lavoro.

L’evoluzione della dirigenza negli enti locali.

L’introduzione della dirigenza negli enti locali ha seguito un percorso più lento e tortuoso.

Con il decreto del Presidente della Repubblica 23 giugno 1972, n. 749 viene riformato l’ordinamento dei segretari comunali e provinciali, e viene attribuita la qualifica dirigenziale ai segretari in servizio nei comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti; il regolamento reca in allegato le tabelle A e B che disciplinano la classificazione dei comuni e delle province ai fini dell’assegnazione del segretario.

Le medesime tabelle sono di riferimento per gli enti locali ai fini dell’individuazione della qualifica apicale dei dipendenti degli enti medesimi, allora inquadrati in 10 qualifiche funzionali.

Con il DPR 347 del 1983 di “recepimento dell’accordo del 29 aprile 1983 per il personale dipendente dagli enti locali” al fine di introdurre la dirigenza anche negli enti locali vengono inquadrati nella nuova qualifica i dipendenti della 9 e 10 qualifica funzionale, la massima qualifica per gli enti rispettivamente di classe 1/b e di classe 1/a, i soli enti che fino alla abrogazione avvenuta con la legge 265/1999 potranno avere nella propria dotazione organica personale di qualifica dirigenziale.

Tuttavia essendo l’attività amministrativa prerogativa degli organi di governo, sindaco, giunta e consiglio, la dirigenza degli enti locali fino alla riforma del maggio 1997 ha stentato a vedere affermato un proprio ruolo.

La sottrazione di compiti dalla giunta a favore della dirigenza e l’individuazione di puntuali competenza in capo ai dirigenti a cui soli è oggi attribuita la responsabilità della gestione ha fatto emergere il ruolo del dirigente nell’ente locale, percorso favorito anche dall’introduzione di nuovi strumenti di programmazione per il governo locale quale il piano esecutivo di gestione, percorso che negli enti locali ha anticipato quanto avvenuto nelle amministrazioni centrali con la legge 150/2009.

L’introduzione della figura del direttore generale ha poi contribuito a segnare la distinzione tra l’apparato amministrativo e quello politico.

Se fino alla riforma operata con la legge 15 maggio 1997 n.127, e con legge 191/1998, la gestione era appannaggio esclusivo della giunta e del segretario, che lungi da svolgere un ruolo di mera assistenza giuridica, era il vero motore dell’attività amministrativa del comune, a seguito della riforma, il segretario venne chiamato a ritagliarsi un nuovo ruolo, affiancando a quello tradizionale di assistenza giuridico-amministrativa e notarile, il compito di coordinare, in alternativa al direttore generale, la dirigenza dell’ente, senza tuttavia assumere compiti di carattere gestionale rimessi questi ultimi interamente alla dirigenza.

Lo spoil system

Il tema della riforma della dirigenza, e quello della separazione e raccordo tra indirizzo e gestione, è stato caratterizzato dal dibattito intorno al momento genetico dell’incarico dirigenziale, al suo svolgimento ed alla possibile interruzione anticipata per mano del vertice politico (c.d. spoil system).

Il punto di massima espansione dell’invadenza politica nella vicenda della preposizione agli incarichi dirigenziali si è avuto con l’approvazione della legge 145/2002, il cui contenuto è stato poi in parte corretto dall’intervento censorio del giudice delle leggi, che in più pronunce ha ristabilito il corretto equilibrio tra aspirazioni della politica ha condizionare le nomina dirigenziali ed aspettative della classe burocratica ad una certa stabilità dell’incarico.

Nella sentenza n. 103 del 2007, la Corte costituzionale si occupa, per la prima volta, della disciplina che la l. n. 145 del 2002 (c.d. Legge Frattini) dettata con riguardo al rapporto fra politica e amministrazione.

La sentenza dà conto, in sostanza, del completamento graduale di un processo di privatizzazione che ha investito il rapporto di impiego di tutti i dirigenti, attraverso una serie di previsioni volte, in particolare, a:

  • definire i presupposti per l’accesso alla qualifica (in esito ad un concorso o, quando previsto, o ad un corso-concorso selettivo di formazione) e per la costituzione del rapporto di servizio prima (a seguito della stipula del contratto di lavoro) e del rapporto d’ufficio poi (per effetto dell’attribuzione dell’incarico a mezzo di provvedimento e di contratto ad esso accessivo);
  • accentuare il profilo di separazione tra il vertice politico e gli organi di direzione amministrativa.

Ha preso corpo, in tal modo, un sistema in cui il vertice politico si limita a stabilire obiettivi, programmi e priorità di azione, assegnando le risorse necessarie, ma non potendo in ogni caso riformare, revocare, riservarsi o avocare i poteri spettanti al dirigente, il quale vanta a sua volta una marcata autonomia di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, cui fa da contrappeso un significativo corredo di sanzioni per i risultati negativi del suo operato (c.d. responsabilità dirigenziale).

Nell’assetto definitivo, hanno trovato spazio la suddivisione in tre tipologie degli incarichi dirigenziali (di base, di direzione di strutture di livello generale, e apicali) e l’affermazione del principio di temporaneità degli incarichi stessi (ma in un quadro di garanzie che assicurino la «tendenziale continuità dell’azione amministrativa»), in una prospettiva in cui «il rapporto tra politica e amministrazione non è più ricostruibile pienamente in termini di gerarchia, bensì di coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due livelli».

Le modifiche introdotte dalla l. n. 145 riguardavano la cessazione automatica degli incarichi apicali decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo; assoggettamento a conferma, revoca, modifica o rinnovazione, entro sei mesi dal voto di fiducia, delle nomine di organi di vertice e consiglieri di amministrazione di società ed enti pubblici, conferite dall’esecutivo uscente nei sei mesi antecedenti la scadenza della legislatura) ed una “transitoria” (o una tantum), a sua volta diversamente modulata in funzione dei destinatari: gli incarichi di livello non generale possono essere ridistribuiti nel termine di novanta giorni dall’entrata in vigore della legge, decorso il quale si intendono confermati; gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale cessano, invece, automaticamente allo spirare del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della stessa l. n. 145.

Su quest’ultima previsione (spoil system transitorio per i soli dirigenti con funzioni di livello generale) verte il giudizio definito con declaratoria d’incostituzionalità dalla pronuncia in parola.

Secondo la Corte la ricerca della mediazione non può che essere rimessa alla discrezionalità del legislatore, senza però che ne esca irragionevolmente sacrificato l’uno o l’altro dei valori in campo:

  • la tutela delle attribuzioni e responsabilità dei dirigenti e della loro imparzialità e strumentalità agli interessi esclusivi della Nazione (artt. 97, commi 1 e 2, e 98, comma 1, Cost.);
  • l’attuazione del principio della responsabilità ministeriale, che – necessario a ricondurre la burocrazia al circuito democratico e, dunque, al potere di direzione e controllo delle istituzioni rappresentative espresse dal corpo elettorale – rende il ministro responsabile individualmente degli atti del suo dicastero (art. 95, comma 2).

In una tale cornice, in cui occorre neutralizzare il pericolo tanto di un eccesso di autonomia quanto di un eccesso di subordinazione politica del dirigente, emerge giocoforza che il rapporto fra gli organi di governo e l’amministrazione non può che essere «né di totale immedesimazione né di totale indipendenza», essendo la seconda separata sì dai primi ma al contempo agli stessi collegata in quanto tenuta ad attuarne l’indirizzo politico-amministrativo.

Lo stesso principio di imparzialità conforma, d’altro canto, il rapporto fra politica e amministrazione in termini di «autonomia strumentale», dal momento che, attesa la sua portata bivalente, «richiede che l’amministrazione persegua interessi che non siano di parte e, in egual modo, che l’amministrazione sia strumento fedele di realizzazione delle direttive politiche indicate dalle maggioranze politiche di volta in volta al governo».

Né la “stabilità” dell’incarico costituisce in linea di principio un vincolo per il legislatore (così si è espressa C. cost. n. 11 del 2002), anche se non può tradursi in “precarietà” del dirigente; come pure, è innegabile che la scelta discrezionale di investitura del dirigente, in quanto effettuata dall’organo politico, contenga di per sé una componente variabile di “fidelizzazione”, ma tuttavia deve essere sorretta da “criteri oggettivi” nel tentativo di contemperare fiduciarietà ed imparzialità.

La Corte non sembra avere nulla da obiettare alla norma che fa cessare gli incarichi apicali (segretari generali, capi dipartimento e altri equivalenti) decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al governo (art. 3, comma 8): gli incarichi, specifica, «di maggior coesione con gli organi politici».

Riassumendo, dalla risposta della Corte si ricava che al legislatore non è precluso di prevedere forme di cessazione del rapporto dirigenziale, legate all’avvicendamento della compagine governativa: solo che tale cessazione non può essere automatica, bensì preceduta da un momento di valutazione dell’attività del dirigente, condotta anche alla luce dei nuovi obiettivi politico-amministrativi prefissati dal governo entrante, e idonea a giustificare l’interruzione dell’incarico non ancora scaduto.

In ossequio, cioè, alle esigenze organizzative (flessibilità, efficienza e speditezza dell’azione di governo), la verifica dell’attitudine del soggetto ad attuare l’indirizzo programmato incontra opportunamente un duplice punto di emersione: una rilevanza non solo ex post (attraverso una valutazione della condotta pregressa del dirigente) ma anche ex ante (nelle forme di una delibazione preliminare di compatibilità, anche concernente i requisiti tecnici e la personalità del soggetto), al fine di evitare che il nuovo esecutivo resti sempre ed irrimediabilmente vincolato alle scelte di quello uscente, anche per gli incarichi aventi natura non prettamente esecutiva.

In definitiva, la sentenza n. 103 fornisce un interessante contributo chiarificatore al complesso tema dello spoil system, che richiede delle puntualizzazioni già sul piano terminologico: la locuzione, associata al modello originario, descrive infatti un fenomeno di interruzione del rapporto di impiego sulla base del parallelismo fra la durata dell’incarico politico e quella dell’incarico burocratico, mentre nel nostro ordinamento assume la più blanda valenza della messa a disposizione del dirigente.

In definitiva, la Corte costituzionale non ritiene di per sé illegittimo lo spoil system, purchè la legislazione che lo regola preveda al suo interno una serie di garanzie tali da salvaguardare il rispetto del principio di separazione tra politica e amministrazione, presidio, come si è detto, dell’imparzialità amministrativa. E queste garanzie vengono individuate dalla Corte essenzialmente nella presenza di un meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci mediante concorso indipendentemente da ogni considerazione per gli orientamenti politici dei concorrenti (principio di indipendenza soggettiva dei dirigenti dagli organi politici), nella necessità di garantire i dirigenti nella loro permanenza negli incarichi (principio di continuità dell’azione amministrativa), nella necessità di accompagnare la eventuale revoca anticipata dell’incarico con garanzie sostanziali e procedurali, volte ad accertare eventuali responsabilità.

Vi è in dottrina [2] chi è giunto ad affermare che la temporaneità dell’incarico dirigenziale, pur nella stabilità del rapporto di lavoro, potrebbe anche essere intesa quale attuazione in concreto del principio costituzionale del buon andamento.

I contenuti della legge delega

Dopo il tentativo fallito di istituire l’albo unico della dirigenza statale, istituito dal decreto legislativo 80/1998, disciplinato dal D.P.R. 150/1999, ed abrogato dalla legge 145/2002, il Parlamento, con l’approvazione della legge 124 ci riprova, e lo fa con un obiettivo più ambizioso quello di istituire il sistema dell’intera dirigenza pubblica, e cioè di creare un vero mercato della dirigenza.

L’art.11 della legge in commento contiene la delega al Governo, da esercitarsi entro dodici mesi, ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di dirigenza pubblica e di valutazione dei rendimenti dei pubblici uffici.

Detta delega a mente di quanto previsto dal primo comma dell’articolo in commento, potrà essere esercitata anche congiuntamente con la delega contenuta nell’art.17 e che riguarda il riordino complessivo della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

In buona sostanza da la stura per riscrivere per la terza volta un testo unico dell’ordinamento della amministrazione pubblica, dopo il decreto legislativo 29/2003 ed il successivo decreto legislativo 165/2001.

Il nuovo sistema della dirigenza pubblica, poggia sulla scissione, per tutti i dirigenti pubblici contrattualizzati, del rapporto organico dal rapporto di servizio.

In altri termini i dirigenti non saranno più dipendenti dell’amministrazione presso la quale prestano servizio, bensì saranno legati da un rapporto a tempo indeterminato con lo Stato e da un rapporto a tempo presso l’amministrazione presso la quale saranno chiamati a prestare servizio.

Il sistema previgente aveva previsto invece una scissione tra rapporto di lavoro con l’amministrazione di appartenenza ed incarico dirigenziale presso la stessa, nel senso che mentre il primo rapporto era a tempo indeterminato, il secondo, l’incarico, era a termine, potendo il dirigente essere chiamato a ricoprire, nell’amministrazione di appartenenza, incarichi differenti tra loro per prestigio, per remunerazioni e per oggetto.

In questo modo si contemperava l’esigenza di stabilità del rapporto di lavoro dirigenziale, con la necessaria flessibilità, avendo l’Amministrazione la possibilità di variare l’oggetto dell’incarico, durante l’intero arco della prestazione lavorativa.

Per i dirigenti di prima fascia l’incarico aveva una durata di tre anni, di cinque per i dirigenti di seconda fascia.

Inoltre i contratti collettivi della dirigenza avevano sancito un vero e proprio diritto all’incarico, tale per cui al dirigente andava comunque assicurato un incarico [3].

La riforma fa un deciso passo in avanti abolendo di fatto la dotazione organica dirigenziale di ciascuna singola amministrazione, facendo confluire tutti i dirigenti in un unico contenitore distinto dalle singole amministrazioni, le quali amministrazioni attingono dal medesimo contenitore, con incarichi a termine, per la provvista dei dirigenti.

Secondo il legislatore il recupero di efficienza della pubblica amministrazione, quale fattore di crescita e sviluppo e di competitività del Paese passa attraverso la creazione di un vero e proprio mercato della dirigenza pubblica.

La riforma non si limitata a riproporre il ruolo unico della dirigenza statale, ma va oltre, investendo anche la dirigenza regionale e locale, non senza prestare il fianco a possibili censure di incostituzionalità specie con riguardo alle Regioni.

In realtà il sistema della dirigenza pubblica prevede un’articolazione in tre distinti ruoli unificati e coordinati, accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento, basati sul principio del merito, dell’aggiornamento e della formazione continua, e caratterizzato dalla piena mobilità tra i ruoli.

L’articolazione in tre distinti ruoli ha carattere meramente organizzativo posta la necessaria comunicabilità tra gli stessi essendo l’obiettivo perseguito quella del mercato della dirigenza pubblica.

Il vincolo costituzionale del concorso pubblico per l’accesso agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni non consente un unico mercato della dirigenza, senza distinzioni tra pubblico e privato, tuttavia con il sistema ipotizzato se da un lato si fa salva la previsione costituzionale dell’accesso a mezzo concorso, dall’altra si introducono nel sistema elementi di competitività per assimilare la posizione del dirigente pubblico a quella del dirigente privato, caratterizzato dalla instabilità dell’incarico e dalla flessibilità di utilizzo, diversamente che dal personale dei livelli per i quali invece viene mantenuta la tendenziale inamovibilità.

Presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dovrà essere istituita una banca dati nella quale inserire il curriculum vitae, un profilo professionale e gli esiti delle valutazioni per ciascun dirigente.

Elementi utili per la scelta del dirigente da preporre a ciascun incarico.

Per l’accesso alla dirigenza sono previsti due distinti canali: il corso-concorso ed il concorso.

Il corso-concorso sarà il canale preferenziale per il reclutamento dei futuri dirigenti. Per l’accesso al concorso è richiesto il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale.

Tra l’altro il successivo art.17 prevede tra i criteri di revisione dei concorsi pubblici la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca.

Il concorso di accesso al corso dovrà essere indetto con cadenza annuale per ciascuno dei tre ruoli in cui si articola il sistema della dirigenza pubblica, per un numero fisso di posti, definito in relazione al fabbisogno minimo annuale.

Proprio per favore l’accesso ai ruoli dirigenziali dei migliori candidati viene esclusa la formazione di graduatorie di idonei nel concorso di accesso al corso-concorso.

I vincitori del corso-concorso saranno immessi in servizio come funzionari, con obblighi di formazione, per i primi tre anni, con possibile riduzione del suddetto periodo in relazione all’esperienza lavorativa eventualmente già maturata nel settore pubblico o a esperienze all’estero.

Al termine del periodo di formazione iniziale, tenuto conto della valutazione da parte dell’amministrazione presso la quale è stato attribuito l’incarico iniziale si ha l’immissione nel ruolo unico della dirigenza, che viene disposta dalle Commissioni di cui appresso.

Il corso-concorso potrà essere utilizzato anche per il reclutamento dei dirigenti delle carriere speciali, escluse dalla confluenza nel sistema della dirigenza pubblica, quale ad esempio la carriera prefettizia.

Sezioni speciali del corso-concorso dovranno essere previste per dirigenti tecnici.

Il sistema alternativo di accesso alla dirigenza di ruolo è quello più tradizionale del concorso tout court.

E’ sempre richiesto il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale

Anche il concorso sarò indetto con cadenza annuale per ciascuno dei tre ruoli in cui si articola il sistema della dirigenza pubblica, per un numero di posti variabile, e cioè per quelli non coperti dal corso-concorso che rimane il canale di accesso principale.

Il sistema della dirigenza pubblica presuppone quindi che per ciascun dei tre ruoli in cui essa si articola debba essere individuata a monte una dotazione organica al fine di corrispondere al fabbisogno di figure dirigenziali delle amministrazioni pubbliche, e che in relazioni a ciò, e tenuto conto delle cessazioni, venga stabilito il numero di dirigenti da reclutare in ciascun anno, distinguendo tra reclutamento con il sistema del concorso-concorso e reclutamento con concorso.

Il dirigente assunto con concorso sarò anch’esso sottoposto ad un ciclo di formazione iniziale, cui seguirà l’assunzione a tempo determinato e successiva assunzione a tempo indeterminato previo esame di conferma, dopo il primo triennio di servizio, da parte di un organismo indipendente.

In caso di mancato superamento dell’esame di conferma il rapporto di lavoro dirigenziale si intenderà risolto con la possibilità di eventuale inquadramento nella qualifica di funzionario presso la medesima amministrazione.

Fulcro del nuovo sistema, oltre al ruolo delle tre Commissioni, di cui diremo, è la Scuola nazionale dell’amministrazione.

Già con l’art.21 del D.L. 24 giugno 2014 n.90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n.114 il sistema della formazione della dirigenza pubblica ha assistito ad un generale riordino, con la soppressione di alcune scuole speciali e il rafforzamento della SNA.

Con la legge delega il Parlamento affida al Governo il compito di procedere alla revisione dell’ordinamento, della missione e dell’assetto organizzativo della Scuola nazionale dell’amministrazione con eventuale trasformazione della natura giuridica, con il coinvolgimento di istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio.

Alla Scuola è affidato il compito di assicurare l’omogeneità della qualità e dei contenuti formativi dei dirigenti dei diversi ruoli, con la possibilità di avvalersi, per le attività di reclutamento e di formazione, delle migliori istituzioni di formazione, selezionate con procedure trasparenti.

Con il decreto delegato, al fini di assicurare la formazione permanente dei dirigenti, saranno definiti gli obblighi formativi annuali e le modalità del relativo adempimento; i dirigenti di ruolo saranno coinvolti anch’essi nella formazione dei futuri dirigenti, avendo l’obbligo di prestare gratuitamente la propria opera intellettuale per le suddette attività di formazione.

Come accennato il sistema della dirigenza pubblica prevede un’articolazione in tre ruoli: il ruolo dei dirigenti statali, il ruolo dei dirigenti regionali ed il ruolo dei dirigenti locali.

Nel primo ruolo, quello dei dirigenti dello Stato confluiscono i dirigenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, appartenenti ai ruoli delle amministrazioni statali, degli enti pubblici non economici nazionali, delle università statali, degli enti pubblici di ricerca e delle agenzie governative istituite ai sensi del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300.

In pratica in detto ruolo vengono iscritti in fase di prima applicazione tutti i dirigenti contrattualizzati dipendenti dalle amministrazioni centrali.

Viene espressamente esclusa dalla confluenza nel ruolo del personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (magistrati, avvocati dello stato, carriera diplomatica e prefettizia)[4]. Del pari l’esclusione abbraccia anche la dirigenza scolastica, anche per la quale viene fatta salva la disciplina speciale in materia di reclutamento e inquadramento della stessa.

Nel ruolo unico confluisce invece la dirigenza di ruolo delle autorità indipendenti.

Novità significativa per la dirigenza statale è l’eliminazione della distinzione in due fasce: i dirigenti statali d’ora in poi si distingueranno solo per funzione ma avranno il medesimo inquadramento.

Mentre la dirigenza regionale e locale era ormai da tempo inquadrata in un’unica qualifica, distinguendosi i dirigenti solo per funzioni, la dirigenza statale conservava ancora l’articolazione in due distinte qualifiche: dirigenti generali, c.d. dirigenti di prima fascia, e dirigenti di seconda fascia; il passaggio tra la seconda e la prima fascia poteva avvenire o per concorso ovvero dopo avere il dirigente di seconda fascia ricoperto incarichi dirigenziali generali per almeno cinque anni.

Ora la distinzione viene meno e tutti i dirigenti statali condivideranno il medesimo status professionale.

Nell’ambito del ruolo è poi previsto che vengano istituite sezioni per le professionalità speciali.

E’ facile prevedere che dette sezioni siano destinate ad ospitare i dirigenti tecnici per il quali tra l’altro la stessa legge prevede sezioni speciali del corso-concorso di accesso.

Il compito centrale per il governo del sistema della dirigenza pubblica e per la gestione dei ruoli è affidato alle tre Commissioni [5].

Presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, è istituita una Commissione per la dirigenza statale.

I componenti di detta Commissione che dovrà operare con piena autonomia di valutazione, dovranno essere selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi.

Il legislatore demanda al decreto delegato l’individuazione del soggetto che effettuerà la nomina.

Le procedure di selezioni dovranno essere trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali.

La Commissione non sarà dunque rinnovata per interno ma in modo parziale così da assicurare una certa continuità.

Rilevanti le funzioni della Commissione, tra le quali:

– la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali,

– la preselezione di un numero predeterminato di candidati per gli incarichi di vertice,

– la verifica del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi,

– l’attribuzione delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relative ai dirigenti statali [6].

L’istituzione del ruolo dei dirigenti delle Regioni, dovrà essere preceduta dalla previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ciò a salvaguardia delle prerogative costituzioni delle stesse Regioni.

In detto ruolo confluiscono in sede di prima applicazione i dirigenti di ruolo nelle regioni, negli enti pubblici non economici regionali e nelle agenzie regionali, nonché la dirigenza delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e la dirigenza amministrativa, professionale e tecnica del Servizio sanitario nazionale.

Resta esclusa la dirigenza medica, veterinaria e sanitaria del Servizio sanitario nazionale per le quali sono fatte salve le vigenti regole.

Anche per la gestione del ruolo dei dirigenti delle regioni viene prevista l’istituzione di una Commissione per la dirigenza regionale, sulla base dei medesimi criteri dettati per la Commissione della dirigenza statale.

Pur non essendo ciò espressamente previsto anche per il ruolo della dirigenza regionale, così come per la dirigenza locale, potranno essere istituite sezioni per le professionalità speciali di tipo tecnico.

Medesime ragioni di rispetto per la garanzia di autonomia costituzionalmente garantita agli enti locali hanno suggerito al Legislatore di richiedere la previa intesa in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali, per l’istituzione del ruolo dei dirigenti degli enti locali nel quale in sede di prima applicazione, è prevista la confluenza dei dirigenti di ruolo negli enti locali nonché l’inserimento di coloro che, alla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega, risultino iscritti all’albo nazionale dei segretari comunali e provinciali di cui all’articolo 98 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nelle fasce professionali A e B, albo che viene soppresso.

Con riguardo ai segretari, il decreto delegato dovrà recare una specifica disciplina per coloro che sono iscritti nelle predette fasce professionali e sono privi di incarico alla data di entrata in vigore del decreto nonché una specifica disciplina che contempli la confluenza nel suddetto ruolo unico dopo due anni di esercizio effettivo, anche come funzionario, di funzioni segretariali o equivalenti per coloro che sono iscritti al predetto albo, nella fascia professionale C, e per i vincitori di procedure concorsuali di ammissione al corso di accesso in carriera già avviate alla data di entrata in vigore della legge in commento.

Nel corso dell’esame in sede referente è stato, infine, specificato che per il Trentino-Alto Adige resta ferma la particolare disciplina prevista per i segretari comunali dalla relativa normativa, in conformità con lo statuto, e alle disposizioni sull’uso della lingua tedesca nei rapporti con la pubblica amministrazione. Nulla viene invece detto con riferimento alla Valle d’Aosta, regione anch’essa a statuto speciale che si è già dotata di una propria legislazione in tema di segretari comunali e di dirigenza regionale e locale.

Anche per la gestione del ruolo dei dirigenti locali è prevista una Commissione per la dirigenza locale, sulla base dei medesimi criteri stabiliti per le altre due commissioni.

La distinzione del sistema della dirigenza nei tre ruoli ha natura meramente organizzativa poiché la stessa legge prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche di conferire gli incarichi ai dirigenti appartenenti a ciascuno dei tre ruoli senza distinzioni.

Anzi è proprio l’idea che presiede la riforma quella di formare un nuovo dirigente pubblico caratterizzato da una comune formazione e senso di appetenza, portatore di una visione generalista e capace di operare in contesti anche differenti tra loro, laddove la maturazione di esperienze in amministrazioni differenti è di arricchimento per lo stesso dirigente e per le amministrazioni.

La temporaneità dell’incarico, a fronte della stabilità del rapporto, l’avvicendamento dei dirigenti, la mobilità dei dirigenti tra le amministrazioni dei tre distinti ruoli, è la chiave per realizzare quel mercato della dirigenza di cui da tanti anni si dibatte.

Per ciascun incarico dirigenziale, ciascun delle Commissioni dovrà preventivamente stabilire requisiti e criteri generali, sulla scorta dei quali ciascun amministrazione a sua volta dovrà stabilire i requisiti necessari in termini di competenze ed esperienze professionali, per ricoprire i diversi incarichi, tenendo conto della complessità, delle responsabilità organizzative e delle risorse umane e strumentali che costituiranno l’oggetto dell’incarico dirigenziale.

La definizione dei requisiti e criteri per il conferimento degli incarichi dovrà avvenire entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto delegato.

Il sistema prevede per il suo funzionamento che ciascuna singola amministrazione debba provvedere, con congruo anticipo alla pubblicizzazione dei posti dirigenziali che si renderanno vacanti, attraverso la pubblicazione sulla banca dati tenuta presso il Dipartimento della Funzione Pubblica.

Il conferimento dell’incarico avverrà mediante procedura comparativa tra coloro che avranno risposto all’avviso pubblico presentando la propria candidatura.

L’incarico verrà conferito sulla base della rilevanza delle attitudini e delle competenze del singolo dirigente, dei precedenti incarichi e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti all’incarico da conferire.

La legge delega non interviene sul soggetto competente al conferimento dell’incarico, nomina che, per le amministrazioni statali, avviene oggi con DPR per gli incarichi di vertice, con DPCM, su proposta del ministro competente, per gli incarichi dirigenziali generali e con provvedimento del dirigente generale per gli altri incarichi.

Per gli incarichi relativi ad uffici di vertice e per gli incarichi corrispondenti ad uffici di livello dirigenziale generale la norma prevede che la Commissione provveda ad una preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti, da sottoporre poi alla successiva scelta da parte del soggetto nominante.

Per tutti gli altri incarichi dirigenziali la Commissione è chiamata ad una verifica successiva del rispetto dei requisiti e criteri predeterminati.

L’assegnazione degli incarichi precisa la norma dovrà avvenire secondo criteri che tengano conto della diversità delle esperienze maturate, anche in amministrazioni differenti. E’ quindi introdotto un favor per il dirigente che nel proprio curriculum potrà vantare esperienze maturate in diverse amministrazioni, anche di comparti diversi, in coerenza con l’idea di fondo che vede nella rotazione dei dirigenti un elemento di crescita del sistema della dirigenza pubblica.

Il conferimento degli incarichi dovrà avvenire nel rispetto del principio dell’equilibrio di genere.

La durata degli incarichi dirigenziali viene fissata in quattro anni. Oltre tale termine il dirigente potrà permanere nella funzione, tuttavia il rinnovo dell’incarico deve necessariamente passare attraverso la partecipazione ad una nuova procedura di avviso pubblico; è tuttavia prevista la facoltà di rinnovo degli incarichi per ulteriori due anni senza procedura selettiva per una sola volta, purché motivato e nei soli casi nei quali il dirigente abbia ottenuto una valutazione positiva.

E’inoltre prevista la possibilità di proroga dell’incarico dirigenziale in essere, per il periodo strettamente necessario al completamento delle procedure per il conferimento del nuovo incarico.

Nel silenzio della norma deve ritenersi che la riforma non faccia venir meno quanto stabilito dalla legislazione vigente per gli incarichi di vertice circa la decadenza dell’incarico decorsi 90 gg. dall’insediamento di un nuovo esecutivo.

Il termine del contratto è stato individuato in quattro anni, un termine intermedio rispetto ai tre anni, l’attuale durata degli incarichi dirigenziali generali, ed ai cinque anni di durata degli altri incarichi. Il termine di quattro anni appare coerente con l’indirizzo giurisprudenziale che muovendo dall’esigenza, in un sistema di temporaneità degli incarichi, di assicurare comunque la continuità dell’azione amministrativa, aveva censurato incarichi di breve durata che tra l’altro sottraevano il dirigente ad una seria valutazione del proprio operato.

La durata quadriennale dell’incarico non significa inamovibilità del dirigente per detto periodo.

Con il decreto delegato andranno infatti definiti i presupposti oggettivi che danno luogo alla revoca anticipata, anche in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi, ed andrà disciplinata la relativa procedura.

L’incarico può essere anticipatamente interrotto oltre che nel caso di revoca anche in caso di riorganizzazione dell’amministrazione. In tali è richiesto il parere obbligatorio e non vincolante della competente Commissioni sulla decadenza dall’incarico.

In settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione, la condanna anche non definitiva, da parte della Corte dei conti, al risarcimento del danno erariale per condotte dolose, potrà dal luogo alla revoca dell’incarico ed al divieto di rinnovo.

Date le regole per il funzionamento del sistema si potrà verificare il caso di dirigenti privi di incarico, perché revocati, perché decaduti, o più semplicemente perché dopo avere terminato il quadriennio di servizio presso una data amministrazione sono alla ricerca di un nuovo incarico.

Ai dirigenti privi di incarico, collocati in posizione di disponibilità, viene prevista l’erogazione del trattamento economico fondamentale.

Anche se sul punto il decreto nulla dice dovranno essere stabilite le forme e modalità di contribuzione degli enti, che attingeranno dai ruoli per la provvista dei propri dirigente, misure atte ad assicurare il finanziamento dell’intero sistema tra cui la provvista necessaria per remunerare i dirigenti privi di incarico.

Solo il collocamento in disponibilità successivo a valutazione negativa, e il decorso di un determinato periodo senza assumere un nuovo incarico dirigenziale, determinerà la cancellazione dal ruolo.

I dirigenti in posizione di disponibilità avranno poi diritto all’aspettativa senza assegni per assumere incarichi in altre amministrazioni ovvero nelle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, o per svolgere attività lavorativa nel settore privato, con sospensione del periodo di disponibilità.

I medesimi potranno essere destinati allo svolgimento di attività di supporto presso amministrazioni pubbliche o presso enti senza scopo di lucro, senza conferimento di incarichi dirigenziali e senza retribuzioni aggiuntive.

Infine i dirigenti collocati in disponibilità, potranno, in deroga all’articolo 2103 del codice civile, formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario nei ruoli delle pubbliche amministrazioni.

La relativa brevità degli incarichi e la necessità di sottoporsi a periodiche valutazioni comparative durante tutto il percorso di carriera spinge il dirigente verso un costante percorso di crescita, di arricchimento culturale, di formazione continua e di successi professionali. La valutazione dei risultati assume un particolare rilievo in considerazione dei suoi esiti per il conferimento dei successivi incarichi dirigenziali; il percorso di carriera sarà dunque in funzione degli esiti della valutazione.

Le valutazioni riportate in ciascun anno andranno ad alimentare la banca dati dalla quale le amministrazioni attingeranno le informazioni necessarie per la scelta del soggetto cui conferire l’incarico.

E’ qui evidente come il sistema dovrà tendere ad una omogeneizzazione dei criteri e dei sistemi di valutazione, posto che la valutazione è rimessa agli Organismi Indipendenti di Valutazione istituiti presso ciascuna amministrazione.

La delicatezza della questione non è sfuggita al Legislatore che all’art.17, tra i criteri di delega, individua espressamente tra i nuovi compiti dell’ARAN funzioni di supporto tecnico alle amministrazioni circa la misurazione e valutazione della performance.

L’istituzione del sistema della dirigenza pubblica presuppone l’omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio nell’ambito di ciascun ruolo unico.

E’ facile intuire che a valle della riforma andrà anche rivista l’attuazione distinzione della dirigenza in diverse aree di contrattazione.

Già la riforma introdotta dal decreto legislativo n.150/2009 demandava ad appositi accordi tra l’ARAN e le Confederazioni rappresentative, il compito di riordinare la materia e di definire fino a un massimo di quattro comparti di contrattazione collettiva nazionale, cui sarebbero dovuti corrispondere non più di quattro separate aree per la dirigenza, rispetto alle otto attuali[7]; previsione rimasta inattuata a causa del blocco della contrattazione collettiva imposto dalle leggi di stabilità quale misura di contenimento della spesa pubblica.

La sentenza 178 della Corte costituzionale, depositata il 23 luglio 2015, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime di sospensione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego è destinata a riaprire la stagione contrattuale anche per la dirigenza, che potrebbe, in coerenza con lo spirito della riforma, costituire un’unica area di contrattazione.

La struttura retributiva continuerà, secondo le indicazioni contenute nella legge delega, ad essere costituita da trattamento economico fondamentale, retribuzione di posizione da stabilirsi in relazione a criteri oggettivi in riferimento all’incarico, e retribuzione di risultato con riguardo alla quale andrà definita l’incidenza in relazione al tipo di incarico ed il suo collegamento sia a obiettivi fissati per l’intera amministrazione, sia a obiettivi assegnati al singolo dirigente.

Spetterà al decreto delegato definire i limiti assoluti del trattamento economico complessivo dei dirigenti da stabilirsi in base a criteri oggettivi correlati alla tipologia dell’incarico e limiti percentuali relativi alle retribuzioni di posizione e di risultato rispetto al totale.

Degna di nota la facoltà riconosciuta a ciascun dirigente di attribuire un premio monetario annuale a non più di un decimo dei dirigenti suoi subordinati e a non più di un decimo dei suoi dipendenti.

La riforma della dirigenza pubblica con l’istituzione del nuovo sistema non fa venir meno la dirigenza c.d. “a contratto”.

La legge 124 fa salva la possibilità di assegnare incarichi dirigenziali a soggetti non iscritti a nessuno dei tre ruoli, purchè secondo procedure selettive e comparative, e fermi restando i limiti percentuali previsti dall’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165[8], con conseguente eventuale revisione delle analoghe discipline e delle relative percentuali, definite in modo sostenibile per le amministrazioni non statali.

Il legislatore ha ritenuto che il mantenimento, seppure in percentuali limitati, della facoltà di reclutare dirigenti della pubblica amministrazione, all’esterno della stessa, soddisfacesse l’esigenza di reperire risorse non presenti nel bacino della dirigenza di ruolo, mantenere un collegamento tra dirigenza pubblica e privata, ed essere di ulteriore sprone alla dirigenza pubblica nella costruzione del mercato della dirigenza.

La riforma della dirigenza riguarda anche il riordino delle disposizioni legislative relative alle ipotesi di responsabilità dirigenziale, amministrativo-contabile e disciplinare dei dirigenti e la ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l’attività gestionale, con limitazione della responsabilità dirigenziale alle ipotesi di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e la limitazione della responsabilità disciplinare ai comportamenti effettivamente imputabili ai dirigenti stessi.

In chiusura il legislatore si preoccupa di dettare la disciplina transitoria per rendere graduale il passaggio al nuovo sistema stabilendo la confluenza dei dirigenti nel ruolo unico con proseguimento fino a scadenza degli incarichi conferiti e senza variazione in aumento del trattamento economico individuale. Ai fini delle prime assegnazioni degli incarichi le amministrazioni dovranno prevedere obbligatoriamente un numero minimo di anni di servizio, in modo da salvaguardare l’esperienza acquisita.

La riforma negli enti locali

La riforma recata dalla legge 125 interviene in modo significativo sul modello organizzativo degli enti locali.

L’art.11 mentre da un lato prevede il mantenimento della figura del direttore generale di cui all’articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e cioè per le sole province ed i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, dall’altro sancisce l’abolizione della figura del segretario comunale e provinciale.

La figura del segretario comunale e provinciale la cui istituzione risale alla Legge di unificazione n.2248 del 1865 ha da sempre caratterizzato l’organizzazione degli enti locali.

Passato attraverso alterne vicende il segretario è sempre stata figura cardine per il funzionamento degli enti locali.

Tuttavia il rapporto tra segretario ed ente locale è sempre stato piuttosto travagliato: nella prima legge comunale e provinciale del 1865 la nomina di tale figura era stata rimessa al Consiglio; con il R.D.L. n. 1953/1928 e con la Legge n. 604/1962 il segretario divenne un dipendente statale – nominato dal Prefetto, che attingeva ai ruoli provinciali per gli enti minori, o dal Ministro dell’Interno, che attingeva ai ruoli nazionali per i comuni più grandi e per le province – chiamato a svolgere (almeno così si riteneva) per conto dello Stato centrale, un ruolo di controllore della legalità e legittimità dell’operato delle autonomie locali.

L’ambiguità di ruolo è stata riproposta negli anni successivi fino alla Legge 8 giugno 1990, n. 142, legge di riforma delle autonomie locali, che aveva previsto per il segretario la qualifica di funzionario statale e la dipendenza funzionale dal sindaco. L’art. 52 della Legge 8 giugno 1990, n. 142 attribuiva al segretario la sovrintendenza delle funzioni dei dirigenti, il coordinamento del loro operato, la partecipazione alle riunioni di Giunta e di Consiglio ed infine l’espressione del parere di legittimità. Il segretario conseguiva un ruolo di vertice dell’organizzazione amministrativa e di garante della legittimità in un sistema nel quale lo Stato controllava gli enti locali.

A seguito del progressivo affermarsi dell’autonomia degli enti locali e della volontà di questi di smarcarsi sempre più dai condizionamenti statali, nel 1996 fu presentata una richiesta di referendum per la soppressione della figura stessa del segretario, divenuto nell’immaginario collettivo, l’emblema dello Stato centrale controllore. Il referendum non fu celebrato ma la sua stessa proposizione segnò un reale punto di rottura tanto che, dalla legge finanziaria per il 1996, prese avvio un nuovo orientamento politico nei confronti dei segretari coronato poi, con la Legge 15 maggio 1997, n. 127, nella disciplina del nuovo ordinamento di tale figura.

L’art. 1, comma 84, della Legge n. 549/1995 – legge finanziaria per il 1996 – attribuì al sindaco e al presidente della provincia il potere di esprime l’intesa sulla nomina e la revoca dei segretari, lo fece però con una norma così poco chiara da essere ritenuta non applicabile per espresso parere del Consiglio di Stato.

L’esigenza di un rapporto fiduciario tra sindaco e segretario – già contenuta in parte nella finanziaria del 1996 – fu ripresa anche dal disegno di legge che poi portò alla Legge 15 maggio 1997, n. 127. In essa il concetto dell’intesa del sindaco sulla nomina e revoca fu trasformato in una specifica competenza dell’organo politico di vertice.

Ma la Legge 15 maggio 1997, n. 127 ha anche modificato, rispetto alla L. 8 giugno 1990, n. 142, le funzioni del segretario prevedendo la possibilità di affidare all’eventuale figura del direttore generale la supervisione sulle funzioni dei dirigenti ed il coordinamento della loro attività, ai fini della predisposizione del piano degli obiettivi e dell’attività dell’ente.

La nuova disciplina dei segretari comunali e provinciali venne poi trasfusa nel decreto legislativo 18 agosto 2000 n.267.

La nuova configurazione delle funzioni del segretario e la riduzione dell’attività di controllo da parte del CO.RE.CO. – realizzata sempre con la L. n. 127/1997 – hanno contribuito a modificare il rapporto tra enti locali e Stato connotandolo in senso maggiormente paritario. Tale processo è poi giunto ad una svolta con la Riforma costituzionale del titolo V, realizzata della L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 e successivamente attuata dalla L. 5 giugno 2003, n. 131 (cd. Legge La Loggia). Dal principio di tendenziale equiparazione tra i diversi enti e dal nuovo riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, consegue la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni del segretario nell’ambito degli enti locali.

Vi è stato anche chi – come i comuni di Castel di Tora e Lauro – ha ritenuto che la L.Cost. n. 3/2001 avesse già consentito ai singoli enti di disciplinare nei propri statuti e regolamenti la figura del segretario con la conseguente possibilità di prevederne la soppressione. Tuttavia tale tesi estrema non è apparsa condivisibile; né è conferma la sentenza del Tar Lazio, sez. II bis, 11 luglio 2002, n. 4066.

La legge delega 05 giugno 2003, n. 131 – cd. Legge La Loggia – aveva previsto all’art.2 comma 4 lettera m) che fossero escluse dalla revisione del Testo unico degli enti locali – previsto dalla lettera g) del medesimo comma – le disposizioni volte ad assicurare la conformità dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto ed ai regolamenti.

In tale contesto la conservazione dello status quo ante realizzata dall’art. 2, comma 4, lett. m), della L. n. 131/2003 si poneva come principio di organizzazione pubblica con la conseguenza che gli eventuali spazi per l’autonomia normativa locale sarebbero stati limitati non potendosi estendere fino al non prevedere la figura del segretario e le sue funzioni.

Il Governo della Repubblica, pur avendone avviato l’iter, rinunciò all’approvazione del decreto legislativo correttivo del Testo unico, facendo scadere il 31/12/2005 la delega conferita dal Parlamento.

La volontà di valorizzare, ulteriormente riformandolo, il ruolo del segretario comunale e provinciale nel modo delle autonomie locali è altresì testimoniato dall’inserimento, nel disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento delle autonomie locali e l’adeguamento alla riforma del Titolo V, testo licenziato dal Governo della Repubblica il 16 marzo 2007, tra i criteri di delega appunto, della previsione di una figura unica apicale di vertice in ogni ente con funzioni di raccordo tra gli organi di governo e la dirigenza. L’art.2, comma 4, lett.cc) del d.d.l. così recitava: “….prevedere una funzione apicale che garantisca la distinzione e il raccordo tra gli organi politici e l’amministrazione per assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, in attuazione dell’art.97 della Costituzione”. L’interruzione anticipata della legislatura impedì anche in questo caso l’approvazione della delega da parte del Parlamento.

Il quadro normativo era tuttavia destinato nuovamente a mutare. In sede di conversione del D.L. 31 maggio 2010 n.78 venne decisa la soppressione dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, istituita con la legge 127/1997, disponendo che il Ministro dell’interno succedesse all’Agenzia, impregiudicato il potere di nomina in capo all’amministrazione locale.

Il D.L. 31 maggio 2010 n.78 recava altresì all’art.14 un’altra importante innovazione destinata sicuramente ad incidere indirettamente sulla figura e sul ruolo del segretario comunale; il riferimento è al comma 28 che introdusse l’obbligo per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti (3.000 se montani) di gestire in forma associata, mediante convenzione o in unione, tutte le funzioni fondamentali, così come definite dall’art.21, comma 3, della legge 5 maggio 2009 n.42.

Da ultimo nel 2012 sono stati ben tre gli interventi del legislatore diretti a rafforzare il ruolo del segretario: la legge 59, che interviene sulla 241, prevede che l’organo di governo individui, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia, competenza che è andata ad incardinarsi di fatto in capo al segretario; il D.L. 174/2012 che ha sostanzialmente riscritto il sistema dei controlli negli enti locali ed ha esplicitamente affidato al Segretario comunale la direzione dei controlli interni, ed infine la legge 190/2012 che individua, di norma, nel segretario il responsabile anticorruzione con penetranti poteri di controllo sul funzionamento dell’intera struttura. Infine la legge 56/2014 di riordino delle province, delle città metropolitane e delle unioni di comuni aveva rimarcato la centralità del segretario anche nelle Unioni di Comuni per le quali si prevedeva espressamente l’obbligo di dotarsi della figura.

La centralità del segretario comunale negli enti locali era solo scalfita dalla presenza del direttore generale al quale era affidato il coordinamento della dirigenza locale in sostituzione del segretario, chiamato in tal caso, in posizione di autonomia rispetto al direttore generale, alla sola attività di assistenza giuridica agli organi di governo e di garanzia della legittimità dell’attività amministrativa.

Ora con l’entrata del decreto delegato tutto questo sarà destinato a cambiare.

Così come nello Stato anche negli enti locali scompare la distinzione per fasce della dirigenza.

La dirigenza degli enti locali fino ad oggi è stata costituita dai segretari e dai dirigenti con percorsi di carriera distinti e non comunicanti fra loro.

La qualifica di dirigente si acquisisce a seguito di concorso pubblico indetto da ciascun ente, al quale sono ammessi a partecipare funzionari in possesso del diploma di laurea e con un esperienza nella carriera direttiva di almeno cinque anni. Al buon esito dell’esame il vincitore è incardinato nell’ente, ricoprendo un posto nella dotazione organica. Costituito il rapporto di lavoro, l’incarico con il quale il dirigente viene preposto alla direzione di un settore in cui si articola la struttura organizzativa dell’ente è affidato con atto del Sindaco al quale a mente dell’art.50 del Testo Unico Enti Locali compete l’attribuzione degli incarichi dirigenziali. La cessazione del mandato del sindaco comporta la cessazione dell’incarico impregiudicato il rapporto di lavoro con l’ente.

Lo status di segretario comunale si acquisiva invece a seguito della partecipazione ad un corso-concorso al termine del quale si conseguiva l’iscrizione allo specifico Albo, tenuto dal ministero dell’Interno. La prima nomina, come le nomine successive si acquisiva ad esito della procedura di interpello avviata da ciascun ente. La nomina veniva disposta con atto del Sindaco e per una durata pari a quella del mandato del Sindaco. Qualora il nuovo sindaco non intendesse confermare il segretario lo stesso era collocato in posizione di disponibilità in attesa di una nomina in un altro comune.

A differenza del dirigente per i segretari vi era una scissione tra rapporto di lavoro, rapporto organico, che intercorreva con il ministero, e rapporto di servizio che intercorreva con il comune presso il quale prestava servizio.

La progressione di carriera dei segretari, dai comuni piccoli a quelli gradi avveniva previo il conseguimento di successive abilitazioni professionali.

Il sistema non consentiva in alcun modo uno scambio tra le due dirigenze, per la verità in minima parte consentito fino alla riforma del 1997, e la posizione di vertice amministrativo era esclusivo appannaggio degli iscritti all’albo dei segretari, salvo che il capo dell’amministrazione non decidesse di dotarsi di un direttore generale, reclutato all’esterno dell’ente, per il quale la legge non fissava alcun criterio o requisito, demandando alla fonte locale.

Solo per il direttore generale incarico e contratto coincidevano; la cessazione dall’incarico faceva in questo caso venir meno ogni rapporto con l’ente.

Con la riforma il modello organizzativo degli enti è destinato a cambiare in modo significativo.

Segretari e dirigenti sono destinati a formare un corpo unico, ed in prospettiva a confondersi man mano che il ruolo sarà alimentato da nuove leve.

Al Legislatore non è tuttavia sfuggita la necessità di assicurare per il miglior funzionamento degli enti una figura di vertice e di raccordo tra gli organi di governo e la dirigenza operativa.

La legge delega prevede l’obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale con compiti di:

– attuazione dell’indirizzo politico,

– coordinamento dell’attività amministrativa,

– direzione degli uffici [9],

– controllo della legalità dell’azione amministrativa,

Se la figura del segretario è stata abolita, pare sopravviverne la funzione.

Il legislatore aggiunge al novero delle funzioni tipiche del nuovo “dirigente apicale” anche la funzione rogante, ma in questo caso solo in capo ai dirigenti apicali aventi i prescritti requisiti, il che restringe significativamente il campo degli aspiranti.

Curiosamente il legislatore usa il termine “mantenere” quasi a scusarsi delle scelta di porre fine alla vicenda dei segretari comunali.

L’obbligo di nominare un dirigente apicale si atteggia in modo particolare per i comuni di minori dimensioni demografiche, i quali hanno l’obbligo di gestire la funzione di direzione apicale in via associata, coerentemente con le previsioni di cui all’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

Se nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti (3.000 se montani) la funzione di direzione apicale è necessariamente gestita in forma associata avvalendosi dell’opera di un unico dirigente, i comuni superiori a tale soglia avranno ciascuno un proprio dirigente apicale.

Per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, le Città metropolitane (e nel silenzio della legge anche le Province) è prevista la possibilità di scelta tra un modello organizzativo con a capo il direttore generale oppure un’organizzazione con al vertice il dirigente apicale.

Detti enti possono infatti nominare in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale ai sensi dell’articolo 108 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n.267 del 18 agosto 2000. In tale ipotesi, tuttavia la funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa e la funzione rogante non sarà esercitata dal direttore generale ma dovrà essere affidata ad un dirigente di ruolo.

Apparentemente la soluzione sembra richiamare l’attuale frequente coabitazione tra un direttore, posto a guida della struttura operativa, ed un segretario posto a presidio della legalità dell’azione amministrativa. Tuttavia in tale nuova situazione il dirigente preposto alle attività di controllo dovrà comunque riferire al direttore generale, relazione di dipendenza espressamente esclusa per il segretario. Va comunque aggiunto che qualora a detto dirigente venissero attribuite le funzioni di responsabile del piano di prevenzione del rischio corruzione, come appare naturale data l’assimilabilità della funzione con quella di controllo della legalità, allo stesso andranno garantite le necessarie condizioni di autonomia anche rispetto al direttore generale.

Gli enti di maggiore dimensione demografica e di maggiore complessità organizzativa possono quindi optare per una scelta del vertice amministrativo all’interno del ruolo unico oppure all’esterno.

Per la prima volta però il legislatore si preoccupa colmando la lacuna contenuta nel testo unico di delegare il governo affinchè definisca, con norma di rango primario, i requisiti per ricoprire l’incarico di direttore generale di un ente locale.

L’incarico di dirigente apicale, con ciò rappresentando un’eccezione alla regola della comunicabilità tra i tre ruoli dirigenziali, è attribuibile ai solo iscritti al ruolo dei dirigenti locali essendo l’incarico per espressa previsione normativa precluso ai dirigenti del ruolo dei dirigenti dello stato e dei dirigenti delle regioni.

Nella fase transitoria, per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega, viene previsto per gli enti locali privi di un direttore generale nominato ai sensi del citato articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, l’obbligo di conferire l’incarico di direzione apicale ai soggetti già iscritti all’albo dei segretari comunali e provinciali.

I compiti del dirigente apicale e quelli del direttore generale non sono tra loro interamente sovrapponibili.

Ben più ampi sono i compiti del dirigente apicale, essendo al direttore generale rimesso il compito di provvedere ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e di sovrintendere alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza, nonché la proposta di piano esecutivo di gestione.

Il dirigente apicale affianca al compito di direzione degli uffici, quello di rogito dei contratti e di controllo di legalità.

Rispetto alle funzioni proprie del segretario comunale come declinate dal testo unico non c’è traccia espressa nella legge delega del riferimento, tra le funzioni tipiche del dirigente apicale, ai compiti di “collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”, funzione che caratterizzava invece la figura del segretario.

Se compito precipuo del segretario comunale era quello di assicurare con la sua azione la conformità dell’azione amministrativa alle leggi, compito primario del dirigente apicale sarà quello di assicurare l’attuazione dell’indirizzo politico. Il coordinamento dei dirigenti, attività comune alle due figure, risulterà funzionale, nel dirigente apicale, all’attuazione del programma di mandato.

Al dirigente apicale è richiesto difatti di attuare l’indirizzo politico in altre parole di presidiare e vigilare sull’intera struttura affinchè gli obiettivi posti nel programma di mandato, trasfusi nel Documento Unico di Programmazione siano realizzati. Del resto la riforma del sistema della contabilità pone sempre più l’accento sul principio della programmazione nella gestione dell’ente locale.

Il processo di programmazione, si svolge nel rispetto delle compatibilità economico-finanziarie e tenendo conto della possibile evoluzione della gestione dell’ente, richiede il coinvolgimento dei portatori di interesse nelle forme e secondo le modalità definite da ogni ente, si conclude con la formalizzazione delle decisioni politiche e gestionali che danno contenuto a programmi e piani futuri riferibili alle missioni dell’ente.

La locuzione “attuare l’indirizzo politico” corrisponde alla locuzione “attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente” contenuta nell’art.108 con riguardo alle funzioni del direttore generale.

In funzione dell’attuazione dell’indirizzo politico è attribuito al dirigente apicale il coordinamento dell’attività amministrativa e la direzione degli uffici.

La locuzione “direzione degli uffici” toglie ogni dubbio circa il ruolo del dirigente apicale che al di là del nome non è un primus inter pares ma un soggetto che esercita un ruolo di direzione.

La teoria delle organizzazioni ha consentito di elaborare delle categorie concettuali che sono di utilità nei processi di analisi delle organizzazioni e che facilitano la descrizione delle caratteristiche organizzative di base.

L’organizzazione delineata dal T.U. per gli enti locali è caratterizzata dalla assegnazione alla dirigenza delle funzioni manageriali, con attribuzione agli stessi di ampi margini di autonomia.

Una struttura articolata in questo modo richiede un momento di raccordo ad unità perché l’autonomia dei singoli dirigenti possa essere incanalata verso la realizzazione di obiettivi comuni o coerenti tra di loro.

Questa reductio ad unum può essere articolata, all’interno dell’ente, in diversi modi che consistono essenzialmente in differenti modi di regolare i rapporti interorganici all’interno dell’ente.

In linea di massima la lettura delle disposizioni del TUEL consentono di costruire senza troppa difficoltà i rapporti tra gli attori principali del sistema e, dunque, tra gli organi politici e tra questi e i dirigenti.

Le norme risultano meno chiare, invece, nel delineare i rapporti tra direttore e dirigenti.

Le norme citate non brillano per chiarezza della loro formulazione e ne è difficile il coordinamento.

L’uso del verbo “sovrintendere” sia con riferimento al contenuto delle funzioni del segretario sia con riferimento al contenuto del ruolo del direttore generale ha contribuito ad ingenerare una certa confusione che ha portato alla sovrapposizione concettuale dei due ruoli, facendone perdere di vista le differenze.

I rapporti che si vengono ad instaurare tra organi dello stesse ente vengono definiti interorganici.

Il diverso modo in cui tali rapporti vengono strutturati all’interno dell’ente contribuisce a caratterizzare quest’ultimo sulla base di una ben precisa formula organizzatoria.

Anche in questo campo, come per i modelli organizzativi, si fa riferimento a delle categorie concettuali generali che agevolano l’analisi delle realtà che si intendono studiare.

I modelli tradizionali dei rapporti interorganici sono rappresentati dalla gerarchia, dalla direzione, dal coordinamento e dal controllo.

Il parametro in base al quale vengono graduati questi modelli è rappresentato dal livello di pervasività che l’organo superiore può esercitare sull’organo inferiore.

Tale livello è massimo nel modello gerarchico che corrisponde al tradizionale modello piramidale che caratterizzava la P.A.

Tale modello si fonda su una formula organizzatoria di tipo verticale.

Si considerano generalmente connaturali al rapporto gerarchico i poteri di avocazione e di sostituzione che il superiore può esercitare nei confronti dell’inferiore.

Per meglio identificare e comprendere il contenuto di questa modalità di estrinsecazione dei rapporti interorganici si tenga presente che nel modello gerarchico tali rapporti sono formalizzati nell’ordine.

La formula organizzatoria che rappresenta lo sviluppo successivo al rapporto gerarchico è data dal rapporto c.d. di direzione.

Si tratta di un modello in via di progressiva evoluzione nella struttura amministrativa che tende a sganciarsi dal più tradizionale modello gerarchico.

La responsabilità del titolare di un ufficio, nonché la distinzione delle sfere di competenza delineati dal nuovo modello organizzativo della P.A. e degli enti locali in particolare, presuppone, infatti, che i poteri di ingerenza nell’attività dell’ufficio sottordinato risultino significativamente attenuati.

Alla posizione di direzione, quindi, ineriscono poteri minori rispetto al modello classico fondato su rapporti gerarchici e, più precisamente, dei meri poteri di propulsione, direttiva e controllo, per cui ai destinatari di essi rimane una notevole autonomia di determinazione nella scelta delle modalità di perseguimento degli obiettivi fissati.

L’atto tipico del potere di direzione è, appunto, rappresentato dalla direttiva la cui caratteristica è quella di dettare regole di comportamento, lasciando sempre un ampio margine di discrezionalità all’organo chiamato poi ad applicarla, fermo restando l’obbligo di quest’ultimo di motivare circa l’eventuale disancoramento dagli indirizzi.

Il modello del coordinamento è collegato ad un gradino ancora più basso della scala ideale sopra delineata.

Questo è uno schema fondato sull’attribuzione di competenze ad organi in posizione equiordinata salvo poi istituire un organo il cui compito consista nell’indirizzare le singole competenze creando un programma organico di realizzazione degli obiettivi comuni.

Il rapporto di coordinazione è definibile, pertanto, come la relazione intercorrente tra organi preposti ad attività che pur essendo distinte siano destinate ad essere ordinate in vista della realizzazione di un disegno unitario e del raggiungimento di risultati comuni.

Esso troverebbe il suo fondamento nelle esigenze di coerenza dell’azione amministrativa e si traduce in tutti gli atti diretti ad assicurare l’armonizzazione dell’attività secondo un disegno coerente ed organico in vista di risultati di interesse comune.

Esso si estrinseca, dunque, nel potere, riconosciuto all’organo coordinatore, di impartire le disposizioni idonee per la realizzazione del disegno unitario.

Il coordinamento, quindi, assume particolare rilievo laddove ci si trovi dinanzi a organi in posizione di equiordinazione, stante la difficoltà di sincronizzare l’operato di organi reciprocamente indipendenti.

Da ciò ne deriva che l’attività di coordinamento è volta ad assicurare la corretta valutazione di tutti gli interessi coinvolti e importa la competenza alla risoluzione dei conflitti eventuali che si possono presentare tra organi equiordinati (nel nostro caso tra dirigenti) siano essi positivi o negativi, reali o virtuali.

Il contenuto dell’attività di sovrintendenza, invece, rimanda a compiti di vigilanza e controllo e riconosce, pertanto, la possibilità di sindacare l’operato di un altro organo a fini di prevenzione e riparazione ed a salvaguardare degli interessi su cui è chiamato a vigilare.

Viene identificato come un modello autonomo perché non necessariamente l’organo titolare della funzione di controllo è anche titolare dei poteri necessari per intervenire con azioni correttive sulle eventuali anomalie riscontrate.

La specificazione in capo al dirigente apicale (quando non sia stato nominato il direttore generale) dei poteri di coordinamento rappresenta un pleonasmo diretto a rafforzare il concetto del dirigente apicale medesimo come organo deputato a vigilare e controllare affinché le disposizioni impartite per garantire la coerenza del sistema siano rispettate, attivando dove necessario azioni correttive.

Pertanto l’ordinamento garantisce che sia assicurata la reductio ad unum dell’azione amministrativa.

Per ben distinguere i contenuti dell’attività di direzione da quella di coordinamento si tenga presente che il coordinamento alloca le decisioni gestionali direttamente a livello degli organi coordinati, per cui il coordinatore deve limitarsi a garantire che le decisioni liberamente e autonomamente prese a livello gestionale non confliggano tra loro e siano funzionali alla realizzazione del programma organico di realizzazione degli obiettivi comuni.

Nel rapporto di direzione, invece, parte del contenuto gestionale della decisione si colloca al livello dell’organo direttivo.

Quest’ultimo, però, non potrà entrare nel dettaglio del contenuto gestionale della decisione, ma dovrà limitarsi a delineare soltanto gli aspetti generali della stessa, la cornice.

A differenza che nel rapporto gerarchico, quindi, l’organo direttivo non può impartire disposizioni concrete e puntuali, bensì definisce, semmai, i contenuti dell’obiettivo da raggiungere o del risultato da conseguire, senza entrare nel merito né dei mezzi né, tanto meno, dei tempi, lasciando quindi al destinatario una notevole area di autonoma determinazione.

A corollario del compito di attuazione dell’indirizzo politico e direzione degli uffici il legislatore ha previsto il controllo di legalità.

Sul presupposto che l’azione amministrativa funzionale all’attuazione dei programmi dell’amministrazione, che si sviluppa nell’attività di gestione affidata ai dirigenti debba necessariamente svolgersi nel rispetto dell’ordinamento, il legislatore affida al dirigente apicale funzioni di controllo; la norma non può che essere letta in raccordo con le previsione della legge 190/2012 in tema di prevenzione del rischio corruzione e con le previsione recante dal D.L. 174/2012 in tema di controlli interni.

La legge non chiarisce la natura del controllo e cioè se debba essere preventivo o successivo e se debba riguardare gli atti dirigenziali od estendersi anche agli atti degli organi di governo.

Invero l’attività di controllo di legalità dovrebbe avere per oggetto l’azione amministrativa e non già i singoli atti; l’azione risulterà illegittima non solo laddove risulterà violato il precetto dell’imparzialità ma anche quanto l’attività si porrà in contrasto con i canoni del buon andamento.

Il principio di imparzialità recato dall’art.97 Costituzione – unito quasi in endiadi con quelli di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa – costituisce un valore essenziale cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l’organizzazione dei pubblici uffici (così si esprime il giudice delle legge nella sentenza n.333 del 1993).

Dal ultimo l’attribuzione al dirigente apicale della funzione di rogito degli atti, ovvero del compito di ricevere contratti di cui l’ente è parte in atti destinati a fare fede pubblica.

Nella funzione rogante può anche essere ricondotto il compito di ricevere la volontà degli organi di governo, assistendo alle sedute della giunta e del consiglio, con funzioni referenti e di assistenza. L’attività di raccordo tra gli organi di governo e la dirigenza implicita nella funzioni di attuazione dell’indirizzo politico è tanto più feconda se si nutre del confronto continuo con la classe politica anche a supporto della funzione di policy making.

La legge di riforma, che difetta di norme di coordinamento con l’assetto normativo vigente, mancando una delega espressa alla revisione del TUEL, nulla dice circa l’esercizio del potere di nomina del dirigente apicale, che non può che restare quindi in capo al Sindaco e al Sindaco metropolitano.

Trattandosi di incarichi relativi ad uffici di vertice la nomina da parte del capo dell’amministrazione del soggetto da incaricare sarà preceduta dalla preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei requisiti richiesti, da parte della Commissione, tra i quali sarà effettuata la scelta.

A differenza degli altri incarichi dirigenziali, gli incarichi di funzione dirigenziale apicale cesseranno se non rinnovati entro novanta giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi, al pari di quanto previsto per gli incarichi dirigenziali statali di vertice ed in parziale discontinuità con quanto già previsto per i segretari comunali per i quali era tuttavia previsto, in ragione della funzione di garanzia, un favor per la riconferma essendo previsto allo spirare del 120° giorno dall’insediamento dell’organo esecutivo non la cessazione automatica bensì la conferma.

Quanto alla dirigenza locale l’elemento di maggior rottura rispetto al passato è costituito dal superamento della dotazione organica dirigenziale presso ciascun ente locale.

I dirigenti perdono lo status di dipendente di ruolo a tempo indeterminato dell’ente, per acquisire con lo stesso ente solo un rapporto di servizio se incaricati e per la durata dell’incarico.

Come già avveniva per i segretari, anche per i dirigenti si assisterà ad una scissione tra rapporto organico, che sarà con lo Stato incaricato della tenuta dei tre ruoli, e rapporto di servizio con l’ente presso il quale sarà chiamato ad operare.

Mentre fino ad oggi al dirigente potevano essere attribuiti differenti incarichi e passare dalla direzione di un settore all’altro, mantenendo comunque il rapporto di lavoro con il medesimo ente, con l’emanazione del decreto delegato la situazione è destinata a mutare in profondità aprendosi per i dirigenti locali un vero e proprio mercato.

La temporaneità degli incarichi favorirà la mobilità virtuosa tra gli enti con scambi di esperienze ed arricchimenti reciproci.

Venendo a mancare una dotazione organica di ente, ciascuna amministrazione, nel rispetto della propria capacità di spesa, potrà decidere di avere un numero più o meno elevato di dirigenti superando le rigidità attuali.

La riforma della dirigenza non fa venir meno per gli enti locali, come per lo Stato, la possibilità di reclutare dirigenti tra soggetti estranei al ruolo, facendo la norma espressamente salve le particolari discipline, tra cui l’art.110 del TUEL, che consentono, previa selezione pubblica, il reclutamento di dirigenti con contratto a termine [10].

Resta da chiarire essendo negli enti locali solo il dirigente apicale l’unico incarico di vertice se la nomina dei restanti dirigenti rimanga in capo al vertice politico, tesi che appare preferibile essendo l’art.50 del TUEL, non oggetto di modifica, chiaro nell’attribuire al sindaco il compito circa l’attribuzione degli incarichi dirigenziali, ovvero sia da ricondurre alla competenza del dirigente apicale come avviene per lo stato laddove è il dirigente generale ad attribuire gli incarichi dirigenziali.

L’introduzione della figura del dirigente apicale, che va a sostituire il segretario comunale, non va a modificare, di questo nella legge delega non vi è traccia, la tradizionale distinzione tra enti con personale avente qualifica dirigenziale ed enti privi di personale con qualifica dirigenziale, distinzione rilevante per parecchi fini dalla disciplina delle risorse decentrate, al ruolo delle posizioni organizzative.

Negli enti nei quali l’unico dirigente sia il dirigente apicale dovranno continuarsi ad applicare le regole previste per gli enti privi di personale dirigenziale e quindi i compiti gestionali e l’assunzione dei relativi atti non andranno attribuiti al solo dirigente apicale ma potranno continuare ad essere assegnati ai funzionari a mente dell’art.109 del TUEL [11], la cui nomina dovrebbe invece essere opportunamente ricondotta al dirigente apicale.

Tra l’altro il venir meno di una dotazione organica della dirigenza di ente, rende la distinzione tra enti privi ed enti con personale dirigenziale, una condizione di fatto derivante dalla scelta del vertice politico di dotarsi o meno di dirigenti oltre al dirigente apicale unica figura dirigenziale indefettibile.

Obiettivo della riforma è quello di creare un mercato della dirigenza locale, oggi limitato ai segretari ed ai direttori generali, per favorire attraverso lo scambio di esperienze, lo sviluppo delle tecniche di benchmarking la crescita delle organizzazioni.

E’ pur vero che nell’ambito di ciascun ruolo così come nell’ambito del ruolo dei dirigenti locali sarà inevitabile, per quanto si cerchi di evocare l’archetipo del manager cioè del dirigente inteso come soggetto la cui abilità risiede nella capacità di organizzare, in qualunque contesto organizzativo sia esso calato, fattori produttivi, risorse umane, finanziarie e strumentali per perseguire gli obiettivi dati dal vertice politico, che i percorsi professionali e le attitudini dei singoli porteranno ad una differenziazione di fatto tra dirigenti con maggior propensione a ricoprire posti di funzione e dirigenti più inclini a ruoli di direzione generale, specie negli enti locali per i quali, a differenza dei ministeri, il modello organizzativo è stato da sempre imperniato su di un’unica figura di vertice ricoperta fino ad ora da soggetti, i segretari, portatori di una visione generale dell’organizzazione ed appositamente a ciò formati.

Infine si aggiunga che con l’Ordine del Giorno 9/03098-A/076, a firma dei deputati Fabbri, Tino Iannuzzi, D’Attorre, accolto dal Governo, la Camera ha impegnato lo stesso Governo, nell’esercizio della delega legislativa, a definire una disciplina normativa che consenta alla Commissione per la dirigenza locale di stabilire i requisiti specifici per il conferimento degli incarichi dirigenziali negli Enti locali, a cominciare da quelli di dirigente apicale, affinché tali ultime funzioni siano svolte da dirigenti effettivamente in possesso di tutti i requisiti necessari in termini di competenze ed esperienze professionali adeguate e coerenti con i compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa, direzione degli uffici e controllo della legalità dell’azione amministrativa, di esercizio della funzione rogante assegnati dalla legge a tale incarico dirigenziale, nonché commisurate ai diversi livelli di dimensione e complessità degli enti locali.

La riforma della dirigenza ed il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

La riforma della dirigenza pubblica va altresì letta nel più ampio disegno di riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, che trova oggi la propria fonte di cognizione nel decreto legislativo n.165/2001.

L’art.17 della legge in commento reca quale rubrica il “Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

Il forte legame tra la riforma della dirigenza e la delega al riordino della disciplina del pubblico impiego è testimoniata dalla previsione contenuta nel comma 2 dell’art.17 in virtù della quale la delega sul pubblico impiego e la delega, o meglio le deleghe, di cui all’articolo 11, quelle in tema appunto di dirigenza, possono essere esercitate congiuntamente mediante l’adozione di uno o più decreti legislativi, purché i decreti siano adottati entro il termine di cui all’articolo 11, comma 1, e cioè entro un anno dall’entrata in vigore della stessa legge delega.

La legge delega si esprime in termini di riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tuttavia per alcuni tratti significativi più che di riordino si tratta di vera e propria riforma.

I decreti legislativi per il riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa devono essere adottati, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, parere non richiesto per la delega relativa alla riforma della dirigenza.

La delega va esercitata nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi recati dall’art.17, che si aggiungono a quelli più generali di cui all’articolo 16.

L’art.17 è infatti preceduto dall’art.16 “Procedure e criteri comuni per l’esercizio di deleghe legislative di semplificazione”.

La delega per il riordino del lavoro pubblico è parte di un progetto più ampio di ammodernamento della Pubblica Amministrazione e di semplificazione in tre settori nevralgici quali:

a) il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa;

b) le partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche;

c) i servizi pubblici locali di interesse economico generale.

Il Governo attraverso l’esercizio della delega dovrà pervenire all’elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna materia, introducendo le modifiche necessarie per il coordinamento delle disposizioni stesse, mediante il coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, garantendo la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa in base ai principi dell’ordinamento e alle discipline generali regolatrici della materia, avendo cura di realizzare la più estesa e ottimale utilizzazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, anche nei rapporti con i destinatari dell’azione amministrativa.

La delega tocca diversi aspetti relativi al lavoro pubblico con particolare riguardo ai meccanismi di accesso.

Innanzitutto viene previsto che lo svolgimento dei concorsi, per tutte le amministrazioni pubbliche, avvenga in forma centralizzata o aggregata, con effettuazione delle prove in ambiti territoriali sufficientemente ampi da garantire adeguata partecipazione ed economicità dello svolgimento della procedura concorsuale.

Non saranno più le singole amministrazioni a bandire i concorsi di accesso bensì la funzione di reclutamento del personale sarà centralizzata, al pari di quanto sta già avvenendo in tema di appalti pubblici.

Anche per gli enti locali è previsto che la gestione dei concorsi per il reclutamento del loro personale avvenga a livello provinciale e non più a livello di singolo ente, in coerenza con il nuovo ruolo della Provincie delineato dalla riforma Del Rio.

Gli andamenti occupazionali non saranno poi legati a scelte episodiche di ciascuna singola amministrazione ma dovrà essere introdotto un sistema informativo nazionale, finalizzato alla formulazione di indirizzi generali e di parametri di riferimento in grado di orientare la programmazione delle assunzioni anche in relazione agli interventi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, viste ormai nel loro complesso in modo unitario e non più parcellizzato.

Il decreto delegato dovrà disciplinare forme di preselezione dei componenti delle commissioni; le commissioni di concorso saranno pertanto formate da soggetti abilitanti a svolgere tale delicata funzione.

I criteri di valutazione delle prove dovranno essere uniformi, per assicurare omogeneità qualitativa e professionale in tutto il territorio nazionale per funzioni equivalenti.

Anche le modalità di espletamento dei concorsi saranno oggetto di revisione, con la previsione di prove concorsuali che privilegino l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche, con possibilità di svolgere unitariamente la valutazione dei titoli e le prove concorsuali relative a diversi concorsi.

Al fine di perseguire l’obiettivo di un reclutamento costante di nuovi funzionari tra le giovani leve viene prevista la riduzione dei termini di validità delle graduatorie.

In quest’ottica va letta anche la soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca.

Occorre assecondare l’ingresso nella pubblica amministrazione di nuove leve portatrici di nuovo energie; da qui la previsione della facoltà, per le amministrazioni pubbliche, di promuovere il ricambio generazionale mediante la riduzione su base volontaria e non revocabile dell’orario di lavoro e della retribuzione del personale in procinto di essere collocato a riposo.

Al pari delle conoscenze in ambito informatico nell’ambito dei requisiti per l’accesso all’impiego ai futuri dipendenti delle pubbliche amministrazione sarà richiesta la conoscenza della lingua inglese.

Viene data la stura ad una gestione veramente manageriale delle risorse umane attraverso l’introduzione di strumenti quali la rilevazione delle competenze [12] dei lavoratori pubblici, misura questa che aiuterà i dirigenti e le amministrazioni ad una migliore allocazione delle loro risorse.

Il progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni facilita i processi di mobilità, superando le rigidità attuali.

Si compie un ulteriore passo in avanti, la dotazione organica, che aveva soppiantato la pianta organica, viene sostituita dalla sola programmazione della assunzioni che sarà approntata in coerenza con il piano della performance in funzione del perseguimento degli obiettivi di ciascuna amministrazione e non più quindi in termini puramente teorici.

In un ottica di contenimento della spesa pubblica e di una sua componente significativa quale la spesa di personale la delega si pone l’obiettivo della definizione di obiettivi di contenimento delle assunzioni, differenziati in base agli effettivi fabbisogni.

Da qui anche la disciplina delle forme di lavoro flessibile, con individuazione di limitate e tassative fattispecie, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato.

L’incremento della competitività del Paese passa non solo attraverso la razionalizzazione della pubblica amministrazione cui è dedicata la delega contenuta nell’articolo 8 della legge in commento e la profonda riforma della dirigenza, ma anche attraverso la revisione, in un ottica di semplificazione del sistema dei premi e delle punizioni.

Al dirigente, datore di lavoro della pubblica amministrazione, il legislatore vuole consegnare un armamentario di più facile utilizzo.

Il riordino del procedimento disciplinare e del sistema premiale presuppone anche una revisione del ruolo dell’ARAN, agenzia governativa alla quale la legge delega attribuisce funzioni di supporto tecnico alle amministrazioni nelle funzioni di misurazione e valutazione della performance e nelle materie inerenti alla gestione del personale, il rafforzamento della funzione di assistenza ai fini della contrattazione integrativa – per la quale il legislatore auspica la concentrazione delle sedi – e la revisione del relativo sistema dei controlli e potenziamento degli strumenti di monitoraggio sulla stessa.

Dovranno essere quindi definite le materie escluse dalla contrattazione integrativa anche al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito e la parità di trattamento tra categorie omogenee, nonché accelerare le procedure negoziali.

Come accennato la riforma non può prescindere dalla semplificazione delle norme in materia di valutazione dei dipendenti pubblici, di riconoscimento del merito e di premialità.

L’obiettivo dovrà essere perseguito attraverso la razionalizzazione e integrazione dei sistemi di valutazione, anche al fine della migliore valutazione delle politiche pubbliche.

Il sistema di misurazione della performance dovrà essere ulteriormente sviluppato con l’introduzione di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall’organizzazione, che chiama in causa la capacità del dirigente, e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti.

Il legislatore non intende certo scollegare la valutazione dei risultati raggiunti dall’organizzazione da quelli raggiunti dai singoli dipendenti bensì evidenziare i due livelli di responsabilità, fermo restando che la distribuzione dei premi ai singoli non può essere avulsa dalla performance aziendale.

Il potenziamento dei processi di valutazione dovrà tendere alla misurazione del livello di efficienza e qualità dei servizi e delle attività delle amministrazioni pubbliche e degli impatti da queste prodotti, anche mediante il ricorso a standard di riferimento e confronti.

Anche l’attività di misurazione della performance di ciascuna amministrazione e la propedeutica attività di programmazione dovrà essere oggetto di semplificazione attraverso la riduzione degli adempimenti in materia ed una maggiore integrazione con il ciclo di bilancio, così come dovranno essere oggetto di razionalizzazione i flussi informativi dalle amministrazioni pubbliche alle amministrazioni centrali che andranno concentrati in ambiti temporali definiti.

Sistema dei controlli interni e valutazione della performance dovranno essere attività tra loro meglio coordinate, posto che entrambe le attività si pongono il comune obiettivo di consentire attraverso costanti feed-back il miglioramento continuo dell’azione amministrativa.

In materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti la legge in commento contiene una delega per l’introduzione di norme finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo il procedimento quanto ai tempi di espletamento e di conclusione dell’esercizio dell’azione disciplinare.

Ma la norma sulla quale in relazione all’argomento trattato è utile concentrare l’attenzione è la direttiva contenuta nella lettera t) che individua tra i criteri della delega il “rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale”.

L’introduzione della dirigenza operata nel lontano 1972 ebbe scarso successo anche per la mancata delimitazione di una precisa sfera di attribuzioni e poteri idonea e funzionale a distinguere l’ambito di azione della dirigenza rispetto agli organi politici.

Bisognerà attendere il decreto legislativo n.29/1993 [13] e più ancora la stagione riformatrice del 1997 e degli anni immediatamente seguenti per vedere affermato in diritto positivo il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione.

La Corte Costituzionale con la sentenza 3 maggio 2013 ebbe ad affermare che nel nostro ordinamento il principio di separazione tra funzioni d’indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti, introdotto dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, venne poi «accentuato» dal legislatore, proprio per porre i dirigenti (generali) in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto dei principî d’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Tale rafforzamento si è realizzato, dapprima, con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 e, poi, con il D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165.

La separazione tra funzioni d’indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa dovrebbe costituire ormai un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost.

L’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore.

A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti d’indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Spesso però il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione è rimasto, nei fatti, una mera petizione di principio.

L’affermazione nella pratica della separazione tra indirizzo e gestione si è scontrato con la tendenza della politica a non voler cedere terreno a favore della dirigenza e della dirigenza a sottrarsi alle proprie responsabilità specie nell’assunzione degli atti ad alta discrezionalità trincerandosi dietro le scelte politiche.

L’attuazione in concreto del modello di amministrazione strutturato intorno al principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione richiede l’affermazione della cultura della programmazione, in ragione della quale gli organi politici esprimono con gli atti di programmazione gli indirizzi e le scelte strategiche dell’ente, e ne demandano l’esecuzione alla dirigenza, la quale viene misurata unicamente in ragione del grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati.

Nella riforma della dirigenza è proprio la capacità dimostrata circa il raggiungimento degli obiettivi, espressi in termini chiari e misurabili, ad essere a fondamento degli sviluppi di carriera degli stessi dirigenti ed elemento di valutazione nell’assegnazione e nel rinnovo degli incarichi.

Il modello presuppone un’astensione degli organi politici da qualsiasi ingerenza nelle scelte gestionali tale da consentire di inverare, nei fatti, l’imparzialità della pubblica amministrazione, laddove il rilascio o il diniego di provvedimenti che incidono, ampliandola o restringendola, la sfera giuridica soggettiva dei cittadini, promana, in modo genuino, da un soggetto che fa dell’imparzialità e del buon andamento il parametro di ogni propria azione.

Solo una chiara distinzione tra la sfera delle scelte politiche, di competenza degli organi di governo, dalla gestione, rimessa alla dirigenza, consente di rendere esigibile la responsabilità dirigenziale e cioè la responsabilità c.d. da risultato che da sola contraddistingue il dirigente dagli altri dipendenti pubblici.

L’attività gestionale non è solo fonte di responsabilità di risultato ma è anche possibile fonte, quando illecita, delle più tradizionali responsabilità penali, civili, e amministrativo-contabili.

La legge delega non punta ad introdurre il principio di separazione tra indirizzo politico e gestione, ormai acquisito dall’ordinamento, bensì al suo “rafforzamento”.

Il legislatore delegato muove quindi dall’assunto sottointeso che il principio di separazione sia debole e recessivo rispetto alla tendenza egemonica della politica nell’amministrazione e che vada pertanto irrobustito.

Se dell’attività gestionale, la sola capace di recare in concreto pregiudizio patrimoniale, viene esclusa l’imputabilità agli organi di governo, anzi ne viene espressamente affermata l’esclusiva imputabilità in capo ai dirigente, allora la dirigenza necessita di un proprio statuto, di un sistema di prerogative, in grado di metterla al riparo da tentativi di “etero direzione” da parte della politica.

Affinchè della responsabilità amministrativo-contabile vengano esclusi gli organi politici occorre che nessuna forma di condizionamento sia esercitabile dagli stessi nei confronti della dirigenza, diversamente l’ordinamento avrebbe disegnato un ambito non tollerabile di irresponsabilità o meglio di impunità [14].

Evidentemente il Legislatore delegato ritiene che il nuovo sistema di organizzazione della dirigenza pubblica sia tale da scongiurare ogni possibile ingerenza degli organi politici rispetto alla dirigenza tale da poter escludere l’imputabilità della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale in capo agli organi di indirizzo ed affermarne invece l’esclusiva imputabilità alla dirigenza.

Già oggi secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dei conti la colpevolezza degli organi politici, che hanno posto in essere provvedimenti ritenuti forieri di danno, può non assurgere a gravità perseguibile solo nel caso in cui gli stessi abbiano adottato le contestate decisioni sulla base del parere di un organo tecnico [15].

Prevedere nella legge delega che la responsabilità amministrativa sia solo ed esclusivamente imputabile ai dirigenti non convince, perché nella norma avrebbe dovuto essere indicata anche la possibilità di opporsi da parte dei dirigenti (senza subire ritorsioni) alle direttive politiche quando queste sono (come spesso avviene) illegittime e foriere di spreco finanziario, perché dettate da scelte di clientela politica (o addirittura da finalità illecite).

Se il decreto delegato dovesse esprimersi in questo senso (immunità patrimoniale politica e responsabilità esclusiva solo per i dirigenti), la violazione dell’art. 28 della Costituzione è evidente, perché, come affermato dalla dottrina giuridica, questa norma ha avuto il merito di infrangere il principio d’immunità dello Stato che si traduceva nell’affermazione che la p.a. (con i suoi agenti) non può commettere un illecito.

Bergamo, 15 settembre 2015


(*) Segretario generale del Comune di Treviglio (Bergamo) – Cultore di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Bergamo (**) Avvocato, Segretario generale del Comune di Brignano Gera d’Adda (Bergamo)

[1] Marcello Clarich, “Riforma pa il successo della legge Madia si gioca sulle deleghe”, in Guida al Diritto n. 36/2015;

[2] Rosario Ferrara, Introduzione al Diritto Amministrativo, Laterza, Bari 2014;

[3] Per i dirigenti dell’Area I il CCNL 1998/2001 all’art.13, comma primo, afferma che “tutti i dirigente hanno diritto ad un incarico”. Questa affermazione pose un problema di coordinamento con la previsione dell’art.6 del DPR 150/99 per la quale ai dirigenti ai quali non fosse stato affidato un incarico di direzione di un ufficio dirigenziale sarebbero dovuti rimanere a disposizione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per essere utilizzati nell’ambito di programmi specifici. A seguito della novella apportata dalla legge 145/2002 la citata previsione della contrattazione collettiva non parse più applicabile. La giurisprudenza aveva escluso il diritto del dirigente ad ottenere un incarico determinato e parimenti il diritto alla conferma nell’incarico precedentemente svolto; tuttavia in seguito, sulla base di una mera lettura a contrario della sentenza della Cassazione 20 marzo 2004 n.5659, viene implicitamente riconosciuto il diritto del dirigente ad ottenere comunque un incarico. Anche a voler tacere, da un lato le esigenze di garanzia del dirigente, e dall’altro, le remore a configurare la sussistenza di un obbligo a conferire l’incarico, lesivo della libertà organizzativa della pubblica amministrazione come definita dal decreto legislativo n.165/2001, si deve rilevare come appaia difficilmente giustificabile dal punto di vista dei principi costituzionali del buon andamento ed economicità la permanenza nell’amministrazione di dirigenti retribuiti, ma concretamente inerti in quanto privi di incarico.

[4] Nel testo approvato dal Senato era invece contemplata l’eventuale confluenza in tale ruolo del personale appartenente alle carriere speciali, ad esclusione di quella diplomatica.

[5] sul ruolo delle Commissioni vedi Sabino Cassese, “Come può cambiare lo Stato. Una burocrazia del merito”, in Corriere della Sera, 14/08/2015.

[6] Si riportano gli art.21 e 22 del decreto legislativo n.165/2001

Art. 22. Comitato dei garanti

1.I provvedimenti di cui all’articolo 21, commi 1 e 1-bis, sono adottati sentito il Comitato dei garanti …..omissis…

Art. 21. Responsabilità dirigenziale

1.Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.1-bis. Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all’ottanta per cento.

[7] Fino a oggi sono state otto le aree di contrattazione per la dirigenza, cui occorreva aggiungere l’autonomo contratto dei segretari comunali e provinciali: Area I (aziende e ministeri), Area II (regioni ed autonomie locali), Area III (Sanitaria, professionale tecnica ed amministrativa), Area IV (Medica e Veterinaria), Area V (Area Scuola), Area VI (Agenzie Fiscali, Enti pubblici non economici), Area VII (Ricerca ed Università), Area VIII (Presidenza consiglio dei ministri).

[8] Art.19, comma 6, decreto legislativo n.165/2011

6.Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni. Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Per il periodo di durata dell’incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio. La formazione universitaria richiesta dal presente comma non può essere inferiore al possesso della laurea specialistica o magistrale ovvero del diploma di laurea conseguito secondo l’ordinamento didattico previgente al regolamento di cui al decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509.

[9] La locuzione “direzione degli uffici” è sì contenuta nella frase che fa riferimento ai destinatari dell’incarico di dirigente apicale nella fase transitoria ma non può che essere intesa come riferita alle competenze tanto in fase transitoria che a regime ascrivibili alla nuova figura del dirigente apicale.

[10] Art.110. 1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato. Per i posti di qualifica dirigenziale, il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi definisce la quota degli stessi attribuibile mediante contratti a tempo determinato, comunque in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica e, comunque, per almeno una unità. Fermi restando ì requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al presente comma sono conferiti previa selezione pubblica volta ad. accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’ incarico.

2.Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell’area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell’ente arrotondando il prodotto all’unità superiore, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità.

3.I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. Il trattamento economico, equivalente a quello previsto dai vigenti contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il trattamento economico e l’eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio dell’ente e non vanno imputati al costo contrattuale e del personale.

3.Il contratto a tempo determinato è risolto di diritto nel caso in cui l’ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie.

[11] Art.109 …..2. Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all’articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l’applicazione dell’articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione.

[12] L’obiettivo sta nel verificare le conoscenze (sapere), le capacità (saper fare) e le attitudini (saper essere) possedute e sviluppate nel tempo, che possono essere impiegate nella prestazione lavorativa da realizzare nell’ambito del ruolo ricoperto (o, secondo la logica del “potenziale”, in altri ruoli) per migliorare il contributo alla performance complessiva dell’organizzazione. Anche l’Anac, quando era ancora Civit, nella delibera 114/2010 ha sottolineato l’importanza di considerare le “competenze”, precisando congiuntamente gli strumenti che si rende opportuno attivare per rendere efficace l’approccio. Ha precisato, infatti, che «l’adozione di un dizionario delle competenze è un passo necessario al fine di rendere la metodologia di valutazione dei comportamenti manifestati dall’individuo il più possibile basata su criteri condivisi e omogenei». Anche perché «da un lato, il dizionario delle competenze facilita l’attività del valutatore che dovrà scegliere, tra un insieme predefinito di competenze (o, in fase iniziale, di comportamenti attesi), quelle più idonee per valutare il singolo individuo; dall’altro, quest’ultimo avrà la possibilità di essere valutato sulla base di un insieme di voci comuni a tutti gli altri individui appartenenti all’amministrazione». Di conseguenza «il dizionario delle competenze dovrà comprendere le voci riguardanti le competenze professionali, manageriali o organizzative a seconda che siano riferite al personale dirigente o non dirigente: tali tipologie di voci riguardano i contenuti del dizionario, mentre la loro effettiva classificazione può seguire raggruppamenti o sotto-raggruppamenti adatti alle caratteristiche dell’amministrazione».

[13] Il criterio della separazione tra politica e amministrazione si rinveniva già nella legge dell’8.6.1990 n. 142, la quale all’art. 51 comma 2, sanciva la distinzione tra politica e gestione precisando che, in base ad essa: «spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge o lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo dell’Ente».

[14] MASSIMO PERIN, Alcune brevi riflessioni sulla responsabilità degli organi politici, anche alla luce di quanto previsto dalla legge 7 agosto 2015, n. 124 (legge-delega di riforma della P.A.) in Lexitalia.it n. 8/2015, pag. http://www.lexitalia.it/a/2015/61123

[15] CORTE DEI CONTI, SEZ. GIUR. REGIONE LOMBARDIA – sentenza 4 agosto 2015 n. 142, SEZ. I GIUR. CENTRALE D’APPELLO – sentenza 4 febbraio 2015 n. 107.

 

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