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Il punto sulla spettanza dei diritti di rogito per i segretari ed i problemi di compatibilità costituzionale della norma

A. Scarsella (La Gazzetta degli Enti Locali 6/10/2016)

L’art. 10 del d.l. 90/2014, conv. con legge 144/2014, dopo aver abrogato la disposizione che attribuiva ai segretari comunali e provinciali, che rogavano predeterminati atti, una quota del provento, al comma 2-bis, precisa, tuttavia, che “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune […], è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento”. 

La norma ha dato adito a interpretazioni differenti sin dalla sua emanazione da parte delle sezioni regionali delle Corti dei conti, che hanno portato alla pronuncia sulla questione da parte della Sezione Autonomie (deliberazione n. 21/2015). La predetta interpretazione, obiettivamente molto discutibile, ha dato, a sua volta, il via a numerosi contenziosi dinanzi ai giudici del lavoro: di questi al momento tre sono giunti a decisione, tutti con esito favorevole ai segretari comunali.

Occorre, pertanto, fare il punto della vicenda, distinguendo alcune ipotesi, sulla base della fascia professionale a cui appartiene il segretario e delle caratteristiche organizzative dell’ente (esistenza o meno di dirigenti).

I segretari appartenenti alla fascia professionale “C”

Per tali segretari non sussiste alcun dubbio sulla spettanza dei diritti di rogito. La stessa Corte dei Conti, Sezione Autonomie (Del. 21/2015), ritiene che “alla luce della previsione di cui all’art. 10 comma 2 bis del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, i diritti di rogito competono ai soli segretari di fascia C. In difetto di specifica regolamentazione nell’ambito del CCNL di categoria successivo alla novella normativa i predetti proventi sono attribuiti integralmente ai segretari comunali, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell’esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del segretario”.

Pertanto, ai segretari appartenenti alla fascia professionale “C” spettano i diritti di rogito, a prescindere da ogni valutazione sulle caratteristiche organizzative dell’ente (esistenza o meno di dirigenti).

I segretari appartenenti alle fasce professionale “A” e “B” in enti privi di dirigenti

L’art. 10 del d.l. 90/2014, conv. con legge 144/2014, al comma 2-bis, secondo l’interpretazione della Corte dei conti, Sez Autonomie, prevede un’unica ipotesi legittimante la corresponsione dei diritti di rogito: l’appartenere il segretario alla fascia professionale “C”.

Tale interpretazione è stata da subito ritenuta non corretta, in quanto in contrasto sia con il tenore letterale della norma, che con i lavori parlamentari, dai quali emerge con chiarezza che il legislatore si riferisse alle predette due ipotesi legittimanti la corresponsione dei diritti di rogito (1). Secondo tale diversa interpretazione, la norma prevede e distingue due ipotesi legittimanti l’erogazione di una quota dei proventi dopo l’art. 10 del d.l. 90/2014.

La prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non ritiene rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il segretario preposto. Si tratta di segretari che operano nei comuni di classe IV, III, II ed anche nei comuni di classe IB, che hanno optato per una struttura organizzativa priva di figure con formale qualifica dirigenziale.

La seconda, quella dei segretari che non hanno qualifica dirigenziale, in cui è ancorata l’attribuzione di quota dei diritti di rogito allo status professionale del segretario preposto, prescindendo dalla classe demografica del Comune di assegnazione. La disposizione, pertanto, si riferisce ai segretari comunali appartenenti alla fascia C (operanti in comuni di classe IV) dell’attuale ordinamento professionale degli stessi, il cui trattamento tabellare stipendiale non è equiparato a quello tabellare del personale dirigenziale del comparto Regioni – Autonomie locali e che, per fascia professionale, non sarebbero equiparabili a personale con qualifica dirigenziale. 

Su tale seconda interpretazione si stanno orientando i giudici del lavoro, innanzi ai quali si sono rivolti i segretari comunali. Dopo le sentenze del Tribunale di Milano (n. 1539/2016 e 2561/2016), in data 3 ottobre 2016 è stata la volta del Tribunale di Busto Arsizio, dove il giudice del lavoro, con sentenza n. 307 ha ritenuto che la norma riconosce “ai segretari comunali privi di qualifica dirigenziale (ossia quelli posti in fascia C), il diritto ai benefici di cui all’art. 30 della legge n. 734/1973, ed estende tale emolumento anche ai segretari delle altre due fasce superiori (A e B), a condizione che nell’ente locale di appartenenza non vi siano dipendenti con qualifica di dirigenti”.

In altri termini, secondo il giudice del lavoro non ci sono dubbi che i segretari appartenenti alle fasce professionale “A” e “B” in enti privi di dirigenti hanno diritto a percepire i diritti di rogito (le difficoltà operative per gli enti sono state evidenziate nell’articolo di V. Giannotti intitolato Diritti di rogito: si consolida la posizione dei giudici ordinari, pubblicato sulla Gazzetta degli Enti Locali del 4 ottobre).

I segretari appartenenti alle fasce professionale “A” e “B” in enti con dirigenti: i dubbi di compatibilità costituzionale della norma

Per i segretari appartenenti alle fasce professionale “A” e “B” che prestano servizio in enti con dirigenti, la norma pare chiara nell’escludere il diritto a percepire i compensi per l’attività rogatoria. Tuttavia, per completezza occorre fare menzione delle forti perplessità in ordine alla costituzionalità della nuova disciplina introdotta dal d.l. 90/2014 in tema di diritti di rogito, perplessità che hanno portato alcuni segretari ad istaurare dei contenziosi al fine di sollevare la questione di costituzionalità.

I dubbi di compatibilità costituzionale riguardano non solo lo strumento del decreto legge utilizzato per l’innovazione normativa, ma anche il contenuto stesso della norma. In merito all’utilizzo dello strumento normativo prescelto, occorre ricordare come la Corte Costituzionale con sentenza n. 171/2007 abbia per la prima volta dichiarato incostituzionale una norma per vizi formali del decreto legge. La stessa Corte dal 1995 ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità, ma che tale controllo “non si sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto”. Ebbene con la sentenza 171/2007 la Corte ha dichiarato incostituzionale una norma ritenendola “intrusa”. Il giudizio di “intrusione” è derivato dal fatto che né il titolo del decreto, né il preambolo facevano intendere l’esistenza dei requisiti di necessità e d’urgenza. 

Se si analizza in tale ottica il d.l. 90/2014 si può notare che lo stesso è titolato “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” e che nel preambolo, in merito alle norme riguardanti la pubblica amministrazione, la straordinaria necessità e urgenza di emanare il decreto è tesa “a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti  pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti  pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”. A parere di chi scrive, l’art. 10 del D.l. 90/2014 potrebbe rientrare nella categoria di “norma intrusa” in un decreto legge, in quanto essa non può essere retta e giustificata dai presupposti che sorreggono, invece, il decreto. 

Conferme in tal senso giungono dall’Ordinanza del TAR Trento n. 138 del 10 marzo 2016, che ha sollevato la questione di costituzionalità, proprio per tali motivi, con riferimento all’art. 9 del d.l. 90/2014, norma con la quale la disciplina previgente in tema di compensi professionali corrisposti agli avvocati dipendenti delle amministrazioni pubbliche è stata riformata in termini ampiamente riduttivi. 

I dubbi in ordine alla conformità della norma alla Costituzione non sono esauriti dallo strumento utilizzato, ma riguardano il contenuto stesso dell’art. 10 del d.l. 90/2014. In tale ottica assume rilievo il fatto che nell’ordinamento esiste una norma analoga che disciplina i diritti di rogito dei segretari delle comunità montane e dei consorzi di comuni che non è stata minimamente incisa dal legislatore. Il riferimento è all’art. 8 della l. n. 93 del 23 marzo 1981, così come integrato dall’art. 7 del d.l. n. 359 del 31 agosto 1987, che prevede espressamente “Per il rogito degli atti e contratti di cui ai precedenti commi, alle comunità montane e ai consorzi di comuni spettano i diritti di segreteria nella misura del 90 per cento, mentre il rimanente 10 per cento viene versato in apposito fondo da costituire presso il Ministero dell’interno. Ai segretari roganti è attribuito il 75 per cento della quota spettante alla comunità montana e al consorzio di comuni, fino ad un massimo di un terzo della base presa in considerazione per i segretari comunali”. Non vi è chi non veda l’assoluta similitudine della norma riguardante i segretari delle comunità montane e dei consorzi di comuni che non è stata abrogata. Potrebbe, dunque, ritenersi che sussista una violazione del principio di eguaglianza in quanto l’abrogazione dei compensi relativi all’attività di rogito è riferita, in modo irragionevole ed arbitrario, solo ai segretari comunali. Peraltro, anche rispetto agli stessi segretari, la disposizione crea disparità tra coloro che svolgono una funzione che viene retribuita in modo aggiuntivo ed altri che la svolgono senza avere alcuna retribuzione aggiuntiva.

Anche in tal caso conferme giungono da un’ordinanza del TAR Molise, n. 161 del 25 marzo 2016, che ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 9 del Dl. 90/2014, anche con riferimento alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, proprio per la disparità di trattamento introdotta con la norma tra Avvocati dello Stato e gli avvocati delle altre Amministrazioni pubbliche.

Da ultimo, occorre ricordare che con una recente sentenza (n. 108/2016) la Corte Costituzionale abbia ritenuto garantito dall’art. 3 della Costituzione anche il principio dell’affidamento, “benché non espressamente menzionato in Costituzione, che trova tutela all’interno di tale precetto tutte le volte in cui la legge ordinaria muti le regole che disciplinano il rapporto tra le parti come consensualmente stipulato. È bene in proposito ricordare che, pur non potendosi escludere che il principio per cui il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 del codice civile) possa subire limitazioni da fonte esterna, e quindi non necessariamente consensuali, non è consentito che la fonte normativa sopravvenuta incida irragionevolmente su un diritto acquisito attraverso un contratto regolarmente stipulato secondo la disciplina al momento vigente”. Nel caso oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale, l’inserzione automatica di una clausola di legge nel tessuto contrattuale già consolidato “viene a stravolgere in modo sproporzionato alcuni elementi che caratterizzano in maniera pregnante il contratto in questione. Sotto tale profilo, è necessario sottolineare: a) l’incidenza retroattiva sui presupposti del consenso, in relazione alla cui formazione risulta determinante – per la parte privata – il fattore della retribuzione, in concreto azzerato dalla norma sopravveniente; b) la lesione della certezza dei rapporti giuridici, considerato l’affidamento del contraente su un rapporto negoziale di natura corrispettiva; c) la modifica unilaterale, per fatto del legislatore, degli effetti del contratto, in relazione ai quali si evidenzia la asimmetria tra il permanere immutato degli obblighi di servizio e l’affievolimento del diritto alla retribuzione delle mansioni superiori”.

Non rimane che augurarsi che i sopra descritti dubbi siano sottoposti quanto prima, nell’ambito di un giudizio incidentale, innanzi alla Corte Costituzionale.

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