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2 La Settimana degli enti locali | 9.9.2014

Blocco dei contratti, una vicenda grottesca

Luigi Oliveri

Abbiamo assistito in questi giorni alla vicenda paradossale e grottesca delle polemiche sorte a seguito dell’annuncio del Governo del prolungamento fino al 2015 del blocco dei rinnovi contrattuali nel lavoro pubblico.

Una situazione davvero tra il pirandelliano ed il kafkiano, nella quale il gioco delle parti è intricato e confuso, come dalla sapiente mano di un autore che vuole stupire.

Eppure, le cose a ben vedere sono estremamente semplici: i soldi per il rinnovo dei contratti del lavoro pubblico non ci sono.

La spesa pubblica ammonta nel 2014 a circa 812 miliardi. La spesa per il personale pubblico è di circa 162 miliardi, pari a circa il 19,95%. Si tratta dell’unica voce di spesa pubblica che nel corso di quest’ultimo lustro ha ripiegato: si era, infatti, impennata oltre i 170 miliardi, al termine della stagione decennale della totale contrattualizzazione del lavoro. I C.c.n.l. sottoscritti tra il 1999 e il 2009 avevano (non da soli) causato un incremento della spesa per lavoro pubblico di 40 miliardi, facendoli passare da circa 130 miliardi a circa 170.

Il ripiegamento degli oneri relativi al personale delle amministrazioni pubblico è divenuto particolarmente evidente a partire dal 2011, quando sono entrati a regime gli effetti di due scelte. Una prima, risalente già agli anni 2003-2004, quando si attivarono seriamente i primi blocchi al turnover, che oggi hanno determinato un calo di circa 400.000 dipendenti e di circa 10 miliardi. Una seconda misura, direttamente incidente sul costo del lavoro pubblico, è quella proprio del congelamento dei contratti pubblici, attivata col d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, per effetto della quale l’ultimo incremento contrattuale è stato quello del 2009. Morale: col 2015 saranno 6 anni di contrattazione bloccata nel comparto del lavoro pubblico.

In ogni caso, nessuno, tra chi abbia capacità critica e conoscenza anche minima delle risorse finanziarie statali e dell’entità della crisi, aveva creduto al Ministro Madia, quando nei mesi scorsi aveva negato che il blocco dei contratti dei dipendenti pubblici si sarebbe prolungato al 2015. Né aveva molta credibilità l’impegno assunto dal Ministro di rimuovere il blocco. Le parole e gli articoli di giornale erano, infatti, in frontale contrasto col documento di economia e finanza (Def) elaborato proprio dal Governo Renzi, che in merito parla chiarissimo: il blocco, conti alla mano, è destinato a durare fino al 2020.

Ciò nonostante, ancora una volta il Governo aveva negato l’evidenza, in particolare in periodo elettorale, affermando che invece i rinnovi contrattuali ci sarebbero stati.

Ma i nodi vengono inesorabilmente al pettine. E, dunque, casca il velo. Il blocco nel 2015 ci sarà. E anche se negheranno il suo prolungarsi oltre, si può star certi che arriverà esattamente fino al 2020, a meno di improvvise impennate del Pil e miracolose diminuzioni del debito pubblico.

Le ragioni sono più che evidenti: semplicemente, non vi sono i soldi per garantire rinnovi contrattuali che costerebbero da qui al 2020 5-6 miliardi.

Abbiamo detto sopra che la spesa per il personale pubblico è l’unica, da 5 anni a questa parte, a diminuire; ma questo decremento avviene in un quadro di progressivo costante incremento della spesa pubblica e, soprattutto, del debito pubblico, che crea anche un costante incremento o insufficiente decrescita degli interessi sul debito.

In pochissime parole: la virtuosa diminuzione del costo del personale pubblico non è sufficiente a garantire la necessaria ulteriore riduzione complessiva della spesa e degli interessi sul debito.

Se il Governo intende, come tutto sommato è logico, dedicare le pochissime risorse a disposizione a qualche opera pubblica e un minimo di sostegno a redditi sempre più magri e all’economia, deve scegliere come erogare poca spesa. Diciamo circa 20 miliardi. La metà circa è destinata a finanziare il bonus Irpef; per tutto il resto, rimane ben poco. È facilmente intuibile che il rinnovo dei contratti pubblici, di già escluso dal Def, non abbia spazi.

Le pochissime risorse disponibili vanno dedicate ad altro. I dipendenti pubblici che guadagnano meno di 28.000 euro l’anno per altro possono giovarsi del bonus degli 80 euro che, se confermato, nel 2015 si rivelerà essere quel che in effetti è anche nel 2014: 56 euro. Nulla di più. La situazione evidenzia un altro dato di realtà, che si scontra con gli annunci e i proclami che hanno accompagnato la riforma p.a., promossa sempre dal Ministro Madia: non vi potrà essere alcuna seria “staffetta generazionale”. Soltanto se il turnover resta ferreamente contenuto come fin qui, il trend discendente della spesa di personale può continuare.

Le aperture alle nuove assunzioni contenute nel d.l. 90/2014 convertito in legge 114/2014 semplicemente sono insostenibili.

Presto verranno ristrette nuovamente le maglie, perché si deve giungere e urgentemente sotto la soglia dei 3 milioni di  dipendenti e dei 160 miliardi di spesa.

L’alternativa è un’ondata di centinaia di migliaia di licenziamenti, che destabilizzerebbe, però, la spesa per ammortizzatori sociali, trattamento di fine servizio e pensioni, checché ne dicano superficiali e facilone analisi di economisti-demagoghi.

Oppure, per velocizzare, tagli secchi lineari agli stipendi, come anni fa in Spagna.

Ma, il blocco degli stipendi, combinato con quello delle assunzioni, ha garantito nel medio periodo risultati equivalenti, se non migliori. Per questo, si ribadisce, a far perfettamente fede è il Def che non consente i rinnovi contrattuali per altri 5

anni. Non si può che prenderne atto ed evitare di fare proclami ingannevoli.

Il grottesco e i problemi sono creati quasi ad arte dall’“annuncite”. Poiché questa è la situazione, probabilmente il messaggio che dovrebbe dare il Governo dovrebbe essere tutto un altro: non negare l’evidenza indicata col Def, per poi smentire e, peraltro, considerare come “ricatto” eventuali iniziative di sciopero o, comunque, malumori di parte del comparto pubblico.

Basterebbe chiamare a responsabilità i lavoratori pubblici e ricordare loro che sono al servizio della Nazione e che tale servizio può ricomprendere, in questa fase, anche un sacrificio economico, finalizzato al risanamento dei conti, in attesa di tempi migliori, richiamando anche l’attenzione sulla circostanza che altri datori di lavoro privati hanno dovuto ridurre gli stipendi, o utilizzare la cassa integrazione o licenziare.

Nulla, in effetti, escluderebbe, con una sapiente e corretta attività normativa che specifici rinnovi si dedichino a limitati

comparti. Quello della sicurezza merita tutta l’attenzione e la considerazione e sembra ulteriormente paradossale e grottesco che il Governo possa attivare una sorta di “braccio di ferro” proprio con chi lavora e rischia la vita per la legalità e la sicurezza di noi tutti.

Altrettanto assurdo, in questa fase, sembra il voler condizionare il “dialogo” con le forze di pubblica sicurezza che rivendicano incrementi contrattuali, alla riorganizzazione ed accorpamenti delle forze di polizia. Sono due argomenti totalmente indipendenti l’uno dall’altro. I singoli poliziotti, carabinieri e tutori della legge chiedono un giusto incremento economico per stipendi certamente molto bassi in relazione al valore che producono ed ai rischi che corrono. La riorganizzazione dipende esattamente dal Governo, che non può scaricare sui lavoratori proprie inerzia e ignavia.

Si vaneggia, dunque, di “dimagrire” la polizia e già circolano stime secondo cui dall’accorpamento delle 5 forze di polizia deriverebbero 2 miliardi di euro e passa di risparmi. Sembra di rivedere gli stessi apprendisti stregoni che sparavano cifre mirabolanti, totalmente irreali ed inesistenti, come beneficio derivante dalla riforma delle province. I fatti hanno dimostrato che la riforma delle province non produce alcun risparmio e porta solo al caos. Altrettanto avverrebbe con certezza da una riforma improvvisata, pasticciata ed affrettata del comparto sicurezza.

D’altra parte, parlare di “dimagrimento” della polizia o, comunque, lesinare risorse alle forze dell’ordine, ragionando per “costi”, come si trattasse di un’azienda, rasenta davvero l’imprudenza. Si dimentica che le forze dell’ordine debbono “competere” con organizzazioni criminali che possono contare, invece, su risorse e mezzi illimitati.

I 2 miliardi di inesistenti risparmi da accorpamenti delle forze di polizia, che tra l’altro, anche fossero reperibili emergerebbero solo dopo anni, potrebbero trovarsi dall’oggi al domani in maniera estremamente più semplice, se davvero la spending review fosse una cosa seria e davvero si volessero tagliare le spese che per i cittadini non servono assolutamente a nulla. Basterebbe vietare dall’oggi al domani qualsiasi consulenza e qualsiasi assunzione senza concorso di dirigenti a tempo determinato chiamati per amicizia politica, risolvere i loro contratti e di punto in bianco, proprio dall’aggregato della spesa per il personale, si ricaverebbero circa 2 miliardi, utili, eventualmente, anche per rinnovi contrattuali mirati.

Ai cittadini l’esistenza di uffici di diretta collaborazione dei Ministri o dei sindaci, degli staff, dei dirigenti chiamati senza concorso, non comporta alcun beneficio; non risolve la crisi, non crea per loro lavoro, non facilita l’attività d’impresa. È una spesa, questa per consulenze e dirigenza a contratto, totalmente improduttiva, puro costo della cattiva politica. Che però “stranamente” non viene toccato. Anzi. Ricordiamo sempre che la riforma della p.a. attivata dal Ministro Madia consente ai sindaci di assumere negli “staff” personale che, pur non laureato, venga remunerato come dirigenti e che triplica il numero dei dirigenti politicizzati a chiamata.

Insomma, l’esatto opposto di quello che una spending review davvero utile e seria consiglierebbe di fare.

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