14/06/2022- I piani di risanamento delle società pubbliche: un’occasione da sfruttare.

Le operazioni di finanza pubblica sulle partecipate costituiscono strumento di risoluzione delle criticità gestionali cui gli enti locali ricorrono con sempre maggiore frequenza.

Per definire le operazioni di finanziamento può essere utile, per agevolarne la comprensione, un approccio sistematico sul tema, allo scopo di chiarirne natura, funzioni ed ammissibilità.

Con il termine “finanziamento”, in ambito giuridico (artt. 2467 e 2497-quinquies, c.c.), si indicano le prestazioni di capitale di credito o debito (connesse a contratti di mutuo ovvero ad altre forme di prestito), distinte rispetto alle operazioni eseguite mediante l’impiego di capitale di rischio.

La linea di demarcazione assegna una diversa posizione giuridica riconosciuta alle parti nel complesso del rapporto intercorso: i finanziamenti consentono all’erogante, in forza del generale principio di fruttuosità del denaro ex art. 1813 c.c., di pretenderne il rimborso maggiorato di interessi al tasso pattuito (ove previsto). Al contrario, il conferimento di capitale di rischio consente di ottenerne la restituzione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione[1]. Naturalmente, la linea di separazione fra le due diverse fattispecie viene tracciata sulla base dell’esame del contratto stipulato tra le parti ed in forza della conseguente apposizione in bilancio della relativa posta, donde sia possibile risalire all’effettiva volontà delle parti[2]. Deve, quindi, aderirsi alla tesi della giurisprudenza di legittimità secondo cui “In ipotesi di rinuncia al credito da parte di un socio si verifica una prestazione che porta ad aumentare il patrimonio della società e potenzialmente l’aumento del valore delle quote sociali della società medesima; ricorrendo tale fattispecie pare corretto ritenere che tale rinuncia sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale[3]. Di conseguenza, può affermarsi che la rinuncia al credito da parte del socio possa essere considerata quale vero e proprio finanziamento ed, alla luce del contesto, quale rinuncia finalizzata alla patrimonializzazione della partecipata debitrice, con un effetto novativo del rapporto sottostante. Per quanto attiene alla sua forma, la giurisprudenza di legittimità ne ha riconosciuto una manifestazione anche tacita, poiché “non essendo legata ad alcuna forma sociale, essa può essere desunta da comportamenti cui abbiano fatto riscontro specifiche collocazioni delle poste in bilancio[4], con il conforto della considerazione per cui la forma della scrittura privata è imposta esclusivamente per gli atti di rinuncia ai diritti reali ex art. 1350 c.c..

Per quanto attiene alla causa dell’atto, rilevante nel caso di specie, merita di essere osservato come, diversamente da quanto si verifica per la remissione del debito o per alcuni casi di rinunzia (ad es., rinuncia all’eredità), che sortiscono un effetto abdicativo con conseguente accrescimento delle quote residue, tanto non si produca, in forza del rapporto sociale, nel caso all’esame[5]. Infatti, tale rapporto induce a far ritenere che la convergenza degli interessi fra socio e società (reso manifesto anche dalla patrimonializzazione della seconda) escluda che causa delle azioni del socio possa costituire atto di liberalità, dovendosi naturalmente inferire l’insorgenza di un’aspettativa di futura utilità da parte del socio rinunciante.

In conclusione, la rinuncia dei soci alla restituzione dei crediti è un’operazione abdicativa a forma libera e gratuita, seppur non liberale.

Al fine di meglio comprendere l’incidenza delle operazioni in rassegna sugli equilibri della società ed il correlativo impatto sulle finanze pubbliche, è utile considerare che, nel quadro d’insieme appena delineato, si rivela necessario un richiamo all’istituto, definito con locuzione di matrice pretoria contabile, del c.d. “soccorso finanziario”.

  1. Il soccorso finanziario

Il “soccorso finanziario” da parte di un’amministrazione pubblica, in favore delle società partecipate, è stato oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore per i riflessi che è capace di produrre sui bilanci pubblici. Infatti, i principi desumibili dal sistema si esprimono in senso fortemente limitativo (finanche proibitivo) dell’indicato soccorso, allo scopo di impedire “emorragie” di risorse a favore di società che, in difetto di un sostegno ricevuto dalla mano pubblica, non sarebbero capaci di generare flussi reddituali sufficienti a garantire la prosecuzione dell’attività.

Il descritto divieto è espressivo di un principio generale secondo cui, per assicurare un corretto impiego delle risorse pubbliche, contrastando pratiche diffuse ispirate alla logica del salvataggio “a tutti i costi” di soggetti in situazione di precarietà economico-finanziaria, l’ammissibilità di interventi a sostegno di organismi partecipati, specialmente qualora non vi siano serie prospettive di recupero di efficienza della gestione debba ritenersi sempre più circoscritta[6].  Tale rilievo tiene conto – tra l’altro – dell’esigenza di evitare che, rispondendo il socio di una società di capitali limitatamente alla quota di capitale detenuta, qualora l’ente pubblico si accolli il debito della partecipata, il meccanismo della responsabilità limitata – caratteristico del modello societario – subisca un intollerabile aggiramento, così consentendo ai creditori sociali di godere di un’ingiustificata, superiore garanzia.

  1. Il quadro normativo e le posizioni della giurisprudenza contabile

Definire il quadro normativo si presenta necessario ai fini dell’inquadramento complessivo all’esame.

Dal punto di vista societario pubblico merita di essere rammentato come tali operazioni si collochino entro la cornice normativa in forza della quale l’acquisto di partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale costituiscono una “spesa di investimento, ai sensi dell’art. 3, c. 18, della l. 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004), mentre le operazioni di ripianamento di perdite e le ricapitalizzazioni non costituiscono investimento, bensì “spesa corrente”[7].

Per distinguere tra le due operazioni è stato fissato il principio per il quale il ripiano di perdite consiste nell’apporto finanziario destinato a sopperire ad un disavanzo di gestione, dovendosi – viceversa – affermare che la ricapitalizzazione consista nella ricostituzione del capitale sociale eroso dalle perdite[8] [9].

La ricapitalizzazione societaria a causa di perdite costituisce una spesa corrente per l’ente proprietario, soggetta ai limiti previsti dall’art. 42 d.lgs. n. 118/2011 per le regioni e dall’art. 187 d.lgs. n. 267/2000, in caso di utilizzo dell’avanzo di amministrazione, con divieto di contrarre nuovo debito, in ossequio al disposto dell’art. 119, c. 6, Cost., che non consente il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento. Pertanto, il versamento da parte della Regione finalizzato ad una ricapitalizzazione per ripiano delle perdite, costituisce, sotto il profilo economico, una sopravvenienza attiva per la società e, dal punto di vista finanziario, una spesa di natura corrente per il bilancio.

L’esigenza legislativa di un controllo sull’allocazione delle risorse da parte delle pubbliche amministrazioni ha preso corpo con le disposizioni di cui all’art. 6, c. 19, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. n. 122/2010[10].

La norma vieta alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 3, l. n. 196/2009, salva l’ipotesi dell’art. 2447 c.c.[11], di effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito e rilascio di garanzie, a favore delle società non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili[12] per il ripianamento di perdite, anche infrannuali. La norma apre a talune eccezioni, consentendo i trasferimenti alle società “a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti”, nonché, previa autorizzazione con d.p.c.m., adottato su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con gli altri ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, interventi finalizzati a salvaguardare la continuità di servizi di pubblico interesse a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità”.

Il successivo comma 20 dispone che “le disposizioni del presente articolo non si applicano in via diretta alle regioni, alle province autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica”, esprimendo un principio di carattere generale più volte richiamato dalla giurisprudenza contabile[13], nell’ottica della sana gestione finanziaria degli organismi societari[14] e nel prisma delle regole europee, che vietano ai soggetti che operano sul mercato di fruire di diritti speciali o esclusivi[15]. Sul tema, la giurisprudenza contabile, anche con pronunce degli anni riferibili alla gestione esaminata, ha più volte stigmatizzato gli “interventi tampone con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l’economicità e l’efficienza della gestione nel medio e lungo periodo[16]. Per le società in crisi, ad esempio, la ricapitalizzazione è stata ritenuta alternativa alla messa in liquidazione, dovendosi valutare con attenzione, in caso di riduzione del capitale al di sotto del limite legale, l’opportunità di procedere ad una ricapitalizzazione piuttosto che prendere atto dell’avvenuto scioglimento della medesima[17].

La scelta deve tener conto sia della capacità della società di tornare in equilibrio anche mediante la valutazione di un piano industriale pluriennale che – in un’ottica di buona amministrazione – dovrebbe sempre accompagnarsi con interventi di carattere strutturale quali, ad esempio, la predisposizione di un piano di risanamento che illustri le reali potenzialità della struttura e le probabilità concrete di conseguimento dell’equilibrio economico[18].

L’art. 6, c. 19, d.l. n. 78/2010 – come anticipato – prevede le già indicate eccezioni, con particolare riferimento alla realizzazione di investimenti.

Il tema risulta rilevante nel presente contesto, inserito, come detto, nella cornice tracciata dalle disposizioni di cui all’art. 3, c. 18, l. 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004), con le quali il legislatore ha codificato il concetto di investimento.

A mente del citato art. 3, c. 18, è possibile affermare che “Ai fini di cui all’art 119, c. 6, Cost., costituiscono investimenti: a) l’acquisto, la costruzione, la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati sia residenziali che non residenziali; b) la costruzione, la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti; c) l’acquisto di impianti, macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale; d) gli oneri per beni immateriali ad utilizzo pluriennale; e) l’acquisizione di aree, espropri e servitù onerose; f) le partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti della facoltà di partecipazione concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti; g) i contributi agli investimenti e i trasferimenti in conto capitale a seguito di escussione delle garanzie destinati specificamente alla realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni; h) i contributi agli investimenti e i trasferimenti in conto capitale a seguito di escussione delle garanzie in favore di soggetti concessionari di lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o di dotazioni funzionali all’erogazione di servizi pubblici o di soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti di servizio prevedono la retrocessione degli investimenti agli enti committenti alla loro scadenza, anche anticipata. In tale fattispecie rientra l’intervento finanziario a favore del concessionario di cui al c. 2 dell’art. 19 della l. 11 febbraio 1994, n. 109; i) gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani urbanistici attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse regionale aventi finalità pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio”.

Il quadro normativo si è poi arricchito in conseguenza dell’entrata in vigore del Testo unico sulle società partecipate (adottato con d.lgs. n. 175/2016, d’ora in poi, TUSP) che, con riferimento al tema di interesse, ha stabilito che, per le società partecipate che gestiscono servizi di pubblico interesse, in caso di crisi d’impresa, è necessario predisporre un piano di risanamento, approvato dall’autorità di regolazione di settore e comunicato alla Corte dei conti, ai sensi dell’art 14, co. 5, d.lgs. 175/2016, che contempli il raggiungimento dell’equilibrio finanziario entro tre anni, nell’ottica della continuità aziendale. Merita di essere posto in luce, con riferimento al diverso caso di un ente locale, che la giurisprudenza contabile abbia precisato come non costituisca idoneo piano di risanamento “la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte, approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5”. In relazione al correlativo obbligo, di poi introdotto, di provvedere ad un accantonamento di quote di bilancio, in correlazione a risultati gestionali negativi degli organismi partecipati, è stato affermato come esso non comporti l’insorgenza – a carico dell’Ente socio, anche se unico – di un conseguente obbligo di ripiano di dette perdite o all’assunzione diretta dei debiti del soggetto partecipato. Infatti, “pur in presenza degli accantonamenti in argomento, pertanto, il “soccorso finanziario” nei confronti degli organismi partecipati permane del tutto precluso, allorché si versi nella condizione di reiterate perdite di esercizio, presa in considerazione dall’articolo 6, comma 19, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con disposizione confermata dall’art. 14, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 175 del 2016. Ne deriva che un ente locale, che dovesse assorbire, sistematicamente, a carico del proprio bilancio, i risultati negativi della gestione di un organismo partecipato (…) sarà tenuto a dimostrare lo specifico interesse pubblico perseguito, in relazione ai propri scopi istituzionali, evidenziando in particolare le ragioni economico-giuridiche dell’operazione, le quali, devono necessariamente essere fondate sulla possibilità di assicurare una continuità aziendale finanziariamente e positivamente sostenibile” (Corte dei conti, Sez. reg. contr. Piemonte, deliberazione n. 33/2021/SRCPIE/PRSE).

Tali motivazioni, che devono essere fondate sulla possibilità di assicurare una continuità aziendale finanziariamente sostenibile, richiedono, quindi:

  1. una previa e adeguata verifica delle criticità all’origine delle perdite;
  2. l’individuazione di eventuali profili gestionali rilevanti;
  3. un’attenta valutazione circa l’opportunità della conservazione dell’organismo partecipato o del mantenimento della partecipazione;
  4. un giudizio prognostico obiettivo sulla convenienza economico-finanziaria di tale modalità di gestione del servizio rispetto ad altre, possibili alternative.

La motivazione della deliberazione dell’Amministrazione dovrà resistere ad un giudizio ispirato ai parametri della legalità finanziaria e ai più generali principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

  1. Osservazioni conclusive

Il quadro appena tratteggiato consente di formulare alcune considerazioni.

I risultati d’esercizio conseguiti da una partecipata si dovrebbero caratterizzare per l’esibizione di una capacità della gestione “caratteristica” di generare adeguati flussi finanziari che consentano di costruire una robusta base per gli investimenti ritenuti necessari.

Non di rado, infatti, senza il continuo sostegno finanziario periodicamente riconosciuto, da parte del socio, alle sorti societarie, la prosecuzione dell’attività risulterebbe seriamente messa in discussione.

Il soccorso finanziario prestato è, infatti, spesso costituito da:

  1. iniezioni di liquidità, riconosciute sotto molteplici forme:

a.1. sottoscrizione di aumenti di capitale nominale;

a.2. rinunzia, anche con formule innovative, di rate di mutuo “convertite”, con effetto novativo, in altrettante quote di capitale sociale, a scopo di ulteriori, rilevanti patrimonializzazioni;

a.3. concessione di linee di credito, mediante il riconoscimento di finanziamenti infruttiferi o a tasso agevolato che, in forza del saggio di interesse praticato, si rivelano sostanzialmente assimilabili ai precedenti;

a.4. ulteriori contributi “di scopo”, in relazione al contesto economico ed operativo di riferimento.

Orbene, deve essere rimarcato come il supporto finanziario in narrativa vada sempre valutato in modo da evitare che possa costituire il sostegno senza il quale la struttura societaria non si garantisca la necessaria continuità. Spesso, infatti esso rappresenta lo strumento in conseguenza del cui impiego si assicura la sopravvivenza dell’organismo ben oltre le aspettative che si sarebbero rivelate ragionevoli in un quadro perfettamente concorrenziale.

Infatti, val la pena rimarcarlo, anche le rinunce ai crediti non possono assumere carattere di liberalità ma, intanto può esserne assentito il riconoscimento, in quanto il socio si prospetti un’apprezzabile aspettativa di ritorno “in bonis” della società, che renda ragione, in un’ottica di abbandono della logica ausiliatrice, del profittevole investimento di risorse sottratte ad altre finalità ed orientate sullo specifico soggetto.

In proposito, infatti, la predisposizione di un piano di risanamento, pur non imposto dalle norme in vigore se non alle specifiche condizioni prima indicate, non di rado suggerito dalle pronunce del giudice contabile, deve essere considerata la via d’elezione affinché sia possibile apprezzare, in modo completamente appagante e con un sincero grado di realismo, le criticità gestionali che l’organismo societario manifesta così evitando – nel contempo – l’adozione di scelte potenzialmente foriere di inattese conseguenze per l’amministratore pubblico.

 

 

[1] Corte di Cassazione, sentenze nn. 27087/2014; 2758/2012; 7692/2006; 16393/2007; 21563/2008.

[2] Pare utile segnalare come la Corte di Giustizia Europea, sentenza Trave, 5 febbraio 1991, causa C-249/89, abbia equiparato, seppur ai limitati fini dell’imposta di registro, i finanziamenti infruttiferi, aventi lo scopo di aumentare il patrimonio sociale, a veri e propri versamenti/conferimenti di capitale di rischio.

[3] Corte di Cassazione, sez. V., 24 settembre 2014, n. 26842.

[4] Cassazione civile, 15 febbraio 1993, n. 4158.

[5] Pertanto, la gratuità dell’atto non ne implica la non onerosità. Vds., sul rapporto fra i due concetti, Cassazione civile, sentenza 5 dicembre 1998, n. 12325 e sentenza 11 giugno 2004, n. 11093 ma anche, più recentemente, sentenza 17 gennaio 2018, n. 975. Nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614.

[6] Cfr. in terminis, Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Lombardia, 5 febbraio 2014, n. 42/2014/PAR; Sez. di controllo per la Regione siciliana, 7 maggio 2014, n. 59/2014/PAR; Sez. reg. di controllo per il Piemonte, 21 aprile 2015, n. 99/2015/PRSE; Sez. reg. di controllo per l’Abruzzo, 21 ottobre 2015, n. 279/2015/PAR; Sez. reg. di controllo per la Campania, 26 ottobre 2016, n. 333/2016/PAR; Sez. reg. di controllo per la Lombardia, 2 settembre 2016, n. 224/2016/PRSE; Sez. reg. di controllo per la Lombardia, 21 dicembre 2016, n. 419/2016/VSG.

[7] Corte dei conti, Sez. contr. reg. Lazio, n. 67/2009; Sez. contr. reg. Liguria, n. 56/2011 e n. 9/2008; Sez. contr. reg. Puglia, n. 42/2008 e n. 65/2007; Sez. contr. reg. Abruzzo, n. 578/2007; Sez. contr. reg. Marche, n. 22/2007.

[8] Sul punto, vds. art. 1, c. 551, l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014) secondo cui, nel caso in cui gli organismi partecipati dalle pubbliche amministrazioni locali presentino un risultato di esercizio o saldo finanziario negativo, le pubbliche amministrazioni locali partecipanti accantonano nell’anno successivo in apposito fondo vincolato un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione. Per le società che redigono il bilancio consolidato, il risultato di esercizio è quello relativo a tale bilancio. Limitatamente alle società che svolgono servizi pubblici a rete di rilevanza economica, compresa la gestione dei rifiuti, per risultato si intende la differenza tra valore e costi della produzione ai sensi dell’art. 2425 c.c. L’importo accantonato è reso disponibile in misura proporzionale alla quota di partecipazione nel caso in cui l’ente partecipante ripiani la perdita di esercizio o dismetta la partecipazione o il soggetto partecipato sia posto in liquidazione. Nel caso in cui i soggetti partecipati ripianino in tutto o in parte le perdite conseguite negli esercizi precedenti l’importo accantonato viene reso disponibile agli enti partecipanti in misura corrispondente e proporzionale alla quota di partecipazione.

[9] Si intende per perdita di esercizio il decremento del patrimonio netto per effetto della gestione, coincidente con il risultato finale dell’esercizio esposto nel conto economico.

[10] Art. 6, c. 19, d.l. 78/2010: “Al fine del perseguimento di una maggiore efficienza delle società pubbliche, tenuto conto dei principi nazionali e comunitari in termini di economicità e di concorrenza, le amministrazioni di cui all’art. 1, c. 3, l. 31 dicembre 2009, n. 196, non possono, salvo quanto previsto dall’art. 2447 c.c., effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti alle società di cui al primo periodo a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti. Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri adottato su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con gli altri ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma”.

[11] Art. 2447 c.c. (Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale): “Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al di sotto del minimo stabilito dall’art. 2327, gli amministratori o il consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società”.

[12] In ambito bilancistico, la distinzione tra riserve disponibili e riserve indisponibili si basa sulla loro possibilità o meno di utilizzo (v. principio contabile OIC 28 – Patrimonio netto). Le riserve disponibili sono quelle che possono essere impiegate, ad esempio, per aumenti gratuiti del capitale sociale, per la copertura di perdite e, in alcuni casi anche per la distribuzione ai soci (in quest’ultima ipotesi la riserva si dice che è anche distribuibile). Le riserve indisponibili, invece, dette anche riserve vincolate, perché esse sono vincolate dalla legge o dallo statuto. Di conseguenza tali riserve non possono essere impiegate se non per lo scopo per il quale sono state costituite. Le riserve indisponibili, quindi, devono essere costituite e mantenute nell’impresa, a fronte di una determinata operazione. Soltanto quando essa si è conclusa si scioglie il vincolo sulla riserva ed essa, da indisponibile, diventa disponibile.

Sono indisponibili, ovvero non possono essere utilizzate per varie e diverse finalità stabilite dalla legge:

– riserva legale nei limiti della quota obbligatoria (art. 2430 c.c.);

– riserva da acquisto azioni proprie (art. 2357-ter c.c.);

– riserva da valutazione delle partecipazioni con il metodo del patrimonio netto (art. 2426, punto 4, c.c.);

– riserva da utili netti su cambi (art. 2426, punto 8-bis, c.c.);

– riserva da deroghe in casi eccezionali (art. 2423, punto 4, c.c.), per la parte non recuperata tramite ammortamento o realizzo;

– riserve derivanti dall’applicazione dei principi contabili internazionali (artt. 6 e 7 d.lgs. n. 38/2005);

– riserva delle società cooperative (art. 2545-ter c.c.);

– riserva legale delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo (artt. 32 e 37 d.lgs. n. 385/1993).

[13] Corte dei conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 380/2012.

[14] Corte dei conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 753/2010.

[15] Corte giust. Ue, Sez. I, 3 aprile 2014, in causa C-559/12P (la copertura delle perdite di società in caso di insolvenza è stata ritenuta operazione idonea a procurare un vantaggio all’impresa, configurabile alla stregua di un aiuto di Stato).

[16] Corte dei conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 1081 e n. 753/2010; n. 636 e n. 207/2011; n. 274 e n. 220/2012; Sez. contr. reg. Veneto, n. 904/2012.

[17] A norma dell’art. 2484, c. 1, n. 4, c.c., tale ipotesi si realizza automaticamente in difetto di azioni dell’assemblea dei soci. Sul punto, Corte dei conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 96/2014, secondo cui “lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o dalla trasformazione della società ai sensi dell’art. 2447 c.c., in quanto, con il verificarsi dell’anzidetta condizione risolutiva, viene meno ex tunc lo scioglimento della società; ne deriva che la mancata adozione da parte dell’assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale sociale o di trasformazione della società in altro tipo, compatibile con la situazione determinatasi, non esonera gli amministratori dalla responsabilità conseguente al proseguimento dell’attività d’impresa in violazione del divieto di nuove operazioni (Cass., 22 aprile 2009, n. 9619)”.

[18] Corte dei conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 515/2012, secondo cui “A fini prudenziali e indipendentemente dalla fonte della provvista, il comune dovrebbe astenersi da attività di finanziamento nei confronti delle società partecipate qualora non abbia in concreto adottato tutti gli strumenti idonei ad un controllo approfondito della gestione operativa e finanziaria della società partecipata, al fine di appurare se la stessa necessiti, diversamente, di interventi di ricapitalizzazione (non attuabili ovviamente con giacenze di cassa), non solo ai fini del rispetto del principio di trasparenza dell’azione amministrativa (che impone che l’organo consiliare debba essere a conoscenza del possibile risultato finale che consegue ad un’operazione finanziaria e adottare le conseguenti decisioni), ma anche al fine di prevenire una minaccia agli equilibri finanziari dell’ente locale”.

 

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