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Come gli incarichi dirigenziali sono influenzati dalla politica

 
 
La grandissima parte degli incarichi dirigenziali, soprattutto quelli affidati a soggetti esterni ai ruoli e ancor più quelli dei vertici delle società e degli enti partecipati, non hanno nulla a che vedere con selezioni legate al merito e al curriculum. E’ solo la politica che orienta e determina le scelte, in barba a qualsiasi procedura selettiva, che si rivela regolarmente solo una facciata, una cortina fumogena per nascondere una decisione già adottata prima ancora di attivare la procedura “selettiva”. E, spesso, si cerca proprio di evitarla, questa procedura.
Il quotidiano “La Repubblica” del primo agosto 2017, nell’articolo “Mazzillo, Marra e il bando pilotato “II ragioniere deve venire da Brescia”” racconta in maniera molto fedele cosa accade quando occorre affidare un incarico dirigenziale.

Il quotidiano prende di mira, come molti e come sempre, l’amministrazione di Roma. Ma, il racconto, in effetti, è uno spaccato che riguarda la totalità dei comuni (e delle altre amministrazioni), che agiscono più o meno nello stesso modo, a partire dalla designazione dei segretari comunali.
Ciò a causa delle falle di leggi scombicchierate, che favoriscono platealmente lo spoil system, come nel caso dei segretari comunali; o che, pur predicando procedure pubbliche selettive o “interpelli” tra i dirigenti di ruolo, consente facilmente aggiramenti e trucchi.
Il sistema è semplicissimo, in fondo. I segretari comunali lo sperimentano da 20 anni esatti, da quando il loro status è stato riformato dalla sciagurata riforma Bassanini. In questo caso, la norma consente espressamente un legame strettissimo tra politica e segretario, il cui incarico scade automaticamente con la scadenza del mandato politico: ai sindaci basta sceglierne uno nuovo entro 60 giorni dall’insediamento, senza nemmeno dover spiegare perché al destinatario del benservito.
In quei 60 giorni, frotte di segretari si fanno vivi col nuovo primo cittadino o con assessori o altri soggetti vicini al vertice politico; si susseguono telefonate, incontri e riunioni; solo quando la scelta è compita, scatta la fiction: viene pubblicato un avviso “pubblico” per la copertura della sede vacante. E’ uno specchietto per le allodole: il designato esiste già. Tutte le altre domande di chi ingenuamente (o tanto per provarci lo stesso) si candida saranno cortesemente cestinate.
Per gli incarichi ai dirigenti, la cosa è un po’ più complessa, ma ci si arriva egualmente. L’articolo de La Repubblica consente di capire come. Il sindaco e/o un assessore vogliono giungere ad un certo risultato: nel caso raccontato, si voleva che il ragioniere generale fosse acquisito in “comando” da Brescia (alla fine, è arrivato un dirigente sì in comando, ma da Rimini).
Gli uffici, dovendo applicare leggi e regolamenti, intanto sono costretti a pubblicare un avviso pubblico: un “interpello”, rivolto ai dirigenti interni, per esaminare le loro candidature al ruolo.
Di solito l’avviso pubblico non piace molto alla politica, che vorrebbe arrivare spicciativamente ad esprimere il dirigente di proprio gradimento. Partono dunque le telefonate al segretario generale del comune e al direttore del personale per vedere se si può cancellare il bando già pubblicato, o almeno modificarlo eliminando la posizione del ragioniere.
Tra segretario generale e direttore del personale (il primo, come visto, soggetto ad un fortissimo spoil system che ne condiziona permanentemente l’attività; il secondo, nel caso di specie Raffaele Marra all’epoca ancora in servizio, incaricato “fiduciariamente” come risarcimento per la mancata nomina a capo di gabinetto) scattano i messaggi di whatsapp per vedere come fare ad accomntentare l’assessore che insistentemente ingerisce sulla procedura.
Il problema è che non si può cancellare un interpello o un nome dall’interpello. Troppo evidente l’illegittimità.
Ma, alla fine, non c’è problema: la soluzione esiste. La prefigurano il segretario ed il direttore del personale, dopo essersi rammaricati che la cancellazione dell’interpello “non si può fa’”. L’articolo riporta l’intercettazione; dice il Marra: “già gliel’ho detto che non si può fare, dovremmo attendere l’esito dell’interpello. Se all’esito nessuno si dovesse candidare o i candidati dovessero risultare non idonei per la struttura…”. Un assist per il segretario, che afferra al volo e “schiaccia”: “Vai all’esterno, eh”.
Per spiegare meglio: il suggerimento (o l’auspicio) consiste nel non considerare idoneo nessuno dei dirigenti di ruolo che rispondono all’interpello. Questo può giustificare il ricorso a dirigenti esterni, necessario per il “comando”, consistente in una temporanea assegnazione di un dipendente di un’amministrazione al servizio di un’altra amministrazione. Ma tale giustificazione, l’assenza di idonea professionalità, è necessaria anche se, invece del comando, si voglia utilizzare il cosiddetto “incarico a contratto”, previsto dagli articoli 110, comma 1, del d.lgs 267/2000 e 19, comma 6, del d.lgs 165/2001.
L’idea (o auspicio) è buona, funziona. Ribatte il direttore del personale al segretario generale: “se tu non vai a coprire… non vai a conferi’ l’incarico possiamo attiva’ il comando, altrimenti è complicata”.
Cosa è successo, alla fine? Anche i meno pronti avranno capito. Magicamente, nessuno, ma proprio nessuno, niente, zero, nisba, delle centinaia di dirigenti del comune di Roma era idoneo a svolgere la funzione di direzione della ragioneria generale. Una sventura: una Capitale così piena di dirigenti, ma, peccato, guarda il caso e la combinazione, tutti esperti dello scibile umano, ma non di conti.
Il Marra, in un’altra intercettazione col proprio vice, si sofferma su come l’assessore al bilancio, protagonista diretto delle pressioni per il comando da Brescia, deve agire per attivare detto comando: “Comunque lui deve fare semplicemente una cosa, arrivano le domande e dice: “no, questo non lo voglio perché…”. Anche il vice afferra al volo: “Non c’è nessuno adeguato”.
Infatti, racconta l’articolo, arriverà un dirigente in comando, non da Brescia ma da Rimini. Dirigenti interni capaci di fare il ragioniere, non ve n’erano.
Questo modo di gestire gli incarichi avrebbe trovato la sua sublimazione con la riforma Madia della dirigenza pubblica, tutta basata proprio su “interpelli pubblici” per raccogliere le candidature dei dirigenti iscritti nel ruolo unico e “selezionare” i più meritevoli. Il racconto di quanto accaduto a Roma (che è paradigmatico di quel che succede in ogni altro comune, ogni giorno) dimostra come quegli “interpelli” sarebbero stati gestiti. L’unico scopo concreto della riforma della dirigenza, saltata dopo la sentenza della Consulta 251/2016, sarebbe stato quello di legalizzare il modo di operare che, per ora, deve essere realizzato sotto traccia, per eludere norme che vorrebbero davvero connettere gli incarichi a selezioni basate sulla professionalità e non su discrezionalità politica.
Quel che accade esattamente con le scelte dei “manager” delle aziende. Sempre Roma è il paradigma, con quanto avvenuto all’Atac: un caso abbastanza grottesco, nel quale il direttore Rota si è molto doluto della fine burrascosa per decisioni politiche, come se fosse stato selezionato non per decisioni politiche.

 

In questi giorni tutti i quotidiani locali dei comuni nei quali i sindaci sono stati eletti di recente a seguito delle elezioni dello scorso giugno sono inondati di articoli relativi alle “nomine” negli enti e nelle società: mai che si connetta un incarico ad un curriculum, ad un’eccellenza particolare, ad un risultato operativo specifico. Tutto è legato sempre e solo al buon vecchio Cencelli. 
Poi, ci si stupisce se le società sono gestite non in modo imprenditoriale e vanno in perdita.
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