22/06/2022 – L’amministrazione della proprietà pubblica tra obblighi di valorizzazione ed esigenze di garanzia. (Breve commento all’art. 26, comma 2, lett. f), della L.R. Campania n. 31/2021).

La scarsezza di risorse pubbliche, indotta dalle pressanti logiche comunitarie di bilancio, ha determinato l’acquisizione del patrimonio immobiliare pubblico alla finanza.

Ne è uscita una radicale riconversione del modello di gestione della proprietà pubblica, sia dal punto di vista soggettivo, dell’organizzazione, sia dal punto di vista oggettivo, dell’amministrazione in senso stretto.

Nell’intento del Legislatore vi era e continua ad esservi l’esigenza di trasformare il consistente patrimonio immobiliare pubblico da capitolo di spesa – spesso infruttuosa ed incontrollata – in una solida voce di entrata.

In sintesi, da bene destinato naturaliter alla pubblica fruizione il patrimonio immobiliare pubblico è divenuto sempre più strumento di correzione dei conti pubblici.

Anzi, possiamo ragionevolmente sostenere che probabilmente si è premuto troppo sull’acceleratore dell’efficientamento, fino al punto da mettere in crisi perfino la regola dell’inalienabilità dei beni pubblici in senso stretto (bendi demaniali e beni del patrimonio indisponibile).

Non senza problemi di legittimità costituzionale.

Quando l’art. 42 della Costituzione diche che “la proprietà è pubblica o privata”, presuppone la necessarietà ordinamentale della regola della inalienabilità.

Senza l’inalienabilità a fungere da barriera spartiacque tra la proprietà pubblica ed il diritto di proprietà inteso in senso dinamico come diritto a divenire proprietari, la proprietà pubblica sarebbe destinata inesorabilmente alla privatizzazione.

Non avrebbe senso a quel punto continuare a ripetere in Costituzione che “la proprietà è pubblica o privata”.

Ma, soprattutto, l’assimilazione della proprietà pubblica alla proprietà privata mortificherebbe la stessa funzione di pubblico interesse cui sono preordinati i beni pubblici.

Se la proprietà privata è una proprietà diritto, infatti, la proprietà pubblica resta nell’ottica della Costituzione una proprietà funzione.

Ebbene, dal punto di vista del modello organizzativo gestionale, al fine di accrescere gli standards di rendimento del patrimonio immobiliare pubblico, è stato approvato il d. lgs. n. 85/2010, di attuazione del federalismo demaniale.

Trasferire i beni pubblici agli enti locali dovrebbe far decollare i processi di valorizzazione.

L’ente locale di riferimento, quello più vicino al bene, è di certo più interessato al suo sfruttamento economico rispetto allo Stato centrale.

Ma già in questo caso la normativa di settore ha evidenziato notevoli profili di criticità in relazione alla regola dell’inalienabilità.

All’art. 4, comma 1, del testo normativo in esame si legge che il bene trasferito entra ope legis, di diritto, a far parte del patrimonio disponibile dell’ente, con tutto ciò che ne consegue in termini di libera disponibilità.

Il mantenimento del regime demaniale e patrimoniale indisponibile resta una facoltà, ancorata al ricorrere di non meglio precisati presupposti giuridici.

C’è, dunque, il rischio concreto che nel trasferire i beni in sede locale si possa entrare in conflitto con lo statuto giuridico della proprietà pubblica delineato in sede codicistica, aprendo alla privatizzazione di beni ontologicamente destinati alla pubblica fruizione.

Dal punto di vista oggettivo, dell’amministrazione in senso stretto, invece, è stata l’apertura alle funzioni di valorizzazione del bene pubblico a stravolgere l’originario modello di gestione.

L’acquisizione del patrimonio alla finanza, in funzione correttiva dei conti pubblici, trova la sua massima espressione nella l. n. 410/2001 in tema di cartolarizzazione dei beni pubblici.

Non vi sono, in quella sede, limiti espressi alla cartolarizzazione.

Tutto, potenzialmente, resta cartolarizzabile.

Anzi, nel tipizzare un decreto di trasferimento alla società veicolo che “produce” il passaggio dell’immobile al patrimonio disponibile, sembra quasi ammettersi alla cartolarizzazione beni che di tale patrimonio non fanno parte.

Ma la norma va letta in senso costituzionalmente orientato.

Per esigenze di garanzia della collettività.

Il risanamento dei conti pubblici non può attuarsi mediante una privatizzazione selvaggia dei beni dello Stato e, quindi, della collettività.

Bisogna riconoscere, allora, al ridetto decreto di trasferimento un’efficacia non costitutiva della depubblicizzazione ma meramente dichiarativa.

Resta cartolarizzabile, in altri termini, solo ciò che in via di fatto, sul piano dell’effettività giuridica, ha già perso le ragioni della sua pubblica rilevanza.

Tutto ciò anche in linea con il regime codicistico dei beni pubblici in senso stretto, che, come detto, ha una ben precisa copertura costituzionale.

Il problema si ripropone nei medesimi termini con l’approvazione della l. n. 289/2002, con la quale si estende alle Regioni ed agli enti locali la possibilità di cartolarizzare i beni di proprietà.

In questo caso, però, i profili di criticità si moltiplicano.

Il primo problema deriva dalle conseguenze dell’inserimento del bene pubblico nel presupposto piano per le alienazioni immobiliari; inserimento che, per espressa previsione normativa, anche in questo caso, produce di diritto il passaggio dell’immobile al patrimonio disponibile.

Ritorna, quindi, l’esigenza di una lettura costituzionalmente orientata, che salvaguardi la tipicità funzionale della proprietà pubblica e che sia capace di impedire la svendita indiscriminata del patrimonio immobiliare pubblico, attraverso una restrizione a monte dei beni da includere nel piano di settore.

Non solo.

Per la dimensione locale il problema diviene anche di natura squisitamente urbanistica.

Nell’originaria versione della legge in esame (art. 58), si prevedeva che la delibera consiliare di approvazione del piano delle alienazioni immobiliari potesse, con efficacia di variante urbanistica, modificare la destinazione d’uso del singolo immobile.

La semplificazione procedimentale della variante finalizzata alla modifica della destinazione d’uso era orientata ad accrescere i margini di guadagno della potenziale, futura alienazione.

Essa sollevava, però, non poche perplessità sotto il profilo della necessità di garantire la dotazione di standards urbanistici prescritta dalla legge.

La quantità di spazi pubblici o riservati alle attività collettive da individuare cambia a seconda della destinazione funzionale dell’insediamento di volta in volta considerato.

Il sistema ordinario a doppia battuta previsto per l’approvazione delle varianti urbanistiche avrebbe rappresentato una garanzia in tal senso, alla luce del potere sostitutivo intestato all’ente competente all’approvazione.

Ma con la sentenza n. 340/2009 la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità del ridetto art. 58, nella parte in cui imponeva una normativa semplificatoria di dettaglio in una materia riservata alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni e, conseguentemente, azzerava gli spazi di azione del Legislatore regionale.

Alla luce di questa pronuncia appare distonico l’art. 26, comma 2, lett. f), della L.R. Campania n. 31/2021.

Andiamo per gradi.

La norma in commento sostanzialmente stabilisce che non occorre una preventiva variante urbanistica per gli interventi di ristrutturazione edilizia – anche per demoriscostruzione ed anche se con aumento di volumetria – con cambio di destinazione d’uso degli immobili pubblici.

A parte l’anomalia del regime differenziato tra proprietà pubblica e proprietà privata, il Legislatore regionale si è sostanzialmente espresso per l’irrilevanza urbanistica del cambio di destinazione d’uso degli immobili pubblici.

Il tutto, sfruttando la clausola di salvaguardia di cui all’art. 23 ter del D.P.R. n. 380/2001.

Tale ultima previsione normativa, infatti, nel precisare che il cambio di destinazione d’uso tra diverse categorie funzionali è sempre urbanisticamente rilevante, fa salva la possibilità di diverse previsioni da parte del Legislatore nazionale.

Ma è proprio la riaffermata irrilevanza urbanistica a sollevare non poche perplessità.

L’esclusione del procedimento di variante urbanistica per qualsiasi tipo di cambio di destinazione d’uso di edifici pubblici rischia di agevolare elusioni e violazioni della normativa in materia di standards urbanistici.

Il reperimento degli standards non è condizione di rilascio del titolo edilizio ma è obbligo del pianificatore.

Tanto ciò è vero che il relativo inadempimento giustifica l’intervento sostitutivo d’ufficio da parte dell’ente competente all’approvazione.

Se viene meno il procedimento urbanistico, allora, viene meno la garanzia del rispetto degli standards urbanistici minimi prescritti dalla legge.

Sarebbe stato di certo preferibile recepire le linee tracciate dalla Consulta ed introdurre in sede di legislazione regionale quanto meno una procedura di variante semplificata per il cambio di destinazione d’uso degli immobili pubblici da alienare e ristrutturare.

E non solo per ragioni procedimentali.

La differenza sarebbe stata sostanziale.

Mantenere il cambio di destinazione d’uso nell’orbita della pianificazione urbanistica avrebbe obbligato l’amministrazione procedente a reperire, contestualmente, anche in sede di variante semplificata eventualmente, gli standards urbanistici strumentali e consequenziali alla nuova destinazione.

La questione non si pone tanto per i cambi di destinazione d’uso riduttivi in termini di standards.

Il più comprende il meno.

Il problema si pone, piuttosto, per i cambi di destinazione d’uso accrescitivi sotto quest’aspetto.

La procedura di variante semplificata, allora, in questi casi, avrebbe assicurato il pieno rispetto della normativa di settore, dal momento che, com’è noto, il reperimento degli standards rappresenta un preciso vincolo inderogabile alla discrezionalità del pianificatore.

Anche perché la normativa statale in materia di standards urbanistici rientra nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e ricade nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ragione per cui non può essere derogata né dalla P.A. né dal Legislatore regionale.

Non ci si può esimere, tuttavia, dal ricordare che al fine di garantire massimamente il rispetto della dotazione di standards imposta dalla legge, già la stessa procedura di variante semplificata introdotta dal citato art. 58 della l. n. 289/2002 avrebbe potuto creare qualche disfunzione.

Solo il procedimento a doppia battuta previsto per le varianti ordinarie, infatti, come detto, garantisce che, in caso di mancato rispetto della normativa in materia di standards urbanistici, l’ente competente all’approvazione del piano debba introdurre d’ufficio tutte le modifiche necessarie alla relativa osservanza.

Una procedura di variante semplificata, invece, avrebbe fatto venir meno questa ulteriore garanzia.

Restano a questo punto poche considerazioni, di carattere edilizio.

Non sorprende l’assimilazione di interventi edilizi con aumento di volumetria alla categoria tipologica della ristrutturazione edilizia.

Nel nostro sistema normativo, infatti, esistono due tipologie di ristrutturazione edilizia.

L’articolo in esame, per quanto d’interesse, si ricollega in modo del tutto legittimo alla tipologia della ristrutturazione edilizia “pesante” di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.

Tra l’altro, va precisato che, per così come novellato dall’art. 10, comma 1, lett. b), della l. n. 120/2020, oramai anche la ristrutturazione edilizia cosiddetta “leggera” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001 consente, seppure eccezionalmente, di realizzare incrementi volumetrici.

Ma se la ristrutturazione edilizia avviene per demoricostruzione su di un’area o su di un immobile vincolato ai sensi del d. lgs. n. 42/2004 il discorso cambia.

Fuori dall’ambito di applicazione dei suddetti vincoli, la demoricostruzione non sarà soggetta ai limiti di sagoma, prospetti, sedime e volume dell’immobile demolito.

In tal senso siamo in linea con l’attuale formulazione del citato art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001.

Ma se l’immobile o l’area di incidenza sono vincolati ai sensi del d. lgs. n. 42/2004, allora l’aumento volumetrico previsto dalla legge regionale in esame dovrà ritenersi inibito.

Parimenti nella ricostruzione dovranno essere rispettati i vincoli di sagoma, di sedime e di prospetti delle preesistenze.

Se interpretata diversamente, infatti, la norma si porrebbe in insanabile contrasto col citato art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001, che resta inderogabile norma di principio.

In conclusione, si ha la sensazione che la norma in commento confermi il trend legislativo dell’ultimo decennio.

Almeno sotto l’aspetto urbanistico.

La liberalizzazione del cambio di destinazione degli immobili pubblici, perseguita tramite una depianificazione assoluta, risponde ad una logica di valorizzazione, funzionale alla correzione dei conti pubblici.

Ancora una volta, però, le esigenze di valorizzazione rischiano di risolversi in danno di interessi pubblici di altrettanta, se non prevalente, importanza, come quelli sottesi al rispetto della normativa in materia di standards urbanistici.

Siamo, insomma, all’eterno dualismo tra efficienza e legalità.

Più si iniettano nel tessuto normativo parametri di efficienza, più entrano in crisi i presidi di legalità.

È accaduto a livello procedimentale e sta accadendo a livello sostanziale.

Diviene evidente, allora, l’esigenza che l’efficientamento dell’azione amministrativa trovi un limite invalicabile nei valori e nei principi costituzionalmente garantiti.

 

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto