13/01/2021 – Consiglio di Stato: l’amministrazione gode di ampia discrezionalità nella determinazione del contenuto del bando di gara e della base d’asta.

 

Il Consiglio di Stato, con sentenza 8359/2020, pronunciandosi sull’appello proposto da una Azienda pubblica alla sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima) n.545/2020 che aveva dichiarato l’inadeguatezza dell’importo posto a base di gara, la riforma e rigetta il ricorso di primo grado.

Da detta sentenza di appello è possibile ricavare importanti interpretazioni:

L’Amministrazione dispone di ampia discrezionalità nella determinazione della base d’asta e del contenuto del bando di gara, espressione del potere discrezionale in base al quale può effettuare scelte riguardanti gli strumenti e le misure più adeguati, opportuni, congrui, efficienti ed efficaci ai fini del corretto ed effettivo perseguimento dell’interesse pubblico concreto, oggetto dell’appalto da affidare; le scelte così operate, ampiamente discrezionali, impingono nel merito dell’azione amministrativa e si sottraggono, pertanto, al sindacato del giudice amministrativo, salvo che non siano ictu oculi manifestamente irragionevoli, irrazionali, arbitrarie o sproporzionate, specie avuto riguardo alla specificità dell’oggetto e all’esigenza di non restringere la platea dei potenziali concorrenti e di non precostituire situazioni di privilegi.

Se da un lato la base d’asta deve essere credibile, non basata su stime irrealistiche e disancorate dai reali valori di mercato, non deve ignorare listini e prezziari, eventuali rilevazioni statistiche e ogni altro elemento di conoscenza, e, con particolare riguardo al costo del lavoro, il valore economico deve essere adeguato e sufficiente, dall’altro lato nel settore degli appalti pubblici, è richiesta una prova particolarmente rigorosa circa gli elementi di difficoltà, lacunosità, genericità o irragionevolezza del bando che rendono impossibile la presentazione di un’offerta.

Le clausole che impediscono la partecipazione alla gara (e soggiacciono all’onere di immediata impugnazione da parte di chi non ha formulato offerta) sono le sole clausole che impediscono astrattamente ad ogni tipo di concorrente la partecipazione alla gara o perché impongono oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero perché rendano impossibile a qualunque operatore economico la stessa formulazione dell’offerta, impedendo il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara, dando luogo ad un’abnorme restrizione dell’accesso alla selezione.

Le valutazioni tecniche, come quelle che riguardano la determinazione della base d’asta, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.

Secondo la giurisprudenza, al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile fissare una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante. Una base d’asta che contempli un margine di utile esiguo è frutto di un contemperamento di interessi che rientra nella sfera di discrezionalità della stazione appaltante: è ovvio che un vantaggio in termini di risparmio possa comportare una perdita in termini di qualità, ma la scelta di quale sia il vantaggio da perseguire in via prioritaria appartiene pur sempre alle valutazioni interne dell’Amministrazione e non è escluso che, dato il carattere concorrenziale del mercato, la qualità del servizio non risulti eccessivamente penalizzata dalla scelta di privilegiare l’economia di spesa.

I valori indicati dalle delibere ANAC, che traggono la propria fonte di legittimazione dall’art.17, comma 1, lett. a) del d.l.98/2011, e le tabelle ministeriali del costo del lavoro, hanno valore meramenteindicativo e non vincolante per l’Amministrazione. Le delibere dell’ANAC hanno lo scopo di mettere a disposizione delle regioni e delle centrali di acquisto ulteriori strumenti operativi di controllo e razionalizzazione della spesa, con funzione ricognitiva dei “prezzi di riferimento alle condizioni di maggiore efficienza” dei beni e servizi anche sanitari, ponendosi, dunque, come strumento di ausilio alle Amministrazioni cui sono rivolte, per realizzare risparmi di spesa.

Le tabelle del costo del lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sono parametri medi e non vincolanti, frutto dell’attività di elaborazione del Ministero, desunti dall’analisi e dall’aggregazione di dati molteplici inerenti a più istituti contrattuali. La difformità del costo del lavoro da quello indicato nelle tabelle ministeriali non è profilo dirimente per trarne la conclusione dell’incongruità della base d’asta, poiché le tabelle costituiscono un parametro di valutazione solo indicativo, a differenza dei minimi salariali. L’aggiudicatario deve esporre le ragioni dello scostamento operato rispetto al costo medio orario risultante nelle predette tabelle e in sede di gara, circostanza di cui il RUP ha l’onere di verificarne l’attendibilità.

Per tali motivi, e in considerazione dell’effettivo svolgimento della gara che ha visto la partecipazione di tre operatori, l’appello è stato accolto e la sentenza di primo grado annullata, confermando l’originaria aggiudicazione.

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