Print Friendly, PDF & Email

È inutile ripetersi che le organizzazioni sono luoghi necessari, ma complessi. E che la complessità deriva proprio dall’insieme delle visioni personali che si concentrano sullo stesso luogo partendo da presupposti diversi e orientate verso finalità diverse. Ed è per questa ragione che ogni sistema si considera “organizzato” quando pone regole e limiti all’arbitrio.

Ma le regole non possono coprire tutti gli ambiti delle relazioni, né possono essere vigilate in continuazione. Peraltro ciò sarebbe esageratamente costoso e avrebbe come conseguenza la deresponsabilizzazione e la diffusione di un clima inaccettabile e rigoroso fino alla stupidità.

Il “governo dei comportamenti”

Chi dirige si trova ad affrontare la questione del “governo dei comportamenti” sapendo bene che, se vuole utilizzare al meglio le potenzialità individuali dovrà consentire spazi di autonomia, ma che se lascerà senza presidio questi spazi potrebbe correre il rischio di perdere il controllo del sistema e di fare prevalere l’individualismo.

Siamo alle solite: organizzare “risorse” è più facile che organizzare “persone”. E serve a poco cambiare nome alle persone chiamandole “risorse umane” perché rivela sia l’incapacità di cogliere il valore esclusivo di ciascuno, sia quella di non saperle organizzare, pretendendo così di “collocarle”, come se fossero oggetti.

Ma le persone, pur se non sono passive come gli oggetti, non per questo sono pericolose. Certamente hanno la caratteristica di portare con sé un bagaglio di pensieri, percezioni, progetti, emozioni, ecc., ma tutte avvertono il bisogno di essere accolte e di dare significato alla propria azione.

Dirigere è complesso proprio perché non può limitarsi al posizionamento fisico, ma deve cogliere tutti i segnali che determinano il clima organizzativo e orientarli verso le finalità aziendali o istituzionali. Ma come fare?

Il falimento dei processi finalizzati all’affermazione della leadership

Non sono pochi quelli che promuovono l’attivazione di processi finalizzati all’affermazione della leadership, con lo scopo di rafforzare la persona al comando, rassicurandola rispetto alle spinte personalistiche. Ma si tratta di un metodo fallimentare, promosso da chi ha solo studiato organizzazione aziendale, senza averne mai diretta una, che rivela un grave problema molto diffuso: la pretesa di puntare sull’affermazione personale, piuttosto che sulla promozione dell’organizzazione.

Dunque il capo è colui (o colei) che sa imporsi, che non chiede mai, che non appare debole, che si manifesta sicuro, che non concede spazi, che non ha ripensamenti e che sempre le idee chiare su dove si deve andare.

Pensate che noia profonda trovarsi in un’organizzazione con un capo così o peggio, che ritenga di dovere essere così. Ci troveremmo di fronte a un simil-robot con la pretesa di robottizzare tutto il sistema in modo da disinnescare eventuali spinte emotive.

Queste scuole di pensiero nascono, oltre che dalla mancanza di esperienza, dalla errata percezione della componente umana delle organizzazioni, vista solo come “forza lavoro” e raramente come “essere pensante”. Nella convinzione che sia utile per ogni organizzazione ridurre drasticamente il numero delle persone da ascoltare perché “con troppi galli a cantare non si fa mai giorno” o come diceva Cornelio Nepote “Non potest beni geri respublica multorum imperio” (lo stato non si può governare bene se molti hanno il potere).

La visione solitaria del “comando”

Ma queste affermazioni sono conseguenza diretta di una visione solitaria del “comando” che ha bisogno di rafforzare la figura del capo, inteso come soggetto singolo e lontano dalla contaminazione della “umanità” che possa provenire dagli altri.

Il capo, dunque, inteso come soggetto forte e deciso che, in ogni circostanza gioca di carattere. quindi ha un’idea su ogni questione e deve affermarla senza cedere di un millimetro, vincendo ogni contesa e considerando “vittoria personale” la prevalenza sugli altri.

Ma c’è qualcosa che non viene preso nella giusta considerazione: il capo non deve affermare “sé”, ma i valori organizzativi. Dunque non deve intendere la direzione come una continua affermazione delle proprie idee o delle proprie posizioni, in contrapposizione con gli altri, ma deve (e qui si gioca la professionalità) creare un metodo di lavoro, condividerlo e promuoverlo.

Chi dirige usando tecniche di leadership rivela solo la limitatezza della propria visione organizzativa. Altrettanto chi pensa di doversi imporre costantemente, anche ingaggiando battaglie infinite che danneggiano il clima organizzativo, dimostra solo di non stimarsi abbastanza e di avere bisogno di conferme.

Individuazione delle prassi utili e funzionali per la gestione delle “aree comuni”

Un’organizzazione si dirige attraverso lo strumento del “metodo” che consiste nella individuazione delle prassi utili e funzionali per la gestione delle “aree comuni”: il tempo di lavoro, le relazioni, le decisioni e le risorse collettive.

Un buon capo è colui (o colei) il quale (o la quale) sposta l’attenzione dalla sua persona alle regole organizzative. Se c’è un compito, infatti, che distingue il capo è proprio quello di definire le “regole di ingaggio” del sistema organizzativo. Certamente dovrà farlo ascoltando gli attori del contesto e verificandone costantemente la funzionalità.

 

 

 

la sua credibilità dipenderà non dalla forza del carattere o dalla vittoria nelle contese, ma nel presidio e nell’affermazione delle regole condivise o meglio delle prassi da seguire.

Perché è su questo che si aprono le più aspre contese tra i soggetti all’interno di una organizzazione: chi fa che cosa, in che modo, con quali tempi.

È questo l’ambito privilegiato che definisce chi sa dirigere e chi non è capace, quindi gioca di carattere.

 

Torna in alto