Punire i corrotti (ma più prevenzione)

Punire i corrotti (ma più prevenzione)

Ottime le misure annunciate dal premier. Tuttavia la repressione non basta se non si semplificano le norme e non si interviene sul rapporto patologico tra politica e amministrazione pubblica

di Sabino Cassese

 

Eccellenti le quattro misure annunciate dal presidente del Consiglio dei ministri (inasprimento delle pene, confisca dei beni, restituzione del maltolto, allungamento della prescrizione). Servono a sanzionare più duramente i colpevoli e a dissuadere futuri corruttori. Il presidente Renzi è, però, consapevole che vanno anche accompagnate da misure per prevenire la corruzione, per creare le condizioni istituzionali che la impediscano. Ha, infatti, detto che vuol «fare di tutto» per combattere il malaffare amministrativo, anche con altre norme e con l’educazione, senza fare sconti.

E allora, in attesa del processo (che sia sollecito) e considerando l’accusa, val la pena di riflettere sulle condizioni istituzionali che hanno consentito la corruzione romana: che cosa non funziona nelle amministrazioni e ha reso possibile un così esteso e multipartitico sistema corruttivo, che ha coinvolto la gestione dei campi profughi, l’assistenza agli immigrati, l’agenzia per le case popolari, la manutenzione delle piste ciclabili, la manutenzione delle aree verdi, i servizi di igiene urbana, la raccolta differenziata, gli interventi per il maltempo, la gestione delle gare, molti uffici amministrativi? Guardando al di là della cronaca, quali lezioni possono trarsi dalle accuse, che servano a prevenire ulteriori fenomeni di cattiva amministrazione e di criminalità?

Il decentramento porta con sé maggiore corruzione: questo risulta da tutti gli studi compiuti nel mondo sulla corruzione. In Italia abbiamo una eccessiva ramificazione, le frange periferiche di un siste ma di poteri pubblici troppo estesi. Perché — ad esempio — la gestione dell’immigrazione, che è problema nazionale (anzi, europeo), è affidata ad enti locali? Poi, si è fatto troppo ricorso a privati, cooperative e società per azioni. Le amministrazioni locali non fanno, fanno fare ad altri. In queste periferie del potere, dotate di cospicue risorse, senza adeguati controlli, si annidano sprechi e corruzione. Sappiamo che le amministrazioni locali italiane si avvalgono di circa 8 mila società per azioni. Non sappiamo quante siano le cooperative su cui gli enti locali fanno affidamento.

Il terzo fattore è quello dei sistemi derogatori, con cui si aggirano le regole sugli appalti. In particolare, a Roma, specialmente dal 2008, con la solita motivazione che le procedure sono arcaiche e farraginose («da sbloccare», nel linguaggio di uno degli indagati), si sono creati percorsi paralleli, meno garantiti e meno controllati.

A questi si aggiunge un ulteriore incentivo alla corruzione: troppi posti amministrativi sono coperti da persone scelte senza concorso, non per il loro merito, ma per «meriti politici ». Costoro non si sono guadagnati il posto con le loro forze, ma l’hanno avuto grazie ad appoggi di partito o di fazione. Quando chiamati, debbono «contraccambiare» il favore reso loro da quel sottobosco di vassalli che si nasconde sotto il manto della buona politica. C’è, infine, un legame perverso partiti-amministrazione, come si legge nelle parole di un altro indagato («la cooperativa campa di politica»). Organi rappresentativi, come il consiglio comunale, che dovrebbero essere di indirizzo e di controllo, invece fanno gestione.

Abbiamo bisogno di istituzioni perché gli uomini non sono angeli, diceva uno dei «padri fondatori» americani. Nel mondo molle dell’amministrazione romana, con tanti corpi ibridi, né pubblici, né privati, ma che operano con risorse pubbliche, non vi sono regole, ma deroghe; non procedure, ma scorciatoie; non veri funzionari pubblici, ma uomini assoldati dalle fazioni. I diavoli, quindi, hanno avuto la meglio.

10 dicembre 2014 | 10:01

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