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La Consulta dichiara incostituzionale la mancata previsione, per i Comuni con meno di 5.000 abitanti, dell’esclusione della lista elettorale che non presenti candidati di entrambi i sessi: la presenza di candidati di entrambi i sessi nelle liste elettorali comunali, infatti, costituisce una garanzia minima delle pari opportunità di accesso alle cariche elettive.

 

Sommario: 1. Introduzione 2. L’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della Terza Sezione del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. III, ord. 4294/2021) 2.1 La vicenda 2.2 Le questioni di diritto 2.3 Il vulnus di costituzionalità rilevato dal Consiglio di Stato. 2.4 Argomenti a sostegno della non manifesta infondatezza 2.5 La Terza Sezione del Consiglio di Stato esprime dubbi sulla tenuta costituzionale della legislazione in materia di parità di genere in ambito elettorale 3. Il giudizio davanti alla Corte Costituzionale: parti processuali, costituzione e intervento in giudizio 4. La sentenza della Corte Costituzionale n. 62/2022

 

  1. Introduzione

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 62/2022, ha onorato e affermato, con fermezza, il principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, comma 2, della Costituzione, con riferimento alla normativa nazionale in materia elettorale.

Il giudizio di legittimità costituzionale ha avuto ad oggetto l’art. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e l’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali).

Il giudizio è stato promosso dal Consiglio di Stato, Sezione Terza, con ordinanza del 4 giugno 2021, n. 4294 e in questa vicenda la Corte Costituzionale ha avuto occasione di tornare sul tema della diseguaglianza di genere, che ancora, sotto i più disparati profili, interessa (e infetta) la normativa italiana: sono ancora molti gli ambiti in cui i diritti delle donne non sono riconosciuti, a parità di condizioni, tanto quanto quelli degli uomini.

Il caso di specie ha portato l’esempio di una normativa di tal fatta, ancora presente nel nostro sistema, almeno fino alla pubblicazione della sentenza n. 62/2022 della Corte Costituzionale, avvenuta lo scorso 10 marzo.

Ed, invero, la Costituzione consacra taluni importanti principi, fra cui quello di uguaglianza sostanziale, all’art. 3 c.2, ma nonostante sia entrata in vigore quasi 75 anni fa, si è ancora lontani da un reale e concreto conseguimento dell’uguaglianza di genere. Perché non resti soltanto un principio espresso sulla carta della Costituzione e delle leggi attuative, ma divenga tessuto pregnante di ogni realtà socio-giuridica e riguardi ciascuna attività umana, occorre l’impegno fattivo del legislatore e, in sua assenza, si coglie, in tutta pienezza, l’importanza di ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale, come quella della Terza Sezione del Consiglio di Stato.

La rappresentanza politica, in particolare, assieme ai diritti in materia di lavoro, è una delle realtà ove maggiormente si avverte l’esigenza di attualizzare il momento egalitario di genere, perché le donne siano destinatarie di stessi diritti e spettanze degli uomini.

Vediamo, allora, con ordine e nel dettaglio, i vari passaggi che hanno condotto a questa importantissima pronuncia della Consulta.

 

  1. L’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della Terza Sezione del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. III, ord. 4294/2021[1])

2.1 La vicenda

La vicenda da cui il Consiglio di Stato trova occasione rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità riguarda una competizione elettorale alla quale erano state presentate due sole liste.

Con il ricorso di primo grado, i ricorrenti, elettori e componenti di una lista elettorale hanno lamentato l’illegittima ammissione da parte della Sottocommissione elettorale, della lista avversaria, per la riscontrata assenza, nella lista, della componente femminile (cd. “quota rosa”) prescritta, secondo la loro prospettazione, dall’art. 71, comma 3 bis, D.Lgs. n. 267/2000, a pena della ricusazione della lista, in applicazione dell’art. 30, lettera e), D.P.R. n. 570/60: il loro reclamo era stato respinto dalla commissione suddetta, nominata per vagliare la regolarità della presentazione delle liste, sull’assunto che sarebbe mancata, nella normativa elettorale, una esplicita comminatoria di esclusione in caso di violazione del principio relativo alla parità di genere per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti.

Per l’effetto della mancata ricusazione della lista violativa delle quote rosa, i ricorrenti hanno rilevato che il risultato elettorale sarebbe stato alterato in loro danno.

A seguito della proclamazione degli eletti e della convalida intervenuta con delibera del Consiglio comunale, gli appellanti avevano proposto ricorso dinanzi al TAR affinché venisse accertata l’illegittimità dell’operato amministrativo e, contestualmente, venissero rettificati i risultati elettorali.

Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, pur riconoscendo “aspetti di assoluta novità dell’oggetto” ha respinto il ricorso ritenendo che l’art. 2 comma 1, lettera c) numero 1) della L. 215/2012, con il quale sono state apportate modifiche al D.lgs. 267/2000 ed al DPR 570/1960, pur prevedendo un controllo e un diretto intervento delle Commissioni elettorali circondariali al fine di garantire la rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste dei candidati con specifico riguardo ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, non prevede misure sanzionatorie a carico delle liste che non assicurino la rappresentanza di entrambi i sessi.

La stessa sentenza ha escluso la possibilità di ricorrere ad un’interpretazione analogica delle disposizioni previste per i comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, ritenendo la normativa elettorale non soggetta a tale opzione ermeneutica.

Avverso tale sentenza, i ricorrenti soccombenti hanno proposto appello, lamentando che il Giudice di prime cure avrebbe errato nel respingere il ricorso, in quanto l’intento perseguito dal legislatore con la legge n. 215/2012 sarebbe quello di garantire la ferma ed inderogabile presenza in lista di entrambi i sessi, così come sancito a chiare lettere nella prima parte dell’art. 71, co. 3 bis, T.U.E.L., come modificato dall’art. 2, comma 1, della suddetta legge.

Tale prescrizione, per gli appellanti, troverebbe completa attuazione nella lettera e) dell’art. 30 del D.P.R. n. 570/1960, anch’essa introdotta dalla riforma del 2012, laddove la violazione dell’art.71, co. 3 bis cit. viene sanzionata con la ricusazione della lista.

 

2.2 Le questioni di diritto

La Terza Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto sussistere i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza per rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 71 co 3 bis D. Lvo 267/2000 nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, nonché dell’art. 30 lett. d) bis e lett. e) DPR 570/60, nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai Comuni con meno di 5.000 abitanti. E ciò in quanto tali norme risultano in contrasto con gli artt. 51, 3, 117 comma 1 (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12) della Costituzione.

Il Collegio rileva che la vicenda di cui si discute trae origine da una competizione elettorale riferibile ad un Comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e che la Corte Costituzionale, sul punto, ha costantemente affermato che “l’applicabilità della disposizione al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza della questione” (Corte Cost. sent. n. 174/2016[2]) e che “il nesso di pregiudizialità tra il giudizio principale e il giudizio costituzionale implica che la norma censurata debba necessariamente essere applicata nel primo e che l’eventuale illegittimità della stessa incida sul procedimento principale” (così Corte Cost n. 91/2013[3]).

Secondo il Consiglio di Stato, dall’applicabilità necessaria dell’art. 71 co 3 bis D. Lvo 267/2000 al caso di specie derivano conseguenze specifiche e immediate in capo agli appellanti.

Invero, la tenuta costituzionale delle disposizioni censurate – e, quindi, mancato obbligo di rappresentatività di entrambi i generi nelle liste elettorali in Comuni con meno di 5.000 abitanti e contestuale assenza di meccanismi sanzionatori e deterrenti contro la violazione del principio della parità di genere – produrrebbe un effetto preclusivo di rigetto della pretesa. Il Collegio dovrebbe limitarsi a rigettare l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

Al contrario, sostiene la Terza Sezione, qualora le disposizioni fossero ritenute dalla Corte Costituzionale in contrasto con la Costituzione la pronuncia determinerebbe l’esclusione della lista violatrice del principio di uguaglianza di genere ed il conseguente annullamento del risultato elettorale e la proclamazione degli appellanti quali consiglieri comunali eletti.

 

2.3 Il vulnus di costituzionalità rilevato dal Consiglio di Stato

Il Collegio, con l’ordinanza in esame, ha rilevato un potenziale vulnus di costituzionalità rispetto ai parametri di cui agli artt. 3, 51, 117 comma 1 (quest’ultimo in riferimento all’art 14 CEDU e all’art 3 Prot add. 12 CEDU) della Costituzione: preliminarmente, ha ritienuto di dovere valutare se sia percorribile un’operazione ermeneutica costituzionalmente orientata, a maggior ragione se si considera la ratio che ha spinto il legislatore ad intervenire nella suddetta materia, di garantire il riequilibrio nella partecipazione attiva alla vita politica, rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la “pienezza del diritto di elettorato passivo”, questione più volte affrontata dalla Corte Costituzionale, da ultimo, nella sentenza n. 48/21[4].

L’ art. 71, co 3 bis, TU enti locali prevede che “Nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Nelle medesime liste, nei Comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all’unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi”.

Allora, si afferma che nonostante l’incipit – “nelle liste è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi” – sembrerebbe porre un obbligo generalizzato valido a prescindere dal dato empirico relativo al numero degli abitanti del Comune; la seconda parte della disposizione non risponde al canone di generalità e prescrive che è solo nei Comuni con popolazione compresa tra i 5.000 e i 15.000 abitanti che “nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi”. Questo troverebbe conferma, sotto il profilo sistematico nell’art. 30 lett. d bis e lett e) DPR 570/60, della cui tenuta costituzionale pure si discute, che predispone misure sanzionatorie riferite unicamente ai Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti.

Anche all’art 71, co. 5, TUEL il legislatore ha predisposto una ulteriore misura di contrasto al disequilibrio, quello della “doppia preferenza” ma solo ed esclusivamente nei Comuni con popolazione tra 5.000 e 15.000.

Tali considerazioni, per il Collegio impediscono di aderire alla ricostruzione esegetica che sostiene la tenuta costituzionale delle norme censurate. Infatti, secondo il Consiglio di Stato, i caratteri propri del procedimento elettorale e la natura sanzionatoria della misura di riequilibrio prevista, con diverse modalità legate al numero degli abitanti, per la violazione delle norme a tutela della parità di genere non consentono un’interpretazione analogica delle fattispecie. Il legislatore, pur dopo avere espressamente previsto l’obbligo di assicurare la parità di genere nelle elezioni di qualsiasi Comune, ha chiaramente e volutamente omesso di disciplinare le conseguenze della violazione di tale obbligo nei Comuni più piccoli.

Si rileva che, con un’estensione analogica della normativa prevista per i Comuni più grandi, il giudice amministrativo sconfinerebbe i limiti del potere giurisdizionale.

Il Collegio rileva anche che ad una interpretazione compatibile con il dettato costituzionale non si potrebbe giungere neanche attraverso l’eventuale disapplicazione della normativa de qua per contrasto con l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rubricata “parità tra donne e uomini”, a mente del quale “La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”.

Ed, infatti, per il Consiglio di Stato, la norma non presenterebbe efficacia immediata e diretta, rimettendo al legislatore nazionale la scelta dei migliori strumenti per l’affermazione del principio di parità e mancherebbero le condizioni che consentono al giudice di disapplicare la norma interna per contrasto con il diritto comunitario.

Il Collegio conclude quindi, che la questione di legittimità, come sollevata, è rilevante e non risolvibile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata del dettato normativo.

 

2.4 Argomenti a sostegno della non manifesta infondatezza

Per il Consiglio di Stato, l’art. 51 Cost., la cui natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica è ormai indubbia, impone alla Repubblica – e non ad un singolo potere dello Stato – la predisposizione di misure idonee a colmare le disuguaglianze nella partecipazione politica.

Ed invero, la questione della parità di genere rispetto all’accesso alle cariche politiche ha generato un ampio e vivace dibattito in seno all’Assemblea Costituente.

Il Collegio ricorda che furono predisposte due versioni della disposizione di cui all’art. 51, entrambe con l’intento comune di riconoscere una piena capacità giuridica di diritto pubblico alla donna, sì da rimuovere gli ostacoli che impedivano (e impediscono) l’accesso a tutti gli ambiti della vita pubblica del Paese a condizioni di parità con gli uomini.

Il Collegio, quindi, alla luce di queste argomentazioni, conclude per ritenere la non manifesta infondatezza della questione.

 

2.5 La Terza Sezione del Consiglio di Stato esprime dubbi sulla tenuta costituzionale della legislazione in materia di parità di genere in ambito elettorale

Il Collegio osserva che la positivizzazione di questo interesse di parità di genere in ambito elettorale costituzionalmente protetto dall’art. 51 coinvolge indistintamente tutti i livelli (nazionale, locale e sovrannazionale) con strumenti differenti, ma comunque efficaci: la sola eccezione allo sforzo di garantire l’effettività della parità è rappresentata dalle elezioni comunali in cui persiste una differenziazione su base numerica.

Si nota che la tutela della parità di genere “cede” in contesti di modeste dimensioni, nonostante questi rappresentino dei centri propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese.

Ancora, il Consiglio di Stato evidenzia come la mancanza di ragionevolezza e la gravità delle conseguenze di questa previsione normativa che lascia senza tutela le operazioni elettorali dei piccoli Comuni possa essere ancor meglio compresa valutando il tessuto demografico del nostro Paese: più dei due terzi dei Comuni contano meno di 5000 abitanti e la somma della popolazione residente in questi piccoli comuni è pari a quasi 10 milioni di abitanti.

Allora, i dubbi di costituzionalità delle disposizioni censurate sono sorti anche e soprattutto in considerazione di questo dato empirico.

Il Consiglio di Stato osserva, poi, che la diversità di trattamento non può trovare la propria giustificazione nella presunta difficoltà di individuare materialmente donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni: infatti, non c’è obbligo di candidare persone residenti nel Comune, come emerge dal combinato disposto degli artt. 55, 56 e 57 D.Lvo 267/2000 e la carenza demografica può eventualmente determinare difficoltà nel predisporre delle liste individuando candidati a prescindere dal genere.

Inoltre, si nota che la mancata prescrizione di liste miste anche nei Comuni con meno di 5.000 abitanti rende di fatto inapplicabile l’art 6 D.Lvo 267/2000, che prescrive che: “Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”, operazione impossibile se a monte non c’è la garanzia della necessaria presenza di entrambi i generi.

Per il Consiglio di Stato, la questione di cui si discute non è relativa alla scelta di articolare discipline diverse che tengono conto delle dimensioni dei Comuni, ma al non avere dato concretezza al principio di parità di genere, pur espressamente sancito dalla legge, nei Comuni fino a 5.000 abitanti e avere così garantito impunità a chi, nelle competizioni elettorali che si svolgono in tali enti, intende violarlo.

Ancora, il Collegio sostiene che analoghe riflessioni merita la censura avente per oggetto l’art. 117 comma primo, in riferimento all’art 14 della CEDU, art 1 Protocollo Addizionale n. 12.

Infatti, l’art. 14 della CEDU dispone che: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.».

L’art. 1 Prot. Add. n. 12 CEDU relativo al divieto generale di discriminazione prevede che “Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l‘origine nazionale o sociale, l‘appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione.

Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al paragrafo 1”.

E la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha costantemente sostenuto che per discriminazione si intende il fatto di trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovano in situazioni comparabili: una distinzione è discriminatoria quando «manchi di una giustificazione oggettiva e ragionevole», «quando non persegua un fine legittimo» ovvero qualora, comunque, non sussista «un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine perseguito» (ex multis, sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, § 58; sentenza Willis c. Regno Unito, § 48[5]).

La Terza Sezione del Consiglio di Stato rimettente non ravvisa la presenza di elementi idonei a giustificare una disparità di trattamento tra i Comuni con più o meno di 5.000 abitanti.

 

  1. Il giudizio davanti alla Corte Costituzionale: parti processuali, costituzione e intervento in giudizio

Nel giudizio promosso davanti alla Corte Costituzionale, gli appellanti nel processo principale si sono costituiti, chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate dalla Terza Sezione.

Successivamente, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, sostenendo l’inammissibilità e, in subordine, la non fondatezza delle questioni: l’inammissibilità, per il fatto che il rimettente chiede alla Corte di introdurre con sentenza una “sanzione” che può essere prevista solo dalla legge. Per l’Avvocatura, l’intervento non potrebbe comunque avere efficacia retroattiva e di conseguenza non sarebbe applicabile nel giudizio a quo.

Inoltre, secondo l’interveniente, le questioni non sarebbero comunque fondate, in quanto la scelta di non prevedere, nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, quote di candidati di uno dei due generi, né sanzioni in caso di mancato rispetto della rappresentanza di entrambi i sessi tra i candidati, costituirebbe il risultato della precisa volontà del legislatore, desumibile dai lavori preparatori, di tenere conto della difficoltà di garantire tale rappresentanza nei Comuni più piccoli.

In definitiva, secondo l’Avvocatura, le questioni sollevate sarebbero astratte e la loro soluzione implicherebbe un sindacato inammissibilmente invasivo della discrezionalità del legislatore.

 

  1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 62/2022[6]

Le conclusioni dell’ordinanza di rimessione della Terza Sezione del Consiglio di Stato mettevano in evidenza che la controversia in esame non poteva essere definita indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale venute in rilievo e che il giudizio doveva essere sospeso, così dichiarandosi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, dell’art. 71 co 3 bis D. Lvo 267/2000, in relazione agli artt. 51 primo comma, 3 secondo comma, 117 primo comma Cost. in riferimento all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12, nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, nonché dell’art. 30 lett. d) bis e lett. e) DPR 570/60 nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai Comuni con meno di 5.000 abitanti per contrasto con agli artt. 51 primo comma, 3 secondo comma, 117 primo comma Cost. in riferimento all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12.

La Corte Costituzionale, prima di esaminare le questioni, descrive il quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.

La legge n. 215 del 2012 – diretta a promuovere il riequilibrio di genere nei Consigli e nelle Giunte degli Enti locali e nei Consigli regionali – investe la disciplina delle elezioni dei Consigli comunali, cui è dedicato il suo art. 2, commi 1, lettere c) e d), e 2, lettere a) e b).

Il legislatore ha utilizzato la tecnica della novellazione del TUEL e del d.P.R. n. 570 del 1960, incidendo, in particolare, sulle disposizioni: artt. 71 e 73 TUEL, sulle elezioni nei Comuni con popolazione rispettivamente sino a 15.000 abitanti e superiore a 15.000 abitanti; artt. 30 e 33 del d.P.R. n. 570 del 1960, sulla presentazione delle candidature nei Comuni con popolazione rispettivamente sino a 10.000 abitanti e superiore a 10.000 abitanti.

La Consulta osserva che il mancato coordinamento tra i citati testi legislativi determina un’implicita modifica dell’ambito applicativo degli artt. 30 e 33 del d.P.R. n. 570 del 1960. Nella versione novellata, queste disposizioni contengono infatti rinvii agli artt. 71 e 73 TUEL (relativi ai Comuni con popolazione rispettivamente sino a 15.000 e superiore a 15.000 abitanti), pur rimanendo inserite nella disciplina relativa ai Comuni con popolazione rispettivamente sino a 10.000 e superiore a 10.000 abitanti (sezioni II e III del capo IV del titolo II del d.P.R. n. 570 del 1960).

Si rileva che il sistema è disegnato graduando i vincoli – e le sanzioni per la loro violazione – a seconda delle dimensioni dei Comuni, in modo tale che il rigore delle regole si attenui con il diminuire del numero di abitanti del Comune, in ragione di tre fasce di Comuni, quelli con più di 15.000 abitanti, quelli con popolazione fra 5.000 e 15.000 e quelli con meno di 5.000 abitanti.

Si osserva che i meccanismi attraverso cui viene promossa la parità di genere nell’accesso alle cariche elettive comunali sono, oltre all’obbligo generale di assicurare la rappresentanza di entrambi i sessi, la doppia preferenza di genere e la quota di lista.

La doppia preferenza di genere è prevista per i Comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti e per quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti (rispettivamente art. 71, comma 5, e art. 73, comma 3, TUEL, come novellato nel 2012). In questi Comuni l’elettore può esprimere fino a due preferenze, ma esse devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda.

Per gli stessi Comuni è inoltre previsto il vincolo della quota di lista (rispettivamente art. 71, comma 3-bis, secondo periodo, e art. 73, comma 1, ultimo periodo, TUEL novellato), in base al quale nessuno dei due sessi può essere rappresentato nelle liste di candidati in misura superiore a due terzi, con arrotondamento all’unità superiore qualora il sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi.

La Corte prosegue, evidenziamdo che il rispetto di questo secondo vincolo è presidiato nel d.P.R. n. 570 del 1960, anch’esso come da ultimo novellato dalla legge n. 215 del 2012, ove si prevede che la Commissione elettorale chiamata a verificare liste e candidature riduca le liste cancellando, a partire dall’ultimo, i nominativi dei candidati eccedenti la quota di due terzi per il genere di appartenenza, sino a ripristinare detta quota (art. 30, primo comma, lettera d-bis, per i Comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, e art. 33, primo comma, lettera d-bis per quelli con popolazione superiore).

Dunque, si nota che le conseguenze dell’intervento di riduzione variano a seconda della dimensione del Comune, qualora, all’esito della cancellazione delle candidature eccedenti, la lista presenti un numero di candidati inferiore a quello minimo prescritto per l’ammissione alle elezioni (pari, rispettivamente, ai tre quarti e ai due terzi dei consiglieri da eleggere, in base agli artt. 71, comma 3, e 73, comma 1, TUEL). Nel caso dei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, è stabilito che la Commissione elettorale ricusi la lista (art. 33, primo comma, lettera d-bis del d.P.R. n. 570 del 1960), mentre nei Comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti «[l]a riduzione della lista non puo`, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima» (art. 30, primo comma, lettera d-bis d.P.R. n. 570 del 1960).

Ne risulta, dunque, una garanzia della pari opportunità nell’accesso alla carica di Consigliere comunale nei Comuni più grandi, con più di 15.000 abitanti, per i quali opera il rimedio estremo della ricusazione della lista non rispettosa delle quote; mentre è meno forte nei Comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, per i quali la violazione del vincolo della quota è sanzionata con la cancellazione dei nominativi eccedenti, ma senza che possa essere violata la soglia del numero minimo dei candidati e senza che dunque la lista possa essere esclusa per questo dalla competizione elettorale.

Ancora, si evidenzia che per i Comuni con meno di 5.000 abitanti non è prevista né la doppia preferenza di genere, né la quota di lista, sicché per essi l’unica norma di promozione del riequilibrio risulta essere quella generale, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi», contenuta nell’art. 71, comma 3-bis, primo periodo, TUEL (introdotta dall’art. 2, comma 1, lettera c, numero 1, della legge n. 215 del 2012), che la rubrica della disposizione («Elezione del sindaco e del Consiglio comunale nei Comuni sino a 15.000 abitanti»), consente di riferire senz’altro a tutti i Comuni, e quindi anche ai più piccoli. Conclude, quindi, la Corte, che a presidio di tale obbligo non è tuttavia prevista alcuna sanzione, a differenza di quanto avviene, invece, per gli altri due meccanismi di promozione della parità di accesso alle cariche.

Dunque, alla luce del descritto quadro normativo, secondo la Corte Costituzionale, occorre soffermarsi sull’interpretazione delle disposizioni censurate offerta dal rimettente, del primo periodo dell’art. 71, comma 3-bis, TUEL, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi», nella parte in cui non sarebbe riferibile a detti Comuni e dell’art. 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960 nella parte in cui, sempre per questi stessi Comuni, non colpiscono con il rimedio dell’esclusione le liste che non rispettano le regole sulla rappresentanza.

Per la Consulta, la prima non può che essere interpretata, alla luce della sua lettera e della stessa rubrica dell’articolo cui pertiene («Elezione del sindaco e del Consiglio comunale nei Comuni sino a 15.000 abitanti»), nel senso di operare per tutti i Comuni con meno di 15.000 abitanti, e quindi anche per quelli con popolazione inferiore a 5.000, per i quali, dunque, si devono ritenere non ammesse liste di candidati appartenenti a un solo sesso. Il fatto che la seconda parte della disposizione prescriva la riserva di quota solo per i Comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti non preclude tale conclusione, come non la preclude l’assenza di un rimedio per il mancato rispetto della necessaria rappresentanza di genere.

La Consulta osserva che tale soluzione interpretativa non è esclusa nemmeno dall’ordinanza di rimessione, che lamenta il carattere di mera affermazione di principio del vincolo della necessaria presenza di candidati di entrambi i sessi, e della mancanza di una misura, anche minima, idonea ad assicurarne l’effettività.

Secondo la Corte, le censure così ricostruite si devono ritenere riferite al combinato disposto degli artt. 71, comma 3-bis, TUEL e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. n. 570 del 1960, nella parte in cui non è prevista l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

La Corte Costituzionale ritiene indiscutibile che la normativa in esame non preveda sanzioni per l’inosservanza del vincolo della necessaria rappresentanza dei due sessi nelle liste presentate nei Comuni con meno di 5.000 abitanti. Dalla sua lettura risulta, anzi, che la violazione di tale vincolo non è assistita da sanzioni specifiche nemmeno per gli altri Comuni, quelli cioè con più di 5.000 abitanti, per i quali i rimedi previsti sono quelli che riguardano la violazione della regola sulla seconda preferenza – di cui è previsto l’annullamento se assegnata a un candidato dello stesso sesso della prima – e quelli che colpiscono il mancato rispetto della riserva di quota – consistenti nella riduzione delle liste (art. 30, primo comma lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960), nonché, per i Comuni più grandi, nell’ulteriore misura dell’esclusione della lista quando la riduzione comporti la violazione della soglia minima di candidati (art. 33, primo comma, lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Né, per la Corte, soccorre, ai fini che interessano, l’art. 30, primo comma, lettera e), del d.P.R. n. 570 del 1960, che, nel testo modificato dall’art. 2 comma 2, lettera a), numero 2), della legge n. 215 del 2012, contiene un richiamo all’art. 71, comma 3-bis, TUEL: esso è destinato solo a regolare l’ipotesi della presentazione di liste eccedenti il numero massimo consentito (pari al numero dei consiglieri comunali da eleggere: art. 71, comma 3, TUEL). Si osserva che per queste è prevista la riduzione sino al ripristino del numero massimo in modo che sia assicurato anche il rispetto della quota di genere, con implicito ma inequivoco riferimento ai Comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti.

Ed, invero, si osserva che anche per questi ultimi Comuni si può dubitare dell’effettività della misura scelta dal legislatore per promuovere il riequilibrio della rappresentanza di genere: non solo il mancato rispetto della quota non comporta l’esclusione della lista, ma nemmeno il meccanismo della riduzione, nei limiti fissati dall’art. 30, primo comma, lettera d-bis), del d.P.R. n. 570 del 1960, elide il rischio di possibili soluzioni interamente elusive. Per la Corte, l’impossibilità di ricusare la lista, se la sua riduzione determinasse «un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima», consentirebbe di presentare liste “minimali” con candidati di un solo sesso, facendo coincidere il numero massimo dei candidati di un sesso con il numero minimo dei candidati in lista.

Si evidenzia che l’unico rimedio effettivo nel caso di liste di candidati di un solo sesso è quello riservato ai Comuni con più di 15.000 abitanti, per i quali è stabilita la ricusazione (e dunque l’esclusione) delle liste che,

a seguito della riduzione per inosservanza delle quote, scendano al di sotto del numero minimo di candidati (art. 33, primo comma, lettera d-bis, del d.P.R. n. 570 del 1960), ipotesi che comprende anche quella “limite”, in cui l’impossibilità di rispettare la quota sia dovuta al fatto che la lista è formata da candidati di un solo sesso.

La Corte Costituzionale, dunque, respinge le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Secondo l’Avvocatura le questioni sarebbero inammissibili in quanto con esse si chiede di introdurre con sentenza una sanzione che solo la legge è autorizzata a disciplinare, ma, in realtà, il rimedio dell’esclusione della lista dalla competizione elettorale, che il Consiglio di Stato rimettente chiede venga introdotto a garanzia dell’effettiva rappresentanza nella lista di entrambi i sessi nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, non può essere configurato altrimenti che come conseguenza della mancanza di un requisito di ammissibilità della lista. E la  Corte considera altresì che la qualificazione della misura, come lato sensu “sanzionatoria” del mancato rispetto di una prescrizione posta a pena di ammissibilità, ha un significato affatto diverso da quello che ha con riferimento alle sanzioni penali o comunque di natura punitiva in senso stretto, cui si riferiscono le garanzie dell’art. 25, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2019, n. 223 e n. 121 del 2018) e alla cui categoria la misura in esame non può essere ricondotta.

La Corte Costituzionale, poi, procede ad un’analisi del merito, sostenendo che le censure sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost. possono essere trattate insieme, risolvendosi in una unitaria censura di violazione dell’obbligo costituzionale di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive, nonché di irragionevolezza e di non proporzionalità della scelta espressa nelle disposizioni denunciate.

Si ricorda che il Consiglio di Stato rimettente lamenta, in sintesi, che le disposizioni censurate, non prevedendo una sanzione per la violazione del vincolo della necessaria rappresentanza dei due sessi nelle liste elettorali nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, si porrebbero in contrasto con la ratio della normativa che le contiene, che è quella di promuovere l’effettiva parità di genere nell’accesso alle cariche elettive comunali in attuazione di quanto prescritto dall’art. 51, primo comma, Cost.: le norme stesse violerebbero, dunque, anche il principio di uguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3 c.2 Cost., di cui la prima è espressione per quanto attiene all’accesso alle cariche elettive.

La Corte Costituzionale afferma che le questioni sollevate dalla Terza Sezione del Cosiglio di Stato sono fondate.

A sostegno di questa affermazione, la Consulta ricorda che per costante giurisprudenza della Stessa, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella disciplina della materia elettorale: la scelta legislativa è censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole e l’azione del legislatore può assumere forme diverse.

La Corte rileva come così sia, in concreto, nella normativa statale e regionale emanata a tale fine, che impiega strumenti vari e differenziati, quali, ad esempio, il divieto di liste composte da candidati di un solo sesso; il rispetto di quote di lista variamente congegnate; la previsione di regole di garanzia nelle preferenze. Inoltre, le prescrizioni sono accompagnate da strumenti a loro volta vari, a presidio dell’effettività delle diverse misure, quali: l’esclusione o ricusazione della lista, in taluni casi preceduta dall’invito rivolto ai proponenti di rivederla entro un termine determinato; l’invalidità della preferenza non rispettosa del vincolo di genere; misure pecuniarie sanzionatorie delle violazioni per le liste che non si conformino alle prescrizioni.

Per la Corte, anche la stessa scelta, operata nella normativa in esame, di un sistema di misure di promozione della parità di accesso alle cariche elettive nei Comuni graduato in ragione delle dimensioni di questi ultimi costituisce espressione di questa discrezionalità.

Tuttavia, per la Corte Costituzionale, la pur ampia discrezionalità del legislatore in materia deve attenersi ai limiti generali del rispetto dei canoni di non manifesta irragionevolezza e di necessaria coerenza rispetto alle finalità perseguite, cui si deve aggiungere lo specifico limite costituito dall’obbligo di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», al fine di garantire a tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità di accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (art. 51, primo comma, Cost.).

Per la Consulta, una disciplina elettorale che omettesse di contemplare adeguate misure di promozione, o che ne escludesse l’applicazione a determinate competizioni elettorali o a determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta lesiva del principio di uguaglianza sostanziale.

Si aggiunge, inoltre, che la normativa in esame non esclude i Comuni più piccoli dall’obbligo della presenza nelle liste elettorali di candidati di entrambi i sessi, quale misura minima di «non discriminazione».

La Corte ricorda essersi già espressa in questo senso nella sentenza n. 49 del 2003 – resa su una disposizione regionale che imponeva, nelle liste per l’elezione del Consiglio regionale, la presenza di candidati di entrambi i sessi a pena di invalidità delle liste medesime – quando affermò che «Le “condizioni di parità” fra i sessi, che la norma costituzionale richiede di promuovere, sono imposte nella misura minima di una non discriminazione, ai fini della candidatura, a sfavore dei cittadini di uno dei due sessi».

La Corte, comunque, evidenzia che nella normativa oggetto del giudizio a quo, la stessa pur minimale misura di promozione non risulta assistita da alcun rimedio per il caso di violazione dell’obbligo e ciò rende la misura stessa del tutto ineffettiva nella protezione dell’interesse che mira a garantire e, in quanto tale, inadeguata a corrispondere al vincolo costituzionale dell’art. 51, primo comma, Cost.

E la violazione, ad opera delle disposizioni censurate, del vincolo discendente dall’art. 51, primo comma, Cost., per la Corte, non può essere superata nemmeno facendo leva sulla necessità di contemperare l’obiettivo della promozione delle pari opportunità nella vicenda elettorale con altri interessi costituzionalmente rilevanti, quale in particolare quello della rappresentatività.

Ancora, la Corte osserva come le disposizioni contestate risultino tanto più censurabili, se si considera la loro palese incoerenza con la ratio della legge n. 215 del 2012, che le ha introdotte al dichiarato fine di «promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli regionali», come recita il suo titolo.

La Corte Costituzionale conclude che sussiste la violazione degli artt. 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost., sotto tutti i profili prospettati dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato rimettente.

Riscontrato il vulnus, la Corte esamina l’ammissibilità dell’intervento richiesto dallo stesso rimettente per porvi rimedio e afferma essere costituzionalmente adeguato e, pertanto meritevole di essere accolto, citando la copiosa giurisprudenza della stessa Corte, sul punto, che ha affermato che «la “ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore” […]. In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso “precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” […]» (sentenza n. 63 del 2021; nello stesso senso, da ultimo, sentenza n. 28 del 2022).

In definitiva, la Corte sottolinea che la sanzione dell’esclusione della lista in caso di violazione delle condizioni prescritte dalla legge per la sua ammissibilità è già presente nella normativa in esame: si tratta del rimedio che – diretto a sanzionare in via generale l’ipotesi in cui la cancellazione dei candidati eccedenti la quota di legge comporti la violazione della soglia minima di candidati prescritta per l’ammissibilità della lista – colpisce, nei Comuni con più di 15.000 abitanti, la stessa violazione alla quale si intende estenderlo, ossia il caso estremo della lista formata da candidati di un solo sesso. Inoltre, la medesima sanzione ricorre anche nella disciplina della presentazione delle liste nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, essendo prevista anche per essi, nel caso di liste con un numero di candidati inferiore al minimo prescritto (art. 30, primo comma, lettera e, del d.P.R. n. 570 del 1960).

Inoltre, viene rilevato che da un punto di vista più generale, la soluzione prospettata si inserisce nel tessuto

normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore: essa non altera il complessivo sistema delle misure di promozione delineato dalla legge n. 215 del 2012, che conserva comunque il carattere di gradualità in ragione della dimensione dei Comuni, e conserva per quelli piccoli il solo obbligo della rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste, limitandosi a garantirne l’effettività con l’introduzione di una sanzione per il caso di sua violazione.

La Consulta ricorda, poi, che rimane ferma la possibilità per il legislatore di individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione, purché rispettosa dei principi costituzionali, nonché dell’armonizzazione del sistema, anche considerando il caso dei Comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, nei quali la riduzione della lista non può andare oltre il numero minimo di candidati prescritto.

Viene, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.

 

[1] in www.giustizia-amministrativa.it

[2] In www.cortecostituzionale.it

[3] In www.cortecostituzionale.it

[4] in www.cortecostituzionale.it

[5] CEDU, sentenza 7 gennaio 2014, ric. 77/07 Cusan e Fazzo c. Italia, § 58, in www.giustizia.it; sentenza  11 giugno 2002, ric. 36042/1997 Willis c. Regno Unito, in www. giustizia.it

[6] in www.cortecostituzionale.it

 

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