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Abstract: Il contributo, prendendo le mosse dalle recenti modifiche introdotte alla disciplina della responsabilità amministrativa dal decreto-legge semplificazioni, si propone di indagare, sia sotto il profilo teorico sia su quello squisitamente pratico, il nuovo perimetro del dolo contabile. Tale indagine si estende lungo molteplici direttrici, quali le tecniche di indagine che il pubblico ministero contabile dovrà adottare, il novero dei mezzi di prova, il rapporto con le altre giurisdizioni e l’effettivo esercizio del potere riduttivo, fino a giungere a porre alcune domande sul nuovo equilibrio che l’articolato sistema delle responsabilità dei pubblici agenti, nella sua pluriforme accezione, sarà chiamato a trovare.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa. – 3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere! – 4. Dolo e potere riduttivo. – 5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti. – 6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie.

  1. Premessa

Anche in ambito erariale, il dolo si pone, a ben vedere, come cifra identitaria – non unica, e tuttavia qualificante – di un’intera esperienza ordinamentale, prima, e giudiziaria, poi. Nell’intensità, nella profondità, nella colorazione, e nelle variabili declinazioni (1), il dolo erariale segna infatti in profondità l’illecito amministrativo, o almeno quella parte di esso che da sempre cerca ispirazione e distinzione, allo stesso tempo, nell’illecito penale. Diversamente da quest’ultima, infatti, l’altra grande famiglia di illeciti amministrativi, vale a dire quella delle fattispecie di “spreco” (come oggi si usa dire), rifugge – salvo casi limite – il dolo, e resta saldamente ancorata al solo fattore “colpa” (naturalmente, almeno grave). Non a caso, anche la risposta del sistema giustizia si sviluppa in modo binario. Così, se la risposta dello Stato alla malapianta della corruzione è affidata, per gli aspetti di rispettiva competenza, sia alla magistratura ordinaria che alla magistratura contabile, per sperperi e occasioni perdute, che recano danno ma non costituiscono reato, la reazione ordinamentale è affidata in via esclusiva alla magistratura contabile. Lo è, però e per vero, nella logica della deprivazione patrimoniale tipica del danno, dove ciò che non ritroviamo (o ritroviamo solo secondariamente), della (tradizionale e, nell’altro campo, in certa parte ancora intatta) dimensione penalistica, è la componente etica della riprovevolezza del comportamento: dinanzi al giudice contabile, il responsabile va perseguito non tanto perché sia immorale la sua condotta, quanto perché – laicamente e utilitaristicamente – il danno da “spreco” che ha cagionato impedisce in parte qua di realizzare (finanziandole) utili politiche pubbliche. In questo, la sistematica legale del danno erariale (quello da “spreco”, in particolare) si rivela di formidabile modernità. Se questo è, appunto, in rapporto all’illecito amministrativo da “spreco”, il dolo conserva invece ancora una sua centralità – sebbene un po’ irrisolta fra altalenanti accenti panpenalistici e rapsodiche pulsioni neocivilistiche – nel campo dell’illecito amministrativo da reato, o da violazione di ordini e prescrizioni. Questa irresolutezza è il riflesso, non di rado, della distanza fra disvalore morale della condotta incriminata e reale deprivazione patrimoniale che da esso in concreto deriva. Una distanza che in sede pretoria sfocia in diverse tratteggiature sfuggenti del danno, cariche di significato più morale che materiale. Così è, a puro titolo di esempio, per quella giurisprudenza che ha declinato il danno – diverso da quello all’immagine – da assunzioni illegittime nella «mancata realizzazione della funzione sociale di assumere presso gli uffici pubblici persone selezionate attraverso il pubblico concorso, con conseguente depauperamento sia dell’intera comunità, sia dell’ente che ha assunto il personale in maniera indebita, perché nel contesto sociale emerge demotivazione e degrado dei suoi appartenenti, che vedono frustrate le possibilità di conseguire legalmente e regolarmente un posto di lavoro» (2). Più il danno (diverso da quello all’immagine) si allontana dalla dimensione propriamente estimatoria (e, quindi, concreta), per dematerializzarsi ed eticizzarsi (se si preferisce, per moralizzarsi), più tendono a sfumarsi anche i contorni del soggetto passivo della lesione: da un’amministrazione pubblica ben determinata alla “comunità amministrata” (3). E più il danno tende a dematerializzarsi, maggiormente inevitabile diventa il ricorso – a fini quantificatori – alla clausola equitativa dell’art. 1226 c.c., talora con declinazioni estreme (sottostimate o, all’opposto, un po’ iperboliche) o contraddittorie (si pensi ai casi nei quali alla liquidazione ex art. 1226 c.c. si somma l’applicazione del potere riduttivo (4)), con le implicazioni che ne conseguono (anzitutto, una sostanziale eterogenesi dei fini, rispetto all’originale – ma sempre attuale, perché di estremo buon senso – ispirazione cavouriana (5)). Indirettamente, peraltro, il dolo erariale trova occasione e motivo di riproporre se stesso all’attenzione anche nel quadro dell’opinabile (6) (ancorché costante) indirizzo delle S.U. secondo il quale «l’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice; ne deriva che le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione ma di proponibilità dell’azione di responsabilità innanzi al giudice contabile […] (7)». Con il che si pone, e non può non porsi, il tema di “un” dolo al (contestuale) servizio di due prospettive epistemologiche, dove l’una si modulerebbe secondo tonalità prevalentemente sanzionatorie, e l’altra, invece, avrebbe una connotazione riparatoria e integralmente compensativa. E dove, soprattutto, la prima delle due che raggiungesse lo scopo (id est, il suo specifico – e diverso – scopo) produrrebbe per l’effetto, improbabilmente e insostenibilmente, l’estinzione (per… assorbimento?) dell’altra. Ma il dolo segna, per vero, anche il campo delle fattispecie di illecito amministrativo di stampo squisitamente sanzionatorio. Da oltre 10 anni, infatti, le Sez. riun. hanno chiarito «che il titolo soggettivo di imputazione della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, debba essere determinato e valutato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, e che pertanto, ai fini della applicazione della sanzione in parola nei confronti degli amministratori che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, è necessario che ricorra, nella fattispecie concreta, l’elemento soggettivo della colpa grave, o, ovviamente, del dolo» (8).

D’altra parte, se in simili situazioni la condotta viene sanzionata a prescindere dalla produzione di un danno (avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione la regola dell’equilibrio di bilancio anche quando la sua violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità della finanza pubblica nel suo complesso) – tenuto conto, altresì, che la sanzione è commisurata a parametri certi (le indennità percepite dagli amministratori al momento della violazione) ed è irrogabile, nei limiti minimo e massimo individuati dalla legge stessa, in ragione della mera potenzialità lesiva del comportamento – «non occorre, da parte del giudice, verificare la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile, non essendo, appunto, una forma di responsabilità per danno, ma è necessario che si accerti la mera violazione del precetto previsto dalla legge, oltre, ovviamente, l’elemento psicologico» (9). Ma è plausibile che il dolo nella responsabilità erariale sanzionatoria (che tende a recare offesa a un bene giuridico sempre immateriale, e può persino non recargliene affatto, in concreto, trattandosi di un illecito di pericolo, dove la componente disvaloriale di tipo etico si accentua) si sovrapponga perfettamente a quello tipico della responsabilità (propriamente) erariale risarcitoria? È, cioè, davvero plausibile che coincida in tutto e per tutto con esso? Il quesito non è ozioso, né banale, se si considera che – sempre ad avviso delle Sez. riun. – ove la stessa condotta illecita contestabile ex lege a titolo di responsabilità sanzionatoria «dovesse cagionare un danno patrimoniale, economicamente valutabile, la fattispecie comporterebbe altresì la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che – come è noto – è configurata dal legislatore mediante il ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall’aver cagionato un danno patrimoniale all’amministrazione pubblica, in violazione degli obblighi di servizio e con comportamenti omissivi o commissivi connotati dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave» (10). Può davvero, un unico e sempre identico dolo, colorare indistintamente una stessa condotta materiale, reprimibile tuttavia, ex lege, due volte, a diverso titolo (una prima, in nome della logica riparatoria propria del risarcimento, e una seconda, nella logica punitiva panpenalistica dell’illecito di pericolo)? O non occorre piuttosto porsi il problema di una possibile (o necessaria?) pluralizzazione del dolo, perfino con riguardo a una stessa condotta materiale (in quanto plurioffensiva), in rapporto alla diversità dei beni giuridici (contemporaneamente) protetti e, di riflesso, alla diversità dei risultati finali perseguiti sul piano ordinamentale? Come si pone, tutto quanto precede, rispetto al sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020? Specie, è notazione d’obbligo, se si considera che il medesimo d.l. n. 76/2020 scrive un capitolo nuovo e di ampia portata riguardo al fenomeno, da tempo silentemente in atto, di avanzamento della frontiera della responsabilità dirigenziale con arretramento (per correlativo e immediato riflesso) della frontiera della responsabilità amministrativa (11). L’impressione, netta, è che in materia di dolo erariale l’art. 21, c. 1, riproponga con forza, agli operatori e agli interpreti, il tema della ricerca di un punto di equilibrio sistemico. Una ricerca da svolgere, naturalmente, facendo tesoro di una delle eredità politiche più forti e attuali del pensiero di Luigi Einaudi, il quale osservava, acutamente, che «non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare».

2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa

In un’epoca nella quale le tradizionali categorie del diritto sono travolte dal rapidissimo mutare dei contesti socio economici al fine di adattarsi alle innovative esigenze di tutela, anche la responsabilità amministrativa per danno all’erario sta subendo la medesima sorte. Il processo evolutivo di siffatto istituto ha però subito una parabola davvero peculiare e, paradossalmente, non ancorata al mutare del proprio mondo di riferimento, rappresentato dalla pubblica amministrazione e, più in generale, dalle risorse di pubblica provenienza. Come è bene noto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si è assistito ad un sostanziale mutamento del “volto della p.a.”, aumentando in modo esponenziale sia il ricorso a soggetti di diritto privato per l’espletamento delle tipiche funzioni autoritative ed erogazione dei servizi pubblici, sia l’assunzione da parte della medesima p.a. di una “forma” di diritto privato, al fine di acquisire una presunta, ma mai provata, maggiore agilità nell’espletamento delle proprie funzioni.

Ne è, pertanto, derivato un graduale ma inesorabile decentramento di una sempre più nutrita percentuale di risorse pubbliche nelle mani di soggetti formalmente di diritto privato, ma pur sempre titolari delle funzioni pubbliche “concesse”. La logica conseguenza di un siffatto processo rivoluzionario sarebbe stata l’adattarsi anche dello speciale regime di responsabilità posto a presidio del corretto uso delle pubbliche risorse, evitando la facile elusione dello stesso mediante l’evolvere “formale” del mondo della pubblica amministrazione. Nella realtà concreta si è, viceversa, assistito ad un percorso “anomalo”, non di evoluzione ma, piuttosto, di involuzione, affermatosi sia a livello giurisprudenziale, sia a livello legislativo, improntato ad un lento e/o parziale disancoraggio della gestione “sostanziale” delle pubbliche risorse dallo speciale regime di responsabilità che fino ad oggi ne aveva connotato la essenza. Sul piano della giurisprudenza, rileva un ormai consolidato orientamento della Cassazione a Sezioni unite, che, in sede di regolamento di giurisdizione, dopo una iniziale e timida apertura alla giurisdizione contabile, fondata proprio sul mutamento istituzionale della p.a., ha, poi, lentamente e definitivamente spostato il baricentro verso la giurisdizione ordinaria, denegando quella contabile, sia nelle ipotesi di soggetti derivanti dai processi di privatizzazione di enti pubblici, sia nelle ipotesi di soggetti di diritto privato costituiti dalle medesima p.a., con la sola eccezione dei soggetti “in house”. Il legislatore, dal suo canto, non ha colto la sostanza del mutamento in atto, mai decidendosi a confermare la penetrazione dello speciale regime della responsabilità erariale anche nel modo “sostanziale” della p.a., consentendole di “seguire” il percorso delle finanze erariali verso soggetti solo formalmente privati, ma, nella sostanza, gestori di ingentissime risorse pubbliche. Di contro, è intervenuto più volte al fine di “conformare” il regime della responsabilità in parola, da ultimo, con il d.l. n. 76/2020, da un lato, precisando e perimetrando, con disposizione di carattere definitivo, i confini dell’elemento soggettivo rappresentato dal dolo, dall’altro, limitando, in via solo transitoria, fino, cioè, al 31 dicembre 2021, la responsabilità per danno erariale ai soli casi, appunto, di dolo, con esclusione quindi della rilevanza, a tale fine, della colpa grave, ad eccezione delle fattispecie di danno cagionate a seguito di omissione o inerzia del soggetto agente. Ferma restando la discrezionalità del legislatore, tuttavia, è bene precisarlo, non priva in assoluto di limiti, ciò che lascia perplessi sono le motivazioni addotte a fondamento della modifica normativa in esame, rappresentata, secondo quanto emerge anche dai lavori preparatori, dalla necessità di calmierare la “paura della firma” che indurrebbe nella dirigenza pubblica il regime della responsabilità contabile. Nella sostanza, dunque, si è espressamente inteso limitare l’ambito applicativo del regime della responsabilità per danno all’erario, onde ottenerne, quale contraltare, una maggiore “spregiudicatezza” della dirigenza pubblica nel “fare”. Quanto alla precisazione in tema di “dolo”, il primo comma dell’art. 21 in esame, precisa che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Si tratta in pratica di una disposizione che ha ricadute sotto lo specifico profilo dell’onere della prova gravante sul pubblico ministero contabile, imponendo, ai fini della eventuale contestazione del requisito soggettivo del dolo, la dimostrazione della volontà, da parte del soggetto agente, dell’evento dannoso. Occorre, cioè, comprovare in atti che la condotta antigiuridica è stata connotata dalla volontà specifica di danneggiare, dalla volontà, cioè, dell’evento dannoso. Si impone, in pratica, di comprovare la volontà anche del “danno conseguenza” (12). Dal punto di vista pratico, fermo restando quanto la giurisprudenza avrà modo di precisare, può subito porsi in evidenza che, nella realtà del concreto operare, la stragrande fattispecie delle condotte antigiuridiche, lesive dell’erario non sono animate da una precisa e specifica volontà di cagionare il “danno conseguenza”. Sono piuttosto finalizzate, infatti, ad ottenere illeciti tornaconti e/o vantaggi, quali ad esempio: la tangente, l’acquisizione di crediti personali e/o favori elettorali mediante la distribuzione di consulenze illecite, la mancata riscossione di canoni locatizi e così via. Se certamente la condotta antigiuridica può essere animata dalla consapevolezza e conseguente volontà di violare le norme ed i propri doveri di servizio pur di ottenere quei vantaggi, l’ulteriore conseguenza concretizzantesi nel concreto danno erariale rimane, per la verità, sotto lo specifico profilo psicologico, sullo sfondo o meglio, senza dubbio viene prefigurata ed “accettata”, ma non direttamente “voluta”. Trattasi di fattispecie differenti da quelle relative ad altre ipotesi di responsabilità, come ad esempio nel caso della responsabilità penale, laddove, a fronte della fattispecie di reato tipica rileva la volontà di ledere proprio quel determinato bene oggetto di protezione. In definitiva, se, certo non può negarsi che, in linea teorica, possa anche agirsi allo specifico scopo di “volere” il danno all’erario, non può non considerarsi che la realtà concreta ed operativa dimostra che siffatta circostanza è davvero rara. Alla luce di quanto sopra, dunque, al netto delle rare ipotesi nelle quali rilevi una precisa e specifica volontà di danneggiare, a seguito della modifica di cui al predetto art. 21, potrà più facilmente contestarsi la responsabilità erariale a titolo di dolo solo nel caso in cui si interpreti la nozione di “volontà dell’evento dannoso” anche nel senso, più ampio, di prefigurazione ed accettazione dello stesso da parte del soggetto agente. Trattasi, tuttavia, di una modifica che, comunque, dal punto di vista della incidenza sugli ambiti di applicazione del regime di responsabilità in esame, non avrà un grande impatto limitativo, permanendo, a regime, la possibilità di contestare la stessa a titolo di colpa grave, fattispecie, quest’ultima, che, nel concreto, è quella di maggiore applicazione. Maggiori perplessità desta la disposizione di cui al c. 2 della norma in esame, secondo la quale «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente». Va subito posto in evidenza che, come si diceva, la discrezionalità del legislatore non è assoluta, in quanto vincolata al limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte. Ebbene, può nutrirsi un fondato dubbio che siffatta drastica perimetrazione e limitazione del regime della responsabilità in esame possa apparire in violazione del suddetto limite della non manifesta irragionevolezza, in quanto, unitamente alla precisazione in tema di dolo, si rischia concretamente di ridurre, se non annullare, la configurabilità della responsabilità contabile per il periodo in parola. Sotto il profilo delle ricadute pratiche, non sembra, davvero, che siffatto intervento normativo sia idoneo a raggiungere lo scopo del calmierare “la paura della firma”, esponendo, paradossalmente, il pubblico dipendente ad una eventuale pressione maggiore. È ormai consolidato l’orientamento della giurisprudenza della Cassazione a Sezioni unite, secondo il quale l’azione di responsabilità per danno erariale e quella con la quale le amministrazioni interessate possono promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali. La prima è volta, infatti, alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse pubbliche, con funzione prevalentemente sanzionatoria. La seconda è finalizzata, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola amministrazione attrice. L’eventuale interferenza che può determinarsi tra tali giudizi pone esclusivamente un problema di proponibilità dell’azione di responsabilità (nonché di eventuale osservanza del principio del ne bis in idem), senza dar luogo a questione di giurisdizione (13). Ne deriva, pertanto, che, in presenza di condotte antigiuridiche, lesive dell’erario, poste in essere da dipendenti delle amministrazioni, in linea generale è possibile che si attivi, al fine di ottenere l’eventuale risarcimento del danno, sia la medesima amministrazione danneggiata in sede civile, sia il procuratore della Repubblica presso la Corte dei conti a titolo di responsabilità erariale. I presupposti e gli esiti di siffatte azioni sono, tuttavia, differenti, atteso che la responsabilità erariale può contestarsi, sotto lo specifico profilo del requisito soggettivo, solo in caso di colpa grave e dolo, in questa fase solo per dolo (ormai connotato dalla volontà dell’evento lesivo), con possibilità anche di non risarcire il danno integrale, mentre quella civile può contestarsi anche per colpa semplice e consente il risarcimento del danno integrale. Appare di tutta evidenza, dunque, che, nella fase temporale di cui al predetto art. 21, stante il regime della responsabilità contabile limitata ai soli casi di condotta dolosa, le amministrazioni danneggiate saranno maggiormente incentivate, proprio in ragione della grave limitazione imposta al regime della responsabilità contabile, ad agire esse stesse dinanzi al g.o. a titolo di responsabilità civile, nel contempo esponendo il dipendente al ben più grave rischio del risarcimento integrale del danno, contestabile anche in base alla semplice colpa. Giova, altresì, evidenziare che la scelta dell’intraprendere la via della azione giudiziaria innanzi al g.o., sebbene in teoria facoltativa, nel concreto sarà concretamente indotta dall’ultimo capoverso della norma in esame, con il quale si è esclusa la limitazione di responsabilità nel caso delle condotte omissive e/o inerti. Ne deriva, infatti, che, laddove la amministrazione interessata non faccia valere i propri interessi in sede civile, al maturare della prescrizione del sotteso diritto di credito, la procura contabile potrà valutare il ricorrere dei presupporti per agire nei confronti dei dirigenti competenti, anche a titolo di colpa grave, per la specifica condotta omissiva consistente nel non essersi attivati in sede giudiziaria civile ed avere in tal modo determinato, in capo alla amministrazione di appartenenza, la conseguente perdita del sotteso diritto di credito al risarcimento del danno. Altra peculiare ricaduta, in termini pratici, del regime temporaneo in esame, si paleserà nel caso di concorso, mediante condotta omissiva, nella causazione di fattispecie di danno erariale arrecata mediante condotta commissiva, a titolo di colpa grave. Si pensi al caso, di frequente realizzazione, del dirigente che ometta, a titolo di culpa in vigilando, di esercitare il potere di direttiva o, comunque, di controllare la negligente attività, commissiva, di un proprio responsabile del procedimento, causativa di un danno erariale. Oppure, ancora, al caso del concorso mediante condotta omissiva, a titolo di colpa grave, concretizzantesi nella omessa denuncia di una fattispecie di danno erariale commessa a titolo di colpa grave (art. 53 r.d. n. 1214/1934). In siffatte ipotesi, in applicazione del regime di cui all’art. 21, si giungerà al paradosso di legittimare l’azione contabile verso il concorrente a titolo di omissione e non verso l’autore della condotta lesiva.

3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere!

La malcelata irritazione suscitata nel ristretto ambito della Corte dei conti dal sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020, secondo cui «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso», costituisce, se possibile, la migliore spiegazione del perché il legislatore abbia ritenuto necessario un suo intervento nella materia della responsabilità amministrativa, imponendo al giudice contabile una “sua” nozione di dolo in luogo di un’altra ad essa alternativa (14). Si è trattato, infatti, dell’ineludibile presa d’atto, da parte della politica, delle sempre più pressanti lamentele e insofferenze manifestate dalla società civile rispetto ad un’azione della Corte dei conti non sempre lineare nei suoi contenuti. Basti pensare, in particolare, al progressivo fiorire di contrapposte e tra loro inconciliabili teorie in materia di dolo, che hanno suscitato negli anni sempre maggiore preoccupazione e sconcerto da parte dei diretti interessati, troppo spesso esposti con eccessiva facilità alle gravi ripercussioni sociali e giuridiche che generalmente si accompagnano all’accusa di avere agito dolosamente (15). Il tutto, peraltro e salvo isolate eccezioni (16), nella colpevole indifferenza della magistratura contabile pur a fronte alle evidenti ingiustizie e disuguaglianze che in tal modo si venivano a determinare. Inevitabile, allora, che la scure normativa si facesse carico di troncare, prima o poi, gli effetti perversi di tale irrisolutezza, optando per una nozione di dolo di matrice penalistica (17), decisamente più vicina all’eadem sentire della coscienza giuridica collettiva (18). Ma l’intervento del legislatore, oltre a realizzare le condizioni per una maggiore certezza del diritto, offre anche l’occasione per avviare finalmente una seria fase di riflessione all’interno della stessa magistratura contabile volta a superare una certa resistenza al cambiamento che ha impedito al giudizio di responsabilità amministrativo-contabile e agli istituti, sostanziali e processuali, che ne costituiscono il fondamento di sviluppare appieno i caratteri della propria innegabile specialità. In particolare, chi all’indomani dell’adozione del nuovo codice di giustizia contabile (19) aveva sperato in un cambio di passo del giudizio contabile, nel segno di una sua maggiore autonomia e di una accresciuta propensione all’approfondimento del fatto, è presto rimasto deluso: il processo di responsabilità amministrativo-contabile era e resta un processo eminentemente cartolare, destinato a svolgersi e ad esaurirsi in un’unica udienza di discussione e sulla base dei soli documenti prodotti dalle parti (20). L’ambivalente ruolo giocato dal dolo nell’ambito di tale giudizio costituisce, se vogliamo, la più evidente espressione di questa sua rigidità. Da un lato, infatti, negli ultimi anni si è assistito, per svariate ragioni, ad una maggiore propensione da parte delle procure contabili a privilegiare la contestazione di fattispecie dolose, soprattutto se di carattere seriale e con contaminazioni penalistiche (21). Dall’altro lato, però, al conseguente incremento di fattispecie di derivazione penale non ha poi sempre coinciso, da parte delle procure prima e delle sezioni giudicanti poi, la disponibilità ad un autonomo accertamento dei fatti, preferendosi demandare alla magistratura penale ogni onere in tale senso e svuotando di significato il principio di autonomia del processo contabile rispetto a quello penale (22).

Nel quadro di tale staticità operativa, che ha di fatto reso il dolo tanto “cartolare” quanto il procedimento giudiziario finalizzato al suo accertamento, si è peraltro sviluppata la sopra ricordata problematica della diffusione di indirizzi giurisprudenziali volti a privilegiare una nozione di dolo erariale sui generis, con gli effetti perversi che abbiamo visto e a cui il legislatore ha inteso porre rimedio. Come già anticipato, la novella normativa in tema di dolo è stata tuttavia avvertita da taluno non come una operazione di giustizia sostanziale, diretta a garantire uniformità di trattamento ai consociati, ma come una sorta di intervento a gamba tesa sulla Corte dei conti al fine di ostacolarne l’azione (23). Uno dei principali argomenti spesi a supporto di tale tesi riposa sui differenti poteri intestati alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, con conseguenti maggiori difficoltà per le prime a conseguire la prova dell’intenzionalità della condotta lesiva (24). Tale lettura riduzionista, però, riposa, ad avviso di chi scrive, su di un equivoco di fondo che è ad un tempo la causa e l’effetto dell’immobilismo registrato dalla magistratura contabile al cospetto dell’esigenza di accertare condotte lato sensu criminose. Una sorta di ingiustificato complesso di inferiorità rispetto alla magistratura ordinaria che trae forse origine da una insufficiente considerazione di quelli che sono i caratteri di specialità del procedimento di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quello penale. Una delle principali particolarità che contribuisce a rendere il processo di responsabilità amministrativa sensibilmente diverso da quello penale, già messo in evidenza dalle stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, attiene alla differente regola probatoria che sovraintende l’accertamento dell’illecito da parte del giudice contabile rispetto a quello penale. Mentre, infatti, nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo contabile, così come in quello civile, vige la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, giudizio che si basa sugli elementi di convincimento disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana), la cui attendibilità va verificata sulla base dei relativi elementi di conferma (25). Partendo da tale innegabile premessa di fondo, appare allora del tutto giustificato il differente armamentario di poteri attribuiti alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, non trattandosi, in particolare, di una capitis deminutio delle prime rispetto alle seconde, ma di una dotazione del tutto adeguata ai diversi valori in gioco e alla diversa intensità delle regole probatorie idonee a supportare in giudizio l’azione di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quella penale. Tornando alla problematica del dolo e alla novità normativa di cui si discute, si tratterebbe, allora, di fare buon governo o, assai più semplicemente, di valorizzare i poteri di cui tanto le procure contabili quanto le sezioni giurisdizionali già dispongono per individuare, raccogliere e soppesare gli elementi che possano giustificare l’accusa di avere procurato intenzionalmente un danno all’amministrazione (26). Invero, anche accedendo alla tesi che da un punto di vista ontologico-strutturale il dolo contabile non sia cosa diversa da quello penale (27), resterebbe comunque sempre il dato di fatto che ai fini di una condanna per dolo in sede contabile gli elementi di valutazione possono essere tranquillamente diversi e, per un certo verso, di minor peso specifico rispetto a quelli richiesti per un’analoga condanna in sede penale (28). Di qui l’esigenza, da un lato, di sviluppare nuove tecniche di indagine che rendano il pubblico ministero contabile sempre più dominus dell’attività istruttoria, anziché mero recettore passivo di iniziative altrui (Guardia di finanza, procure della Repubblica, ecc.), e di stimolare, dall’altro lato, le sezioni giurisdizionali a fare un uso sempre più ampio dei mezzi di prova previsti dalla legge, in primis della testimonianza, superando quelle naturali ritrosie che vengono da decenni di processi cartolari. Ne guadagnerà la collettività, i cui membri si vedranno esposti a contestazioni a titolo di dolo solo se suffragate da idonei elementi di prova, e ne guadagnerà la stessa Corte dei conti, che in tal modo potrà avviare un percorso che porti al definitivo affrancamento da altre giurisdizioni nel segno di una sua ritrovata identità.

4. Dolo e potere riduttivo

Le considerazioni fin qui formulate in relazione alla novella normativa ed agli inevitabili impatti che la stessa avrà sui procedimenti giuscontabili, sia sotto il profilo ordinamentale che processuale, potranno avere indubbie ripercussioni anche in ordine allo ormai storico e radicato potere, sussistente in capo al giudice contabile, di applicare il c.d. “potere riduttivo” Potere riduttivo che, come è noto, trova la sua legittimazione nell’art. 83, c. 1, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, in una accezione volta ad enfatizzare la peculiarità del carattere personale della responsabilità amministrativo-contabile laddove autorizza il giudice ad incidere sul quantum risarcibile, seppur in un giudizio di natura principalmente risarcitoria, tenendo conto delle “singole responsabilità”. Sebbene la dizione letterale della originaria norma sembrerebbe essere indirizzata a tipizzare la responsabilità amministrativo-contabile sotto i profili della parziarietà e della personalità piuttosto che ad un generale potere attribuito al giudice di individuazione di circostanze operabili nel caso concreto al fine di ridurre il danno, l’interpretazione pretoria e, successivamente, le evoluzioni legislative in materia hanno condotto la dottrina ad individuare nel potere riduttivo, alcune volte, una speciale peculiarità tipica della responsabilità amministrativa e, in altri casi, invece, una espressione del potere-dovere del giudice di proporzionare la misura della propria condanna in relazione ai fattori che possono incidere sull’effettiva graduazione della stessa. A tal proposito va evidenziato che l’art. 1 della l.14 gennaio 1994, n. 20, ha tenuto ben distinta la parte relativa al potere di riduzione dell’addebito da quella in cui, appunto, viene meticolosamente individuata la parziarietà dell’obbligazione risarcitoria in relazione all’individuazione delle singole responsabilità (accezione ripresa, appunto, dall’art. 83 del r.d. n. 2440/1923). Pertanto, la concreta applicazione dell’istituto presupporrebbe che il giudice, solo dopo aver individuato, secondo i canoni tipici della responsabilità erariale, la sussistenza di tutti gli elementi idonei a delimitare il danno risarcibile e la sua imputabilità ad un determinato soggetto, potrà valutare se e in quale misura fare uso del potere riduttivo, ad esito del quale giungere alla definitiva determinazione del danno da porre a carico del responsabile. Il potere riduttivo, poi, va precisato, ha resistito anche all’introduzione del codice di giustizia contabile e, in particolare, non è stato intaccato dagli ulteriori interventi deflattivi del contenzioso introdotti dallo stesso, tanto è vero che l’art. 130, c. 6, del codice di giustizia contabile prevede l’impossibilità di fare uso del potere riduttivo in appello, confermando, pertanto, la sua applicazione nel solo giudizio di primo grado. In realtà la sua collocazione nel contesto della disposizione relativa al rito abbreviato sembra quasi volta ad indurre i presunti responsabili ad optare il più possibile per tale soluzione, atteso che, tenderebbe a “mettere in guardia” gli stessi del fatto che, proseguendo nei gradi di giudizio, verrebbero meno le prerogative volte a ridurre il quantum risarcibile ad opera del giudice, ivi compreso quello, del tutto scollegato dal rito abbreviato, dell’esercizio del potere riduttivo. Fatta questa necessaria premessa, occorre necessariamente interrogarsi sulla permanenza in vita dell’istituto in questione nel corso del periodo transitorio di vigenza della riforma di cui all’art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020 che, come è noto, ha ridisegnato l’assetto della responsabilità erariale per gli illeciti commessi mediante azione (e non mediante omissione) sino al 31 dicembre 2021, atteso che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso l’applicabilità dell’istituto nel caso di accertamento della condotta dolosa del responsabile.

Infatti, il nocumento alle finanze pubbliche secondo la communis opinio dei giudici contabili non può trovare alcun elemento esogeno ed endogeno idoneo a legittimare un giudizio meritevole di una particolare ed ulteriore forma di benevolenza volta all’abbattimento del danno cagionato. Non a caso le pronunce solitamente liquidano in poche righe la questione relativa all’invocata applicabilità del potere riduttivo semplicemente richiamando il carattere doloso della condotta per giustificarne la sua esclusione (29). A ben vedere, tuttavia, se è vero quanto sostenuto da alcuni fautori della tesi secondo la quale l’esercizio del potere riduttivo altro non è se non la valutazione delle circostanze sussistenti nel caso concreto al fine di determinare, così come prevede l’art. 133 c.p. per il giudice penale, la giusta determinazione del risarcimento da porre a carico del responsabile, con le necessarie precauzioni e con le dovute accortezze l’istituto del potere riduttivo non appare superato ed avulso dal sistema giuridico che emergerà nel momento in cui la novella normativa entrerà a regime. Sebbene tale affermazione possa sembrare in netta contrapposizione rispetto alla natura fondamentalmente risarcitoria della responsabilità contabile, ancor più sentita ed evidente a fronte di condotte puramente dolose (e in tal senso sono orientate anche le recenti riforme al codice penale relativamente ai reati contro la pubblica amministrazione), va evidenziato, da un lato, che la responsabilità amministrativo-contabile è sempre più orientata verso connotazioni sanzionatorie (30) e, dall’altro, che la possibilità per il responsabile “doloso” di vedersi scomputare una buona parte della propria quota di danno è già prevista dall’ordinamento contabile all’art. 130 del codice di giustizia contabile nel caso di rito abbreviato, la cui possibilità di ricorso è esclusa solo nel caso di doloso arricchimento del presunto responsabile. In tale solco, pertanto, devono inquadrarsi le rare pronunce della giurisprudenza che ha, mediante un più complesso ed articolato percorso motivazionale, ritenuto esercitabile il potere riduttivo anche nel caso di condotte dolose, ponendo in evidenza, ad esempio, la circostanza secondo la quale «Non essendo stati previsti dal legislatore limiti all’esercizio del potere riduttivo deve ritenersi compatibile con l’elemento soggettivo del dolo e può essere applicato anche in presenza di elementi idonei a giustificarne il ricorso diversi dall’eventuale tenuità dell’elemento soggettivo, come più volte affermato in giurisprudenza, trovando il suo fondamento nelle caratteristiche peculiari del rapporto di impiego pubblico, che prevede obblighi e doveri specifici e rilevanti, rispetto ai quali un potere giudiziario di riduzione dell’addebito si configura quale utile strumento per garantire la proporzionalità tra diritti e doveri» (31). Nel caso in questione, si è dato ampio risalto ad alcune circostanze soggettive, vale a dire il ruolo collaborativo svolto dal responsabile già in sede di indagine, la volontà di restituire le somme imputate a titolo di danno erariale, la dedizione comunque mostrata nel corso della carriera lavorativa, unitamente, poi, alla eccessiva sproporzione fra danno contestato e condizioni economiche del ricorrente. È pur vero che, a parere di chi scrive, la rigorosa valutazione del dolo volta ad escludere il c.d. “dolo contrattuale”, come già esposto nei precedenti paragrafi, porta ad una inevitabile restrizione delle circostanze finora valutate dalla giurisprudenza idonee all’applicazione dell’istituto in questione, perdendo, pertanto, il potere riduttivo quella indubbia e unica portata che ha tuttora nel giudizio di responsabilità in relazione all’ampia casistica attualmente considerata e che, si ritiene, non potrà più trovare spazio, non potendo avere alcuna rilevanza nel processo di valutazione dell’elemento psicologico del responsabile. Basti pensare, a mero titolo esemplificativo, alle innumerevoli circostanze oggettive che la giurisprudenza pacificamente ritiene valutabili a favore dei responsabili, quali la giovane età, la disorganizzazione dell’amministrazione di appartenenza, la scarsa esperienza lavorativa pregressa, le gravose incombenze lavorative, la lodevole attività di servizio ovvero la mancanza di adeguata preparazione formativa o la difficoltà oggettiva della materia o della normativa di riferimento. In conclusione, la prospettiva sembra essere quella di un notevole ridimensionamento dell’istituto del potere riduttivo, soprattutto in relazione alla valutazione delle circostanze oggettive, che poco possono incidere sulla prefigurazione di un evento dannoso, che deve essere voluto sin dalla fase della sua ideazione e che si concretizza a seguito di una condotta cosciente e volontaria. Ciò in quanto non va dimenticato che logica conseguenza dell’utilizzo del potere riduttivo sarà l’accollo della residua parte di danno da parte dell’amministrazione danneggiata e, conseguentemente, della collettività amministrata, caratteristica che dovrà ben conciliarsi con la sussistenza di una condotta dolosa come finalisticamente inquadrata dal legislatore con la riforma di cui al d.l. n. 76/2020.                                                                                                       5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti                                                                        Nel tentativo di regolare una realtà sempre più complessa e più veloce nel porre interrogativi di tipo socio-economico da risolvere, una delle sfide più difficili che il legislatore ha dovuto affrontare è stata quelle di introdurre “regole” che combinassero i requisiti della generalità e dell’astrattezza con la capacità di dare risposte agli agenti pubblici e attraverso le quali gli stessi, nel pieno rispetto del principio di legalità, potessero declinare i loro comportamenti in azioni.

Altrettanto complesso è stato il processo che ha portato al superamento, almeno in linea tendenziale, dell’insita stridente tensione tra il principio di legalità, quantomeno nella sua accezione sostanziale, e l’esercizio del potere discrezionale da parte degli agenti pubblici. Tale potere è del resto lo strumento attraverso il quale la pubblica amministrazione tenta di rispondere, nell’esercizio dei propri poteri, a quel grado ineliminabile di imprevedibilità e di contingenza della realtà fattuale.

 La discrezionalità amministrativa non trova una compiuta definizione legislativa, seppure siano diverse le disposizioni che la richiamano direttamente o indirettamente in via generale (32), né tantomeno la dottrina ne ha fornito una ricostruzione unanime (33).

Tale locuzione, con la giustapposizione della qualificazione di tecnica, è stata poi utilizzata per descrivere quelle attività – assai diverse dalla discrezionalità amministrativa pura (34) – aventi ad oggetto decisioni dall’alto contenuto tecnico-scientifico di non univoca soluzione; decisioni la cui diffusione si è ampliata nei complessi ordinamenti moderni parallelamente all’affermarsi del policentrismo normativo. Al fine di garantire che la discrezionalità – tanto quella amministrativa quanto quella tecnica – non si traducesse in arbitrio, il legislatore ha previsto specifici contrappesi. Per la prima tipologia, è intervenuto introducendo diversi istituti atti a garantire il confronto più ampio all’interno del procedimento amministrativo tra gli interessi pubblici e quelli privati; per la seconda prevedendo un sindacato giurisdizionale che progressivamente si è connotato anche per essere di tipo intrinseco.

Tale stagione di riforme è stata oggetto poi di successivi progressivi aggiustamenti basati in particolare sull’analisi del dato reale e delle linee di tendenza emerse in sede giurisprudenziale. Il ricorso a questo metodo induttivo si è accentuato negli ultimi anni, da quando il legislatore ha cominciato a introdurre, sempre più frequentemente, in norma primaria una serie di previsioni talmente dettagliate da assomigliare a disposizioni di carattere regolamentare o talmente specifiche da sembrare provvedimenti amministrativi. Tra tali disposizioni rientrano quelle volte, allo stesso tempo, a disciplinare pedissequamente i nuovi compiti affidati agli agenti pubblici e a prevedere, in caso di inadempienza, il relativo apparato sanzionatorio, incrementando in tal modo le fattispecie tipizzate di responsabilità amministrativa (35). Un esempio plastico di questa tendenza è rinvenibile proprio nell’analisi del contenuto di alcune norme contenute nel decreto-legge semplificazioni (36), le quali intervengono su alcune delle cinque responsabilità nelle quali possono incorrere i pubblici dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni (37). In particolare, tale decreto ha introdotto sia modifiche alla disciplina di carattere generale della responsabilità amministrativo-contabile, sia alcune nuove specifiche fattispecie del più ampio genus della responsabilità dirigenziale. Se, infatti, con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile, il legislatore, al fine di superare la cosiddetta “paura della firma”, ha deciso di ridurre il perimetro dell’elemento soggettivo, modificando – in via permanente – la l. n. 20/1994, riqualificando il dolo condizione dell’azione erariale alla stregua di quello penalistico e prevedendo – in via “transitoria” – la non perseguibilità della colpa grave con riferimento ai comportamenti commissivi, dall’altro, ha introdotto una serie di disposizioni volte ad ampliare il numero di fattispecie tipizzate di responsabilità dirigenziale. Il decreto-legge (si vedano, ad es., gli artt. 24, 32, 33, 34), infatti, reca alcune novelle al codice dell’amministrazione digitale (ad es., gli artt. 32, 33, 34), le quali – allo stesso tempo – assegnano specifici compiti alle pubbliche amministrazioni e introducono puntuali meccanismi sanzionatori, tutti riconducibili al cosiddetto ciclo della performance, in caso di inadempienza. In particolare, l’art. 32 del decreto-legge semplificazioni prevede che le pubbliche amministrazioni, nell’ambito delle risorse disponibili e nel rispetto del codice di condotta tecnologica, progettino, realizzino e sviluppino sistemi informatici e servizi digitali. Il legislatore ha anche individuato l’autorità competente (AgId) a verificare il rispetto del codice di condotta e alla stessa ha riconosciuto specifici poteri, quali quello di diffida. La norma prevede, inoltre, un meccanismo sanzionatorio fondato sull’equivalenza tra la progettazione, la realizzazione e lo sviluppo dei servizi digitali e dei sistemi informatici in violazione del codice di condotta e il mancato raggiungimento, da parte dei dirigenti responsabili delle strutture competenti, di uno specifico risultato o di un rilevante obiettivo. A tale violazione consegue la riduzione (in misura non inferiore al 30 per cento) della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale per i dirigenti competenti, nonché il divieto di attribuire premi o incentivi nell’ambito delle medesime strutture. L’art. 24 prevede specifici adempimenti, a carico dei gestori di società pubbliche e delle società a controllo pubblico, per l’identificazione dei propri utenti di servizi on-line esclusivamente attraverso identità digitali, e l’art. 33 dispone che le pubbliche amministrazioni certificanti detentrici dei dati ne assicurino, attraverso accordi quadro, la fruizione da parte di altre pubbliche amministrazioni e dei gestori di servizi pubblici. Tali norme, inoltre, sono corredate da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione dei suddetti obblighi, secondo modalità analoghe a quelle descritte in precedenza. L’art. 34 prevede, modificando la disciplina della piattaforma digitale nazionale dei dati, l’obbligo di rendere disponibili e accessibili le proprie basi dati ovvero i dati aggregati e anonimizzati. L’attuazione di tale disposizione deve avvenire sempre a invarianza degli oneri ed è corredata dal suddetto meccanismo sanzionatorio in caso di inadempimento. Infine, anche l’art. 47 chiama in causa i sistemi di valutazione delle performance individuali dei dirigenti e prevede l’introduzione, nei medesimi sistemi, di specifici obiettivi connessi all’accelerazione dell’utilizzazione dei fondi nazionali ed europei per gli investimenti nella coesione e nelle riforme. In questa fattispecie non sono però stabili a priori i limiti quantitativi dei relativi meccanismi sanzionatori. Tali disposizioni si aggiungono a quelle già contenute nel decreto-legge cosiddetto rilancio (si vedano gli artt. 116 e 117) adottato durante l’emergenza Covid-19 (38), le quali hanno previsto la possibilità per gli enti territoriali – secondo rigidi e precisi parametri – di chiedere alla Cassa depositi e prestiti s.p.a. anticipi di liquidità per il pagamento dei debiti certi liquidi ed esigibili e contestualmente hanno definito regole per la parziale estinzione delle suddette anticipazioni, della cui violazione deve tenersi conto proprio ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili, con i conseguenti effetti in termini di responsabilità dirigenziale e disciplinare (ex artt. 21 e 55 d.lgs. n. 165/2001). Il dato normativo del periodo emergenziale, da un lato, conferma la più recente tendenza della legislazione di arginare i rischi connessi all’inerzia o alle omissioni dei pubblici agenti. Era già avvenuto, ad esempio, con l’introduzione o la rielaborazione di specifici istituti di natura sostanziale (quali, a titolo esemplificativo, le modifiche alla disciplina del silenzio o alle tipologie e modalità di azione delle conferenze di servizio). Dall’altro lato, esso si connota per una specifica peculiarità, quella di intervenire non sul procedimento, bensì sul sistema delle responsabilità e delle correlate sanzioni. Il materiale informativo (39) che correda il disegno di legge di conversione del decreto-legge semplificazioni, nel delineare la ratio del duplice intervento previsto sulla disciplina sostanziale della responsabilità amministrativo-contabile, mutua le motivazioni già utilizzate per le riforme alla pubblica amministrazione adottate negli anni Novanta e Duemila, vale a dire la necessità del raggiungimento di risultati, ma sembra lasciare in ombra quello che è il fondamento primigenio della responsabilità dei pubblici dipendenti, il quale si rinviene nell’art. 28 della Costituzione. Tale articolo fu oggetto di un lungo dibattito in sede di Assemblea costituente, di cui è prova la sua formulazione, che fu il frutto di un articolato compromesso tra le diverse forze politiche in essa rappresentate (40), le quali – al di là delle specifiche differenze – pressoché unanimemente lo ritenevano una norma di chiusura a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Sebbene sia oramai granitica la giurisprudenza e arata in dottrina l’enucleazione delle diverse finalità che l’articolato novero delle cinque responsabilità degli agenti pubblici persegue e la loro non alternatività, è innegabile che tali fattispecie costituiscano un insieme unitario. È allora interessante procedere al confronto tre le modifiche che il decretolegge semplificazioni ha introdotto con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile e a quella dirigenziale. In particolare, il ricorso a forze talvolta centripete e talora centrifughe per modificare il perimetro e la configurazione delle summenzionate responsabilità contiene in nuce il rischio che le modifiche del dato normativo possano dar luogo ad alcune aporie e talora finanche a una eterogenesi dei fini che tali modificazioni hanno animato. In primo luogo, tale disamina può prendere le mosse dalle modifiche all’elemento soggettivo. Se da un lato, infatti, la responsabilità dirigenziale si è progressivamente configurata alla stregua di una responsabilità oggettiva (41) e può prescindere dall’elemento soggettivo (sia esso riconducibile al dolo o alla colpa intesa come negligenza), non può non destare preoccupazione il fatto che si moltiplichino gli adempimenti che possono dare luogo alla stessa senza tenere adeguatamente conto della solidità delle strutture amministrative chiamate ad adempierli e dell’adeguatezza delle risorse economiche assegnate. Indice della sottovalutazione di tali aspetti è la sempre maggiore numerosità di disposizioni normative corredate da clausole di neutralità finanziaria (si vedano alcuni dei casi in precedenza menzionati) la cui idoneità e “robustezza” non sono sufficientemente suffragate nelle relazioni tecniche. Dall’altro, le modifiche apportate alla disciplina sostanziale che qualifica l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativo-contabile, prendendo le mosse da un asserito conflitto tra orientamenti giurisprudenziali, riducono in potenza il perimetro del dolo erariale, avvicinandolo sempre più alla configurazione di matrice penalistica (42). La riforma introdotta dal decreto-legge semplificazioni, intervenendo sulla qualificazione dell’elemento soggettivo e differenziando la disciplina da applicare in presenza di comportamenti omissivi rispetto a quelli commissivi, rischia di rendere più difficile sia la tutela di importanti aree del danno erariale, quale quello indiretto (43), sia la sottoposizione a giudizio di alcuni reati di particolare disdegno sociale (44). Inoltre, tale disciplina potrebbe modificare i comportamenti degli agenti pubblici, sostituendo la “paura della firma” con “l’audacia della firma a qualunque costo”, a prescindere dalla adeguata verifica di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento anche nella consapevolezza che la responsabilità potrà essere attribuita a qualcun altro (ad es., a coloro in capo ai quali potrà essere riconosciuto un generico obbligo di vigilanza). Inoltre, le modifiche apportate, seppure in via transitoria (45), alla qualificazione dell’elemento soggettivo – differenziandone il perimetro in caso di condotte commissive o omissive – trascurano la complessità dell’agere pubblico, che non consente, in particolare nei procedimenti articolati su più livelli, di scomporli in sezioni distinguendo quelli dove vi è azione da quelli dove può rinvenirsi l’omissione. A tale proposito, pare utile sottolineare che le riforme che già hanno interessato in passato la responsabilità di cui alla l. n. 20/1994 (46) debbano essere lette e valutate in parallelo con l’evoluzione del perimetro del danno erariale e che tale evoluzione non vada tralasciata prima di intervenire – anche se solo in via transitoria – sulla disciplina sostanziale di tale responsabilità.

Tale evoluzione, infatti, ha affiancato a una concezione di tipo naturalistico – connessa alla diminuzione, computata secondo criteri meramente ragionieristici, del valore della cosa distrutta o perduta, ovvero della somma indebitamente erogata nonché delle eventuali mancate entrate, in presenza di un rigido onere probatorio in termini di certezza e attualità del danno – una configurazione di tipo commutativo del danno erariale – ispirata ai principi di efficienza e di efficacia della spesa – nella quale il depauperamento del patrimonio pubblico si concretizza anche nel caso di acquisto di beni poi inutilizzati o inutilizzabili dalla collettività. In secondo luogo, la modifica del perimetro delle singole responsabilità e, in particolare, l’estensione attraverso la tipizzazione della responsabilità dirigenziale non consente più di rinviare la valutazione sull’adeguatezza del ciclo della gestione della performance (47), in particolare con riferimento ai principi ai quali lo stesso si conforma, al suo contenuto sostanziale, nonché alla sua governance. Con riferimento al profilo dei principi, tale ciclo prende in prestito dai procedimenti giurisdizionali il rispetto di quelli della tutela del contraddittorio e dell’imparzialità. Con riferimento a tale ultimo principio, il legislatore ha, infatti, previsto che i provvedimenti conseguenti a responsabilità dirigenziale (quali il mancato rinnovo, la revoca dell’incarico o di il recesso dal rapporto di lavoro in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati o di inosservanza delle direttive, nonché la decurtazione della retribuzione di risultato in caso di colpevole violazione del dovere di vigilanza sul personale assegnato (48)), vengano adottati nel rispetto dei principi del giusto procedimento. Tra gli strumenti attraverso i quali realizzare il giusto procedimento vi è la previsione del previo parere – obbligatorio, ma non vincolante – del Comitato dei garanti (49). Tale organismo non solo è stato istituito a distanza di diversi anni dalla sua previsione in via normativa, ma ha incontrato anche delle difficoltà ad affermarsi in concreto non essendo, come si evince da una nota emanata dal Dipartimento della funzione pubblica nel 2013 (50), mai adito dalle amministrazioni per ottenerne il parere previsto (51). Per quanto concerne il contenuto sostanziale dei documenti che compongono il ciclo, il legislatore ha tentato, nella formulazione del dettato normativo, di correlare il piano della performance con i documenti e le grandezze di finanza pubblica. Infatti, la normativa prevede che tale piano sia predisposto «a seguito della presentazione alle Camere del documento di economia e finanza, di cui all’articolo 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196» e che debba essere coerente con le note integrative al disegno di legge di bilancio. Tuttavia, non può negarsi l’ancora forte discrasia tra la definizione degli obiettivi e la corrispondente individuazione sia delle risorse effettivamente necessarie per la loro attuazione, sia di strumenti di misurazione efficace del grado della loro realizzazione. Infine, con riferimento alla governance, i documenti nei quali si articola il ciclo della performance si connotano sempre più per essere, allo stesso tempo, espressione del principio della separazione tra il potere politico e la dirigenza (52), ma anche della loro necessaria collaborazione, e vengono alla luce secondo modalità non di tipo top-down, bensì circolari. Proprio alla luce di tale modalità di formazione e ferma rimanendo la pluralità degli obiettivi nei quali si articola tale ciclo (generali e specifici, nonché individuali), occorrerà valutare come coniugare la fonte primigenia degli stessi, vale a dire il quadro del programma di Governo e la direttiva annuale di ogni ministro (53), con le molteplici disposizioni normative introdotte dal legislatore, quali quelle da ultimo ricordate. Tali norme possono, quindi, intendersi alla stregua di norme manifesto oppure come il tentativo di sostituire o quantomeno limitare, ex lege, l’autonomia definitoria degli obiettivi da parte dei singoli ministri e l’esercizio del proprio potere di indirizzo. Alla luce di tali considerazioni, il dato reale mostra le molte ombre dell’efficacia del ciclo della performance così come delineato nel suo impianto teorico e declinato in concreto. Tale ciclo, infatti, difficilmente potrà produrre risultati efficaci qualora non si verifichino, contestualmente, almeno le seguenti condizioni: una scelta degli obiettivi connotata dalla compiuta definizione del loro perimetro da parte degli organi politici; una assegnazione adeguata di risorse finanziarie e umane ex ante; un monitoraggio costante dell’implementazione di tali obiettivi e una verifica ex post del loro raggiungimento attraverso strumenti che siano “in concreto” adeguati. In sintesi, alla luce di tali considerazioni, il complesso ordito normativo che emerge dalle recenti modifiche legislative, da un lato mostra con evidenza la proliferazione di adempimenti corredati da meccanismi sanzionatori dei quali, peraltro, non è altrettanto chiara l’effettiva efficacia in assenza di un censimento e di un riordino che li riconduca a una unitarietà; dall’altro lato rende evidente che la modifica di elementi costitutivi della responsabilità erariale, sulla base di asseriti obiettivi di politica pubblica, non può prescindere da una compiuta analisi delle finalità ultime di tale responsabilità – troppo spesso ritenuta un doppione di altre –, dei mezzi probatori utilizzabili e delle peculiarità del danno erariale. In conclusione, quindi, occorre porsi l’interrogativo se il buon funzionamento della pubblica amministrazione possa meglio passare per un’adeguata formazione della classe dirigente, per il ricorso a efficaci strumenti di reclutamento e per una corretta individuazione delle risorse economiche da destinare a specifici obiettivi, la quale prescinda, quindi, dalla mera logica incrementale anche senza arrivare a tentativi utopici quali il cosiddetto zero based budget (54). Non può, infine, più eludersi la domanda se procedere, in alcuni settori assai complessi (ad es., le grandi opere pubbliche), a progressive tipizzazioni delle condotte non suscettibili di dar luogo alla responsabilità amministrativocontabile al fine di tracciare una strada e individuare best practices, anche tenendo conto egli arresti giurisprudenziali in materia; ma prima di formulare una risposta occorrerà riflettere sui rischi connessi a una normazione troppo legata al raggiungimento di obiettivi di breve periodo o basata sulla generalizzazione delle esigenze connesse a eventi, che per quanto importanti, rimangono straordinari. Non farlo porterebbe con sé il rischio – tutto da valutare – che gli agenti pubblici, invece di seguire la luce bianca rappresentata dai doveri costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, siano accecati dai molteplici colori nei quali si declinano le singole disposizioni legislative una volta entrate nel prisma del nostro articolato corpus normativo, in tal modo spostando il baricentro dell’agere pubblico verso la Costituzione dei poteri e non verso quella dei diritti (55).

6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie

L’art. 21 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, del ha apportato una importante novità di natura strutturale al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale. All’art. 1, c. 1, della l. n. 20/1994 è stato infatti inserito un nuovo periodo: «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso». In sede processuale la novella sarà certamente utilizzata dai difensori per sollevare eccezioni alle quali i pubblici ministeri saranno chiamati a replicare. Nelle righe che seguono si prova ad immaginare, in forma dialogica, un’ipotesi di processo contenente le possibili contrapposte tesi tra accusa e difesa. L’intento del contributo, che ha natura didascalica e divulgativa, è quello di far comprendere, anche a chi non è propriamente un giurista, i possibili risvolti della novella e gli effetti che la stessa potrebbe avere in ordine al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale dei pubblici dipendenti, sino al punto da ipotizzarne, di fatto, una sua sterilizzazione, anche a fronte di comportamenti dannosi conseguenti ad ipotesi di reato. Naturalmente ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

AULA D’UDIENZA

SEGRETARIO D’UDIENZA Viene chiamato il giudizio n. 9999 ad istanza della procura regionale contro il sig. Tizio.

RELATORE              Il convenuto Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, è stato chiamato dalla procura regionale a risarcire i danni conseguenti al crollo dell’edificio da riconnettersi, a giudizio di parte attrice, alla omissione delle funzioni di controllo da parte di Tizio stesso, a seguito della accettazione di contribuzioni illecite corrispostegli dal titolare dell’impresa appaltatrice Questo collegio, all’esito di precedente udienza, aveva disposto una c.t.u. tesa a verificare le ragioni del crollo dell’edificio che, secondo la c.t.p. prodotta dal pubblico ministero, erano riconducibili a difetti di costruzione per utilizzo di materiali impropri. A seguito del deposito della consulenza la procura insiste per la condanna mentre la difesa del convenuto eccepisce la mancata prova da parte dell’attrice della volontà di provocare il danno.

PUBBLICO MINISTERO Signor presidente, signori giudici, la vicenda che ha dato origine al giudizio è molto semplice. Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, svolgeva funzioni di direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, allorquando ha accettato contribuzioni illecite da parte dell’appaltatore per “ammorbidire” – anzi sarebbe più corretto dire omettere del tutto – i controlli di sua spettanza sulla realizzazione a regola d’arte del manufatto. Come le indagini hanno consentito di accertare, egli ha totalmente abdicato alla propria funzione consentendo all’imprenditore privato di risparmiare sulla qualità e quantità dei materiali utilizzati. La stessa c.t.u. disposta da codesto collegio ha ampiamente dimostrato come il crollo sia stato la conseguenza della scarsa qualità del calcestruzzo e della altrettanto scarsa quantità delle armature del cemento armato. Ebbene appare evidente come nella fattispecie siano presenti tutti i presupposti per una condanna per danno erariale: il danno, pari all’intera spesa sostenuta dall’amministrazione per i lavori; il rapporto di servizio di Tizio con l’amministrazione comunale in quanto direttore dei lavori e al contempo responsabile dell’ufficio tecnico; la violazione degli obblighi di servizio rappresentata dalla omissione dei controlli a lui intestati; il nesso di causalità tra tale violazione e le conseguenze dannose ed infine la colorazione dolosa della condotta, attesa la provata corruzione di Tizio stesso ad opera dell’imprenditore (tutte circostanze abbondantemente provate come in atti). Per tutti i motivi esposti si insiste per la condanna.

AVVOCATO               Eccellentissimo collegio, è vero quello che ha detto il p.m. La fattispecie fattuale oggetto dell’odierno giudizio è semplice. Il mio assistito, come peraltro ha anche ammesso lui stesso, ha concluso un pactum sceleris con l’appaltatore: ha accettato tangenti in cambio di un “occhio di riguardo”. Ha girato la testa dall’altra parte mentre venivano armati i pilastri. Era assente al momento della gettata del cemento armato. Ma, signori giudici, il pubblico ministero, quando, poco prima di concludere, ha analizzato la presenza nel caso di specie di tutti gli elementi propri della responsabilità erariale, ha commesso un errore allorquando ha riferito l’elemento psicologico del dolo del mio assistito alla condotta (l’aver accettato tangenti). Mi spiego meglio. Certamente il mio assistito ha voluto accettare la tangente. Certamente ha volontariamente omesso i controlli che gli competevano quale contropartita del denaro illecito ricevuto. In tal senso certamente la sua condotta è stata dolosa. Ma è sufficiente ciò per una sua condanna? Per rispondere alla domanda ci viene in soccorso il legislatore stesso che con l’art. 21 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, nel novellare l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/94 ha inserito un alinea che prevede testualmente che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Questa prova non è stata fornita. Non c’è nulla, agli atti del processo, che dimostri che il mio assistito volesse l’evento dannoso, volesse, in sostanza, il crollo dell’edificio o volesse in qualche modo procurare un pregiudizio all’amministrazione. Cosa emerge dagli atti? Che ha voluto approfittare della propria posizione all’interno dell’amministrazione, del proprio ruolo di controllo, per arricchirsi illecitamente. Voleva anche procurare un danno all’ente? Certamente no ed in ogni caso non c’è nulla che lo provi. Ebbene, in mancanza della prova – testualmente – “della volontà dell’evento dannoso”, il mio assistito va assolto per carenza (o meglio per mancata dimostrazione dell’esistenza) di quello che è, oggi, uno degli elementi essenziali della responsabilità amministrativa: il dolo. Insisto pertanto per un’assoluzione piena del convenuto.

PUBBLICO MINISTERO La difesa, nel pretendere che parte attrice dia dimostrazione, come richiede la legge, della volontà dell’evento dannoso, mostra di aderire alla teoria naturalistica del dolo come originata in ambito penalistico: il dolo riferito all’evento, alla volontà, in sostanza, di produrre il risultato naturalistico della condotta. L’evento dannoso inteso come evento naturalistico; teoria che è stata costruita intorno al reato di omicidio volontario in cui il dolo si caratterizza in relazione ad un fatto naturale (la morte) che la legge richiede sia voluto. Dimentica però l’avvocato che questa teoria, già in ambito penalistico, ha mostrato i propri limiti con riferimento a tutti quei reati che non sono caratterizzati da un evento (come i reati di pericolo) ed in cui una data condotta è punita indipendentemente dal fatto che alla stessa consegua poi un certo evento in senso naturalistico. In tal caso, anche in sede penale, l’evento dannoso è rappresentato da una condotta ritenuta pericolosa. In questi casi il dolo viene associato non all’evento naturalisticamente inteso, che non c’è, ma alla condotta. D’altronde lo stesso art. 43 del codice penale laddove specifica che un delitto è “doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”, dimostra chiaramente che se un evento dannoso può corrispondere ad un evento naturalistico, quello pericoloso non può che corrispondere ad una condotta. È solo la condotta che può rappresentare un pericolo; pericolo di un successivo evento. Nell’associazione a delinquere ad esempio, è l’associarsi con uno scopo ritenuto pericoloso dall’ordinamento (condotta) che viene punita, indipendentemente dalla commissione di altri reati (evento). Entrambi i casi, evento naturalistico e condotta pericolosa, costituiscono un fatto, sono l’elemento fattuale previsto dalla legge come reato. Nell’illecito penale c’è sempre un fatto rilevante: talvolta esso è un evento naturalisticamente inteso (reati di evento), in altri casi è una mera condotta potenzialmente pericolosa, scandalosa o comunque riprovevole e come tale da punire. Le conseguenze della condotta stessa, quindi, non sempre rilevano ai fini della connotazione dell’elemento psicologico. L’elemento volitivo va ricondotto al fatto (che a volte è evento, a volte mera condotta) previsto dalla legge come reato. E qui sta la differenza con la responsabilità per danno erariale. Mentre le fattispecie penalmente punibili sono sempre tipiche e devono essere specificamente previste dalla legge, ciò che caratterizza la responsabilità per danno erariale è invece la sua atipicità. La responsabilità amministrativa infatti si inserisce, in un rapporto di genus a species, nell’ambito della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. in cui sia la condotta, sia le sue conseguenze in termini di diminuzione patrimoniale (il danno), sono sempre atipiche. L’interprete non è chiamato a confrontare il fatto con un paradigma normativo precostituito, quanto piuttosto con la serie di elementi che caratterizzano la responsabilità, verificandone, di volta in volta, la sussistenza. Ebbene, andando ad indagare l’elemento psicologico nei casi di responsabilità a titolo doloso emerge che mai l’agente pubblico infedele persegue, direttamente, le conseguenze dannose; queste sono invece semplice conseguenza, secondo lo schema dell’id quod plerumque accidit, della condotta. Anche nelle ipotesi di peculato, allorquando l’agente pubblico si impossessa di beni dell’amministrazione, il suo scopo non è impoverirla; egli vuole solo arricchirsi, accettando al contempo la conseguenza del suo impoverimento. L’elemento volitivo va allora ricondotto al comportamento illecito e non alle sue conseguenze che sono solo eventuali, se pur indispensabili per una declaratoria di responsabilità. Ciò è ancor più vero nelle ipotesi, come quella oggetto del giudizio, in cui le conseguenze dannose sono da ricondursi anche a comportati concorrenti altrui o a circostanze ultronee. Il funzionario infedele non persegue le conseguenze della propria condotta o comunque non si pone il problema di prefigurarsele e se anche lo fa, ne accetta il rischio. Il dolo nella responsabilità amministrativo contabile è allora sempre dolo eventuale. “L’evento dannoso” non può allora coincidere con la diminuzione patrimoniale, ma necessariamente con la condotta infedele, con quella condotta che, non essendo rispettosa delle regole che la governano, genera per l’amministrazione il pericolo di subire conseguenze dannose che vengono implicitamente accettate. Nella fattispecie di cui all’odierno giudizio il pericolo è quello – poi concretizzatosi – che, in assenza di adeguati controlli, l’imprenditore possa eseguire l’opera non a regola d’arte. È la condotta illecita e quindi pericolosa, che è voluta e che espone l’amministrazione al rischio di un danno che, in quanto prevedibile, viene accettato come possibile conseguenza.

AVVOCATO                 La ricostruzione del pubblico ministero non è accettabile. L’evento dannoso è evento naturalistico e coincide con il danno, con la diminuzione patrimoniale. Ciò trova conferma nella stessa giurisprudenza della Corte dei conti che ha sempre fatto coincidere il fatto dannoso con il danno ai fini della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione. Il legislatore è stato chiaro: è il danno che deve essere perseguito per aversi responsabilità dolosa. Non possono allora dar luogo a responsabilità le conseguenze dannose non volute o riconducibili a comportamenti altrui. Nella fattispecie Tizio non ha provocato alcun danno. Questo è stato il frutto del comportamento dell’imprenditore che ha impiegato materiali di qualità e quantità inferiore al dovuto.

PUBBLICO MINISTERO Atteso che il danno nella responsabilità amministrativa non è mai direttamente riconducibile alla volontà, ma semplice conseguenza del comportamento, se, come sostiene l’avvocato, lo si facesse coincidere con l’evento dannoso, si avrebbe una inammissibile esenzione di responsabilità con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 21 del decreto-legge n. 76/2020. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione impone allora che l’elemento psicologico doloso vada sempre rapportato alla condotta e non al danno ed il concetto di “evento dannoso” vada inteso come “fatto capace di creare danno”. Questo fatto è il comportamento. Non contraddice la ricostruzione che si offre l’art. 1, comma 2, della legge 20 del 1994, laddove statuisce che «Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso». La norma, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, utilizza l’espressione “fatto dannoso” e non “evento” dannoso. Appare evidente come, in tal caso, ai soli fini della decorrenza della prescrizione, la locuzione vada intesa come fatto naturalistico, come diminuzione patrimoniale in quanto, trattandosi di una responsabilità di natura risarcitoria di cui il danno costituisce elemento imprescindibile, il diritto al suo risarcimento, e quindi il termine prescrizionale, non può che iniziare a decorrere da quando esso si è concretizzato; ciò nel rispetto del principio di cui all’art. 2935 c.c. secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Si conclude pertanto insistendo per la condanna del convenuto.

AVVOCATO           Signor presidente le ipotesi interpretative del pubblico ministero, per quanto affascinanti sotto il profilo teorico, sono inaccettabili perché mirano a dare alla stessa locuzione letture differenti. La realtà è però un’altra: esse si scontrano con il dato testuale della norma che richiede la prova della volontà dell’evento dannoso. Agli atti del giudizio questa prova non c’è. Il mio assistito va quindi assolto.

PRESIDENTE          Le parti hanno abbondantemente argomentato le proprie ragioni fornendo ampio materiale di riflessione a questa Corte. Sarà deciso.

(1) Comprese quelle, solo apparentemente minori, del doloso occultamento e del doloso arricchimento, che se non incidono sull’an dell’illecito amministrativo, sono tuttavia in grado, ex lege, di condizionarne ampiamente la portata degli effetti.

(2) Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 22 dicembre 2017, n. 399, in .

(3) Espressione, questa, che peraltro trova un riscontro nella legislazione di settore, per quanto qui interessa, nell’art. 1-bis della l. 14 gennaio 1994, n. 20, secondo cui «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

(4) V., ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., 11 aprile 2018, n. 150, in questa Rivista, 2018, fasc. 3-4, 168, con nota di richiami.

(5) Il Conte di Cavour, fra i giganti della politica europea dell’800, e, per aver ideata e istituita la Corte dei conti, figura di spicco del suo Pantheon ideale (insieme a grandi magistrati come, fra gli altri, Giovanni Giolitti e Costantino Mortati), aveva come noto pensato, in prima persona, a “un castigo in danaro” e al conferimento al giudice contabile del potere equitativo (“secondo le circostanze dei casi”) di “porre a carico” dei responsabili “una parte soltanto dei valori perduti” (lo spunto avrebbe preso forma cogente nell’art. 47 del r.d. 3 novembre 1861, n. 302, sulla contabilità generale dello Stato,).

(6) V., amplius, Corte cost. n. 272/2007.

(7) Da ultimo, in tal senso, Cass., S.U., 7 maggio 2020, n. 8634, la quale si spinge a trarne, sul piano delle conseguenze pratiche, persino che «qualora si tratti dell’accertamento di un fatto reato da parte del giudice penale, la pubblica amministrazione, anche laddove non abbia esercitato l’azione civile nel processo penale, come nella specie, ben può agire in sede civile, per le restituzioni e per il risarcimento del danno, senza che siffatta azione sia ad essa preclusa».

(8) Così Corte conti, Sez. riun. giur., n. 12/2007: «ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, e della conseguente applicazione della sanzione ivi prevista, sia necessaria la sussistenza della colpa grave, o, ovviamente, del dolo, e ciò nella considerazione, desunta dal dato letterale della norma, che la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, nel disciplinare l’elemento soggettivo ai fini della sussistenza della “responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”, stabilisce espressamente che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità, nel merito, delle scelte discrezionali” (art. 1, comma 1, legge n. 20/1994 come modificato dall’art. 3, comma 1, legge n. 639/1996). In altre parole, pur alla luce delle diverse posizioni assunte, sul piano giurisprudenziale, dalle sezioni che si sono fin qui pronunciate sulla questione, e che oscillano tra il ritenere necessaria la “colpa grave” (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), e il ritenere sufficiente una qualsiasi colpa, seppur lieve (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005) o “lievissima”, secondo i principi generali in materia di sanzioni amministrative di cui all’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (cfr. Sez. giur. Regione Siciliana, n. 3198/2006, Sez. giur. Marche, n. 151/2007), queste Sezioni Riunite ritengono che non possa, in ogni caso, prescindersi dal dato letterale della citata disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, in cui il legislatore, senza operare alcuna distinzione fra le diverse forme di responsabilità (responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio e responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, come quella in parola), ha stabilito espressamente che “la responsabilità (senza alcuna distinzione – n.d.r.) dei soggetti (comunque – n.d.r.) sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica (e non v’è dubbio alcuno che, sulla base di quanto sopra si è detto, anche la fattispecie sanzionatoria in parola rientri fra le materie di contabilità pubblica, n.d.r.) è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave”».

(9) Ibidem.

 (10) Ibidem.

(11) Per risalente indirizzo delle magistrature speciali (Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 13 aprile 2000, 1192; Tar Calabria, Catanzaro, 11 luglio 1991, n. 455; Cons. Stato 14 maggio 1983, n. 330), la responsabilità dirigenziale non presuppone un accertamento dell’imputabilità di essa a titolo di colpa o dolo, ma postula, da un lato, la riconduzione dell’attività della pubblica amministrazione alle scelte gestionali del dirigente e, dall’altro, l’inefficacia di queste a raggiungere gli obiettivi previsti.

(12) V. l’audizione di Massimo Luciani (professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”) innanzi le Commissioni 1a e 8a del Senato della Repubblica del 27 luglio 2020.

(13) V. Cass., S.U., n. 24859/2019; n. 8634/2020, cit.; n. 16722/2020). Giova a tal riguardo richiamare anche una recentissima Cass., S.U., n. 21975/20, che, nel ribadire il proprio orientamento in merito al riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a. in caso di azioni di risarcimento promosse nei confronti di dipendenti pubblici in proprio, con precisazione di interesse anche per il riparto con questa magistratura contabile, ha evidenziato che: «qualora la domanda sia proposta nei confronti del funzionario, non rileva stabilire se questi abbia agito quale organo dell’ente pubblico di appartenenza ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la c.d. “frattura” del rapporto organico con quest’ultimo, posto che, nell’uno come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato ex art. 28 Cost.; la stessa conclusione (giurisdizione ordinaria) si impone anche quando la pretesa risarcitoria scaturisca dall’adozione da parte del funzionario, convenuto in proprio, di un provvedimento illegittimo, assumendo questa circostanza la valenza di fatto illecito extracontrattuale intercorrente tra privati, e non ostando a ciò la eventuale proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, posto che l’effettiva riferibilità all’ente dei comportamenti dei funzionari attiene al merito e non alla giurisdizione. Si tratta di indirizzo più volte successivamente riaffermato».

(14) Come noto, in materia di dolo si erano andati delineando, nel corso degli anni, due contrapposti indirizzi nell’ambito della giurisprudenza contabile. Secondo un primo orientamento, asseritamente ispiratosi alla nozione civilistica del dolo in adimplendo (art. 1225 c.c.), il c.d. “dolo contrattuale” andava inteso non come «coscienza e volontà di provocare il danno, ma [quale] mera consapevolezza e volontarietà dell’inadempimento. La nozione è ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza contabile sul presupposto che la responsabilità amministrativa abbia natura di responsabilità contrattuale, invero caratterizzata dalla violazione di obblighi di servizio inerenti al rapporto che lega il funzionario pubblico con l’amministrazione» (v. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 399/2017). In altre parole, mentre «il dolo penale viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di nuocere, ossia di agire ingiustamente a danno di altri da parte di persona imputabile, […] il dolo contrattuale consiste [invece] nel proposito consapevole di non adempiere all’obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri riconducibili all’espletamento del rapporto di impiego, ovvero di servizio per quanto concerne i soggetti privati», a prescindere dalla volontà di provocare l’evento dannoso (v. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 58/2007; nel senso dell’applicabilità della nozione di dolo contrattuale al giudizio di responsabilità, v., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 7/2017; Sez. giur. reg. Campania, n. 951/2014; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 229/2014; Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Bolzano, n. 24/2013; Sez. giur. reg. Veneto, n. 613/2012; Sez. giur. reg. Umbria, n. 390/2003; Sez. giur. reg. Lazio, n. 783/2003; Sez. I centr. app., n. 426/2002; Sez. giur. reg. Siciliana, n. 609/2002). Viceversa, per un secondo ed opposto orientamento giurisprudenziale il «dolo altro non è che l’intenzionalità di un comportamento produttivo di un evento pregiudizievole, in specie la consapevole volontà di arrecare un nocumento contra ius all’amministrazione lato sensu intesa […] Di talché […] per la sussistenza del c.d. dolo erariale non basta la consapevole violazione degli obblighi di servizio ma serve la volontà di produrre l’evento dannoso» (Sez. giur. reg. Veneto, n. 191/2014; nel senso che il dolo consiste nell’intenzionalità del comportamento produttivo dell’evento lesivo, vale a dire nella consapevole volontà di arrecare un danno ingiusto all’amministrazione, v. altresì, ex multis, Sez. giur. reg. Umbria, n. 2/2017; Sez. giur. reg. Abruzzo, n. 18/2017; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 38/ 2014; Sez. II centr. app., n. 534/2014; Sez. giur. reg. Puglia, n. 1628/2013; Sez. III centr. app., n. 783/2013; n. 724/2013; n. 510/2004; Sez. giur. reg. Veneto, n. 175/2013; n. 1124/2012).

(15) Volendo tralasciare i prevedibili effetti negativi, in termini di immagine, per coloro che risultino accusati di avere dolosamente depauperato l’ente di appartenenza, anziché di avere agito più semplicemente con colpa grave, occorre considerare che la contestazione di avere cagionato un danno a titolo di dolo, se accolta, determina inevitabilmente conseguenze negative anche sul piano più strettamente giuridico, comportando, ad esempio, che nel caso di concorso di più persone nell’illecito contabile i soli corresponsabili a titolo di dolo siano tenuti a rispondere solidalmente per l’intero ammontare danno, anziché in via parziaria per la sola parte di danno da essi cagionata (art. 1, c. 1-quinquies, l. 14 gennaio 1994, n. 20).

(16) Si pone espressamente il problema della duplicità di orientamenti in materia di dolo, ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., n. 401/2014, finendo per privilegiare il secondo indirizzo e affermando, di conseguenza, che «il dolo deve consistere nella volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa».

(17) Secondo la relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883, «la norma [di cui all’art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020] chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto».

(18) Imputare a taluno a titolo di dolo un evento dannoso solo perché si sia violata consapevolmente una regola di condotta o un obbligo di servizio, come propugnato dalla teoria del c.d. “dolo contrattuale”, porterebbe inevitabilmente a riconoscere come dolose certe condotte anche quando l’autore del comportamento abbia agito nella assoluta convinzione di non provocare danno alcuno, ossia senza alcuna intenzionalità di cagionare danno all’amministrazione.

(19) Adottato con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, ai sensi dell’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124, il codice di giustizia contabile è stato successivamente oggetto di modifiche ad opera del d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114 (c.d. correttivo).

(20) Pur essendo espressamente indicata tra i mezzi di prova di cui il giudice contabile può avvalersi – se ritualmente dedotta e processualmente rilevante – ai fini dell’accertamento dei fatti, nella prassi quotidiana è estremamente raro che venga ammessa la testimonianza di persone informate sui fatti (art. 98 c.g.c.), preferendosi viceversa privilegiare il mero esame dei verbali redatti in sede di indagine da parte degli organi inquirenti (per uno dei pochissimi casi in cui invece la prova testimoniale risulta essere stata ammessa e assunta in giudizio, v. Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, n. 47/2018).

(21) La proliferazione, nell’ambito del giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, di fattispecie seriali con connotazioni penalistiche, generalmente frutto di appositi filoni di indagine condotti da organismi di polizia giudiziaria su diffusi fenomeni illeciti di carattere appropriativo (ad es., da ultimo, il mancato riversamento dell’imposta di soggiorno da parte di esercenti alberghieri, astrattamente sussumibile nel delitto di peculato), si può spiegare anche con la facilità di gestione di un ampio numero di fascicoli da parte delle procure contabili e con l’elevato tasso di accoglimento dei relativi atti di citazione. Invero, dall’esame di diverse relazioni annuali pubblicate negli ultimi anni sul sito istituzionale della Corte dei conti in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario si evince l’impressione che l’attività giurisdizionale stia cadendo ostaggio di una sorta di ansia da prestazione, cedendo alla tentazione di ridurre il resoconto della stessa ad una fredda analisi costi/benefici in termini di numeri (possibilmente crescenti) di atti di citazione emessi e di importi (possibilmente elevati) di condanne ottenute. In questo senso si spiega, ad esempio, l’affermarsi di elaborazioni statistiche dei dati, talvolta frutto di opinabili se non addirittura poco trasparenti manipolazioni degli stessi, volte a evidenziare, in chiave marcatamente autoreferenziale, l’elevato rapporto tra le richieste di danni avanzate in citazione e gli importi di condanna liquidati in sentenza, quale presunto indice qualitativo del lavoro svolto. In altre parole, parafrasando un monito espresso dallo stesso Procuratore generale della Corte dei conti, il rischio è quello di scivolare in una sorta di datacrazia contabile, ossia nella «diffusione di dati solo apparentemente oggettivi, in realtà espressione di processi formativi ed informativi volti prevalentemente ad orientare il giudizio dei cittadini secondo finalità predeterminate. Processi nei quali gli indici statistici finiscono per diventare fine e non strumento» (Procuratore generale Avoli, Inaugurazione dell’anno giudiziario 2019).

(22) Come noto, dopo la riforma del codice di procedura penale del 1988, che ha abolito la pregiudiziale penale dell’art. 3 del previgente codice, e con la nuova formulazione dell’art. 295 c.p.c., sostituito dall’art. 35 della l. n. 353/1990, si è univocamente affermato il principio di autonomia e separatezza dei giudizi e la mancanza di pregiudizialità tra processo penale e processo di responsabilità amministrativa con la sola eccezione rappresentata dall’art. 651, c. 1, c.p.p., ai sensi del quale «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato»; cosicché, non essendo più configurabile un’ipotesi di sospensione obbligatoria, non si può dar luogo a sospensione del processo contabile quando il giudice sia in possesso di elementi idonei e sufficienti ai fini del decidere, anche se i giudizi concernano gli stessi fatti materiali (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, n. 257/2020; Sez. giur. reg. Toscana, n. 163/2020; Sez. II centr. app., n. 135/2020; Sez. I centr. app., n. 135/2020, in questa Rivista, 2020, fasc. 5, 208, m.). Tuttavia, nonostante tale principio costituisca ormai ius receptum, assai frequentemente capita ancora che, dinanzi alla prospettiva di accertare in via autonoma fatti di rilevanza penale, si preferisca attendere l’esito del concomitante processo penale sospendendo invece quello contabile (v., ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, ord. n. 17/2020; Sez. giur. reg. Marche, ord. n. 44/2019; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, ord. n. 41/2019; Sez. giur. reg. Lazio, ord. n. 130/2018). Vi è da aggiungere, però, che quando tali provvedimenti di sospensione sono tempestivamente impugnati in sede di regolamento di competenza (ex art. 119 c.g.c.) gli stessi vengono invariabilmente annullati da parte dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (cfr., ex plurimis, Corte conti, Sez. riun. giur., ord. n. 9/2018, ivi, 2018, fasc. 3-4, 155, con nota di richiami; nn. 6 e 12/2019, n. 2/2020).

 (23) La eccessiva esasperazione della c.d. paura della firma, che attanaglierebbe i dirigenti pubblici dinanzi alla prospettiva di finire dinanzi alla Corte dei conti in caso di errore, frenandone l’azione, e la temporanea limitazione al dolo della responsabilità erariale (art. 21, c. 2, d.l. n. 76/2020) hanno certamente contribuito a tale lettura.

 (24) Si pensi, ad esempio, alla mancanza del potere di intercettazione telefonica, informatica o ambientale, o a quello di perquisizione domiciliare e personale, rimessi alle sole procure ordinarie per l’accertamento di condotte delittuose. (25) V. Corte conti, Sez. riun., n. 28/2015/Qm, in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 278, che giustifica tale differente regola probatoria con i diversi valori in gioco nei due giudizi: «la differente natura dei valori in gioco nei due tipi di processo (libertà e patrimonio) segna l’essenziale distinzione tra il processo penale e quello civile, che è – come detto – la regola probatoria».

(26) Si pensi alle ispezioni e accertamenti diretti (art. 61 c.g.c.) o ai sequestri (art. 62 c.g.c.) come tipici atti a sorpresa. Sotto quest’ultimo profilo particolare attenzione deve essere riservata ai cosiddetti sequestri di corrispondenza, sia perché le norme codicistiche dettano norme particolarmente stringenti quanto al ruolo che il pubblico ministero deve direttamente assolvere nell’esame di tali elementi (art. 62, c. 4, c.g.c.), sia perché spesso è dall’attento esame di tali elementi (note, email, appunti e via dicendo) che si può trarre la prova della consapevolezza di porre in essere condotte illecite e pregiudizievoli per l’erario.

(27) Ovviamente diverso resta l’oggetto alla cui realizzazione deve essere diretta la volizione dell’agente; l’evento penalmente rilevante in un caso (art. 43 c.p.) e l’evento dannoso per l’erario nell’altro (art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020).

(28) Uno dei casi più eclatanti e al tempo stesso emblematici di valutazione differenziata, in sede civile ed in sede penale, degli stessi elementi probatori (acquisiti in ordine al medesimo fatto storico e rispetto alle medesime parti processuali) è rappresentato dal celebre processo per uxoricidio avviato contro il popolare sportivo O.J. Simpson, in cui le prove raccolte furono, dalle rispettive Corti, giudicate insufficienti per la affermazione della responsabilità penale dell’imputato, ma del tutto idonee ai fini della condanna del medesimo al risarcimento del danno arrecato alle parti offese. Un tale fisiologico contrasto di giudicati, diretta conseguenza del differente regime della prova vigente nelle due distinte sedi processuali, potrebbe egualmente verificarsi anche nostro sistema giuridico, in cui il giudice civile o contabile, procedendo, con pienezza di cognizione e senza essere influenzato dagli esiti del processo penale, ad un “proprio” accertamento del fatto, potrebbe giungere a soluzioni decisorie diverse da quello penale pur in relazione alle medesime vicende storiche.

(29) V., ad esempio, alcune decisioni di primo grado con le quali ci si è limitati ad affermare che «Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso il ricorso al potere riduttivo dell’addebito» (Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 26 settembre 2018, n. 467), ovvero che «Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritiene il collegio che la consapevole (pertanto dolosa) attività illecita comporti l’impossibilità di accogliere la richiesta difensiva di uso del potere riduttivo» (Sez. giur. reg. Liguria, 29 luglio 2019, n. 144), o ancora «ritiene di non poter esercitare il potere riduttivo dell’addebito, poiché precluso, per costante giurisprudenza di questa Corte, a fronte di condotte riconosciute come caratterizzate dall’elemento psicologico del dolo» (Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 26 marzo 2019, n. 43).

(30) V., da ultimo, quanto espressamente affermato da Cass., S.U., 4 ottobre 2019, n. 24859, cit., che ha sostenuto la funzione prevalentemente sanzionatoria della responsabilità per danno erariale.

(31) V. Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 16 maggio 2019, n. 112.

(32) Ad es., l’art. 11 della l. n. 241/1990, laddove prevede che gli accordi tra privati e amministrazione procedente non abbiano per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento; l’art. 21-octies della suddetta legge, che pone un limite all’annullabilità del provvedimento affetto da vizi del procedimento o della forma qualora abbia natura vincolata; l’art. 31 c.p.a., che, nel definire il perimetro di applicabilità al giudizio avverso il silenzio della pubblica amministrazione, stabilisce, tra le altre cose, che abbia a oggetto provvedimenti relativi all’attività vincolata della pubblica amministrazione e che non residuino altri margini di esercizio della discrezionalità.

 (33) Romano definitiva la discrezionalità amministrativa pura come lo «spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione»; Giannini, con la sua teoria del minimo mezzo, la riconduceva alla ponderazione dell’interesse pubblico e di quelli secondari al fine contemporaneamente di massimizzare il primo causando il minor sacrificio dei secondi; Virga come la «facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato».

 (34) Lo stesso Giannini affermava che la discrezionalità tecnica si è chiamata così per un errore storico e ne ha chiarito la diversità ontologica rispetto alla discrezionalità amministrativa pura. La distinzione tra discrezionalità amministrativa e tecnica sta nel fatto che nel primo caso la discrezionalità investe due momenti: quello del giudizio (dove l’amministrazione individua gli interessi in gioco) e quello della scelta (quando, alla luce delle risultanze del giudizio, l’amministrazione esprime la sua volontà di cui dà conto nella motivazione del provvedimento); nel secondo, invece, attiene soltanto alla fase del giudizio.

 (35) È utile ricordare che il giudice delle leggi ha respinto un tentativo di tipizzazione dei casi di colpa grave contenuto in una legge della provincia di Bolzano nel 2000, ribadendo l’atipicità dell’illecito contabile (a differenza di quello penale) e la necessità della valutazione caso per caso da parte del giudice.

(36) D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.

 (37) Si tratta della responsabilità civile verso terzi, di quella penale, di quella amministrativo contabile, nonché di quella disciplinare e dirigenziale. Per una loro disamina, v. V. Tenore, L. Palamara, B. Marzocchi Buratti, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, Giuffrè, 2013.

(38) D.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, recante Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

(39) Nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 si legge: «In materia di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto. Inoltre, fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità viene limitata al profilo del dolo solo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo».

(40) Per un’analisi storico costituzionale, v. M. Benvenuti, Art. 28, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario allaCostituzione, Torino, Utet, 2006.

(41) V., ad es., Cass., Sez. lav., 20 febbraio 2007, n. 3929.

 (42) Così nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 (v. supra). Alcuni commentatori delle modifiche legislative hanno prospettato che tale dolo, dovrà, quindi, essere interpretato alla stregua del dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale. V., in tal senso, L. D’Angelo, Il “nuovo” dolo erariale nelle prime decisioni del giudice contabile (nota a Corte dei conti, Sez. I App., 2 settembre 2020, n. 234), in , 25 settembre 2020.

 (43) Si definisce danno indiretto quello subito indirettamente dalla p.a., chiamata innanzi al giudice ordinario (o anche innanzi al giudice amministrativo) a risarcire, ex art. 28 Cost., il terzo danneggiato dal proprio lavoratore durante l’attività di servizio: così in V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità amministrativo-contabile davanti alla Corte dei conti, Napoli, Esi, 2019, 200.

(44) Quali, ad es., la turbativa d’asta (ex art. 353 c.p.), in quanto la disciplina codicistica tutela l’interesse della pubblica amministrazione al libero svolgimento dei pubblici incanti e delle licitazioni private e, in una logica plurioffensiva, la libertà di chi vi partecipa, ma non tiene conto delle peculiarità del danno erariale.

 (45) Si tratta delle disposizioni di cui al c. 2 dell’art. 21 del d.l. n. 34/2020.

(46) Quali, ad es., le modifiche apportate con il d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996, n. 639. La novella fu subito oggetto del sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale, che ritenne non fondata la questione con la sent. n. 371/1998, rilevando la coerenza delle modifiche allora previste con la revisione della disciplina del pubblico impiego che era stata di recente approvata e volta a valorizzare il profilo dei risultati dell’attività amministrativa.

(47) La cui disciplina si rinviene nel d.lgs. n. 150/2009.

 (48) La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che il parere del Comitato dei garanti per il personale statale – disposizione non derogabile dalla contrattazione collettiva ed estensibile anche alle pubbliche amministrazioni non statali in forza della norma di adeguamento di cui all’art. 27, c. 1, d.lgs. n. 165/2001 – riguarda le sole ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato raggiungimento degli obiettivi e alla grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente, e non è quindi estensibile alla responsabilità tipicamente disciplinare, correlata al colpevole inadempimento degli obblighi gravanti sul prestatore di lavoro, tranne nel caso in cui vi sia un indissolubile intreccio tra i due tipi di responsabilità. Ne consegue che, ove siano contestate mancanze di rilevanza esclusivamente disciplinare, la sanzione può legittimamente essere irrogata anche in assenza di detto parere ovvero con parere negativo (ex multis, Cass., Sez. lav, 10 dicembre 2019, n. 32258).

 (49) V. artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165/2001. La composizione di tale Comitato, ad eccezione della sua presidenza, affidata ad un magistrato della Corte dei conti, è stata oggetto di diverse modifiche legislative volte anche a incrementarne il numero dei componenti. L’attuale fisionomia della Commissione prevede cinque componenti: un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo Presidente; un componente designato dal Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), già Civit; un esperto designato dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione scelto tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico; due dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui almeno uno appartenente agli organismi indipendenti di valutazione (Oiv), estratti a sorte fra coloro che presentano la propria candidatura.

(50) Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza per il trattamento del personale, nota 24 dicembre 2013, n. Dfp/59912 – Comitato dei garanti di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001 – Documentazione da trasmettere per il parere obbligatorio.

 (51) Si ricorda, inoltre, che nella legge delega c.d. Madia (l. n. 124/2016), nella parte poi dichiarata incostituzionale di riforma della dirigenza pubblica, si prevedeva la sostituzione di tale organismo con una specifica commissione. V. l’art. 11, c. 1, lett. b), n. 1, che prevedeva «l’istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di una Commissione per la dirigenza statale, operante con piena autonomia di valutazione, i cui componenti sono selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali», tra le cui funzioni rientrava anche «la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli incarichi e del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi; l’attribuzione delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relative ai dirigenti statali».

 (52) La separazione da coloro che svolgono le funzioni di indirizzo politico e la compartecipazione, seppure debole, dei soggetti che si occupano della gestione amministrativa alla definizione degli obiettivi stessi concilia il principio democratico secondo cui nessun potere pubblico può essere sottratto al circuito politico rappresentativo (art. 1 Cost.) con quello di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

(53) Ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286.

(54) L’art. 21, c. 1, della l. n. 243/2012 ha previsto la sperimentazione di un bilancio “a base zero”, come modalità di superamento del criterio della spesa storica e di rafforzamento del ruolo programmatorio e allocativo del bilancio dello Stato. La sperimentazione è stata affidata al Ministero dell’economia e delle finanze-Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, è terminata nel mese di giugno 2014, e ad essa ha fatto seguito la presentazione alle Camere di una specifica relazione. Successivamente, con l’approvazione dell’ordine del giorno G/1121/1/3/Tab.6 (testo 2) del 29 ottobre 2013 al d.d.l. bilancio 2014, il Governo si è impegnato a intraprendere una specifica attività di simulazione degli effetti derivanti dall’adozione di detto strumento da parte del Ministero degli affari esteri, anche usando delle versioni meno rigide del tradizionale modello di budget “a base zero”. Al fine di attuare il percorso previsto dalla norma e dal successivo ordine del giorno, è stato costituito un apposito gruppo di lavoro interministeriale tra il Mef e il Mae. La sperimentazione ha preso a riferimento lo schema di “justification au premier euro” previsto dalla Lolf in Francia e ha avuto ad oggetto l’obiettivo “Promozione della lingua italiana”, in considerazione della tipologia di prodotti e servizi resi e la disponibilità di indicatori già utilizzati dall’amministrazione.

(55) Per la distinzione tra la Costituzione dei diritti e quella dei doveri, v. M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Aa.Vv., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Padova, Cedam, 1985, II, 497 ss.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa. – 3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere! – 4. Dolo e potere riduttivo. – 5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti. – 6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie.

  1. Premessa

Anche in ambito erariale, il dolo si pone, a ben vedere, come cifra identitaria – non unica, e tuttavia qualificante – di un’intera esperienza ordinamentale, prima, e giudiziaria, poi. Nell’intensità, nella profondità, nella colorazione, e nelle variabili declinazioni (1), il dolo erariale segna infatti in profondità l’illecito amministrativo, o almeno quella parte di esso che da sempre cerca ispirazione e distinzione, allo stesso tempo, nell’illecito penale. Diversamente da quest’ultima, infatti, l’altra grande famiglia di illeciti amministrativi, vale a dire quella delle fattispecie di “spreco” (come oggi si usa dire), rifugge – salvo casi limite – il dolo, e resta saldamente ancorata al solo fattore “colpa” (naturalmente, almeno grave). Non a caso, anche la risposta del sistema giustizia si sviluppa in modo binario. Così, se la risposta dello Stato alla malapianta della corruzione è affidata, per gli aspetti di rispettiva competenza, sia alla magistratura ordinaria che alla magistratura contabile, per sperperi e occasioni perdute, che recano danno ma non costituiscono reato, la reazione ordinamentale è affidata in via esclusiva alla magistratura contabile. Lo è, però e per vero, nella logica della deprivazione patrimoniale tipica del danno, dove ciò che non ritroviamo (o ritroviamo solo secondariamente), della (tradizionale e, nell’altro campo, in certa parte ancora intatta) dimensione penalistica, è la componente etica della riprovevolezza del comportamento: dinanzi al giudice contabile, il responsabile va perseguito non tanto perché sia immorale la sua condotta, quanto perché – laicamente e utilitaristicamente – il danno da “spreco” che ha cagionato impedisce in parte qua di realizzare (finanziandole) utili politiche pubbliche. In questo, la sistematica legale del danno erariale (quello da “spreco”, in particolare) si rivela di formidabile modernità. Se questo è, appunto, in rapporto all’illecito amministrativo da “spreco”, il dolo conserva invece ancora una sua centralità – sebbene un po’ irrisolta fra altalenanti accenti panpenalistici e rapsodiche pulsioni neocivilistiche – nel campo dell’illecito amministrativo da reato, o da violazione di ordini e prescrizioni. Questa irresolutezza è il riflesso, non di rado, della distanza fra disvalore morale della condotta incriminata e reale deprivazione patrimoniale che da esso in concreto deriva. Una distanza che in sede pretoria sfocia in diverse tratteggiature sfuggenti del danno, cariche di significato più morale che materiale. Così è, a puro titolo di esempio, per quella giurisprudenza che ha declinato il danno – diverso da quello all’immagine – da assunzioni illegittime nella «mancata realizzazione della funzione sociale di assumere presso gli uffici pubblici persone selezionate attraverso il pubblico concorso, con conseguente depauperamento sia dell’intera comunità, sia dell’ente che ha assunto il personale in maniera indebita, perché nel contesto sociale emerge demotivazione e degrado dei suoi appartenenti, che vedono frustrate le possibilità di conseguire legalmente e regolarmente un posto di lavoro» (2). Più il danno (diverso da quello all’immagine) si allontana dalla dimensione propriamente estimatoria (e, quindi, concreta), per dematerializzarsi ed eticizzarsi (se si preferisce, per moralizzarsi), più tendono a sfumarsi anche i contorni del soggetto passivo della lesione: da un’amministrazione pubblica ben determinata alla “comunità amministrata” (3). E più il danno tende a dematerializzarsi, maggiormente inevitabile diventa il ricorso – a fini quantificatori – alla clausola equitativa dell’art. 1226 c.c., talora con declinazioni estreme (sottostimate o, all’opposto, un po’ iperboliche) o contraddittorie (si pensi ai casi nei quali alla liquidazione ex art. 1226 c.c. si somma l’applicazione del potere riduttivo (4)), con le implicazioni che ne conseguono (anzitutto, una sostanziale eterogenesi dei fini, rispetto all’originale – ma sempre attuale, perché di estremo buon senso – ispirazione cavouriana (5)). Indirettamente, peraltro, il dolo erariale trova occasione e motivo di riproporre se stesso all’attenzione anche nel quadro dell’opinabile (6) (ancorché costante) indirizzo delle S.U. secondo il quale «l’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice; ne deriva che le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione ma di proponibilità dell’azione di responsabilità innanzi al giudice contabile […] (7)». Con il che si pone, e non può non porsi, il tema di “un” dolo al (contestuale) servizio di due prospettive epistemologiche, dove l’una si modulerebbe secondo tonalità prevalentemente sanzionatorie, e l’altra, invece, avrebbe una connotazione riparatoria e integralmente compensativa. E dove, soprattutto, la prima delle due che raggiungesse lo scopo (id est, il suo specifico – e diverso – scopo) produrrebbe per l’effetto, improbabilmente e insostenibilmente, l’estinzione (per… assorbimento?) dell’altra. Ma il dolo segna, per vero, anche il campo delle fattispecie di illecito amministrativo di stampo squisitamente sanzionatorio. Da oltre 10 anni, infatti, le Sez. riun. hanno chiarito «che il titolo soggettivo di imputazione della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, debba essere determinato e valutato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, e che pertanto, ai fini della applicazione della sanzione in parola nei confronti degli amministratori che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, è necessario che ricorra, nella fattispecie concreta, l’elemento soggettivo della colpa grave, o, ovviamente, del dolo» (8).

D’altra parte, se in simili situazioni la condotta viene sanzionata a prescindere dalla produzione di un danno (avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione la regola dell’equilibrio di bilancio anche quando la sua violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità della finanza pubblica nel suo complesso) – tenuto conto, altresì, che la sanzione è commisurata a parametri certi (le indennità percepite dagli amministratori al momento della violazione) ed è irrogabile, nei limiti minimo e massimo individuati dalla legge stessa, in ragione della mera potenzialità lesiva del comportamento – «non occorre, da parte del giudice, verificare la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile, non essendo, appunto, una forma di responsabilità per danno, ma è necessario che si accerti la mera violazione del precetto previsto dalla legge, oltre, ovviamente, l’elemento psicologico» (9). Ma è plausibile che il dolo nella responsabilità erariale sanzionatoria (che tende a recare offesa a un bene giuridico sempre immateriale, e può persino non recargliene affatto, in concreto, trattandosi di un illecito di pericolo, dove la componente disvaloriale di tipo etico si accentua) si sovrapponga perfettamente a quello tipico della responsabilità (propriamente) erariale risarcitoria? È, cioè, davvero plausibile che coincida in tutto e per tutto con esso? Il quesito non è ozioso, né banale, se si considera che – sempre ad avviso delle Sez. riun. – ove la stessa condotta illecita contestabile ex lege a titolo di responsabilità sanzionatoria «dovesse cagionare un danno patrimoniale, economicamente valutabile, la fattispecie comporterebbe altresì la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che – come è noto – è configurata dal legislatore mediante il ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall’aver cagionato un danno patrimoniale all’amministrazione pubblica, in violazione degli obblighi di servizio e con comportamenti omissivi o commissivi connotati dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave» (10). Può davvero, un unico e sempre identico dolo, colorare indistintamente una stessa condotta materiale, reprimibile tuttavia, ex lege, due volte, a diverso titolo (una prima, in nome della logica riparatoria propria del risarcimento, e una seconda, nella logica punitiva panpenalistica dell’illecito di pericolo)? O non occorre piuttosto porsi il problema di una possibile (o necessaria?) pluralizzazione del dolo, perfino con riguardo a una stessa condotta materiale (in quanto plurioffensiva), in rapporto alla diversità dei beni giuridici (contemporaneamente) protetti e, di riflesso, alla diversità dei risultati finali perseguiti sul piano ordinamentale? Come si pone, tutto quanto precede, rispetto al sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020? Specie, è notazione d’obbligo, se si considera che il medesimo d.l. n. 76/2020 scrive un capitolo nuovo e di ampia portata riguardo al fenomeno, da tempo silentemente in atto, di avanzamento della frontiera della responsabilità dirigenziale con arretramento (per correlativo e immediato riflesso) della frontiera della responsabilità amministrativa (11). L’impressione, netta, è che in materia di dolo erariale l’art. 21, c. 1, riproponga con forza, agli operatori e agli interpreti, il tema della ricerca di un punto di equilibrio sistemico. Una ricerca da svolgere, naturalmente, facendo tesoro di una delle eredità politiche più forti e attuali del pensiero di Luigi Einaudi, il quale osservava, acutamente, che «non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare».

2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa

In un’epoca nella quale le tradizionali categorie del diritto sono travolte dal rapidissimo mutare dei contesti socio economici al fine di adattarsi alle innovative esigenze di tutela, anche la responsabilità amministrativa per danno all’erario sta subendo la medesima sorte. Il processo evolutivo di siffatto istituto ha però subito una parabola davvero peculiare e, paradossalmente, non ancorata al mutare del proprio mondo di riferimento, rappresentato dalla pubblica amministrazione e, più in generale, dalle risorse di pubblica provenienza. Come è bene noto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si è assistito ad un sostanziale mutamento del “volto della p.a.”, aumentando in modo esponenziale sia il ricorso a soggetti di diritto privato per l’espletamento delle tipiche funzioni autoritative ed erogazione dei servizi pubblici, sia l’assunzione da parte della medesima p.a. di una “forma” di diritto privato, al fine di acquisire una presunta, ma mai provata, maggiore agilità nell’espletamento delle proprie funzioni.

Ne è, pertanto, derivato un graduale ma inesorabile decentramento di una sempre più nutrita percentuale di risorse pubbliche nelle mani di soggetti formalmente di diritto privato, ma pur sempre titolari delle funzioni pubbliche “concesse”. La logica conseguenza di un siffatto processo rivoluzionario sarebbe stata l’adattarsi anche dello speciale regime di responsabilità posto a presidio del corretto uso delle pubbliche risorse, evitando la facile elusione dello stesso mediante l’evolvere “formale” del mondo della pubblica amministrazione. Nella realtà concreta si è, viceversa, assistito ad un percorso “anomalo”, non di evoluzione ma, piuttosto, di involuzione, affermatosi sia a livello giurisprudenziale, sia a livello legislativo, improntato ad un lento e/o parziale disancoraggio della gestione “sostanziale” delle pubbliche risorse dallo speciale regime di responsabilità che fino ad oggi ne aveva connotato la essenza. Sul piano della giurisprudenza, rileva un ormai consolidato orientamento della Cassazione a Sezioni unite, che, in sede di regolamento di giurisdizione, dopo una iniziale e timida apertura alla giurisdizione contabile, fondata proprio sul mutamento istituzionale della p.a., ha, poi, lentamente e definitivamente spostato il baricentro verso la giurisdizione ordinaria, denegando quella contabile, sia nelle ipotesi di soggetti derivanti dai processi di privatizzazione di enti pubblici, sia nelle ipotesi di soggetti di diritto privato costituiti dalle medesima p.a., con la sola eccezione dei soggetti “in house”. Il legislatore, dal suo canto, non ha colto la sostanza del mutamento in atto, mai decidendosi a confermare la penetrazione dello speciale regime della responsabilità erariale anche nel modo “sostanziale” della p.a., consentendole di “seguire” il percorso delle finanze erariali verso soggetti solo formalmente privati, ma, nella sostanza, gestori di ingentissime risorse pubbliche. Di contro, è intervenuto più volte al fine di “conformare” il regime della responsabilità in parola, da ultimo, con il d.l. n. 76/2020, da un lato, precisando e perimetrando, con disposizione di carattere definitivo, i confini dell’elemento soggettivo rappresentato dal dolo, dall’altro, limitando, in via solo transitoria, fino, cioè, al 31 dicembre 2021, la responsabilità per danno erariale ai soli casi, appunto, di dolo, con esclusione quindi della rilevanza, a tale fine, della colpa grave, ad eccezione delle fattispecie di danno cagionate a seguito di omissione o inerzia del soggetto agente. Ferma restando la discrezionalità del legislatore, tuttavia, è bene precisarlo, non priva in assoluto di limiti, ciò che lascia perplessi sono le motivazioni addotte a fondamento della modifica normativa in esame, rappresentata, secondo quanto emerge anche dai lavori preparatori, dalla necessità di calmierare la “paura della firma” che indurrebbe nella dirigenza pubblica il regime della responsabilità contabile. Nella sostanza, dunque, si è espressamente inteso limitare l’ambito applicativo del regime della responsabilità per danno all’erario, onde ottenerne, quale contraltare, una maggiore “spregiudicatezza” della dirigenza pubblica nel “fare”. Quanto alla precisazione in tema di “dolo”, il primo comma dell’art. 21 in esame, precisa che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Si tratta in pratica di una disposizione che ha ricadute sotto lo specifico profilo dell’onere della prova gravante sul pubblico ministero contabile, imponendo, ai fini della eventuale contestazione del requisito soggettivo del dolo, la dimostrazione della volontà, da parte del soggetto agente, dell’evento dannoso. Occorre, cioè, comprovare in atti che la condotta antigiuridica è stata connotata dalla volontà specifica di danneggiare, dalla volontà, cioè, dell’evento dannoso. Si impone, in pratica, di comprovare la volontà anche del “danno conseguenza” (12). Dal punto di vista pratico, fermo restando quanto la giurisprudenza avrà modo di precisare, può subito porsi in evidenza che, nella realtà del concreto operare, la stragrande fattispecie delle condotte antigiuridiche, lesive dell’erario non sono animate da una precisa e specifica volontà di cagionare il “danno conseguenza”. Sono piuttosto finalizzate, infatti, ad ottenere illeciti tornaconti e/o vantaggi, quali ad esempio: la tangente, l’acquisizione di crediti personali e/o favori elettorali mediante la distribuzione di consulenze illecite, la mancata riscossione di canoni locatizi e così via. Se certamente la condotta antigiuridica può essere animata dalla consapevolezza e conseguente volontà di violare le norme ed i propri doveri di servizio pur di ottenere quei vantaggi, l’ulteriore conseguenza concretizzantesi nel concreto danno erariale rimane, per la verità, sotto lo specifico profilo psicologico, sullo sfondo o meglio, senza dubbio viene prefigurata ed “accettata”, ma non direttamente “voluta”. Trattasi di fattispecie differenti da quelle relative ad altre ipotesi di responsabilità, come ad esempio nel caso della responsabilità penale, laddove, a fronte della fattispecie di reato tipica rileva la volontà di ledere proprio quel determinato bene oggetto di protezione. In definitiva, se, certo non può negarsi che, in linea teorica, possa anche agirsi allo specifico scopo di “volere” il danno all’erario, non può non considerarsi che la realtà concreta ed operativa dimostra che siffatta circostanza è davvero rara. Alla luce di quanto sopra, dunque, al netto delle rare ipotesi nelle quali rilevi una precisa e specifica volontà di danneggiare, a seguito della modifica di cui al predetto art. 21, potrà più facilmente contestarsi la responsabilità erariale a titolo di dolo solo nel caso in cui si interpreti la nozione di “volontà dell’evento dannoso” anche nel senso, più ampio, di prefigurazione ed accettazione dello stesso da parte del soggetto agente. Trattasi, tuttavia, di una modifica che, comunque, dal punto di vista della incidenza sugli ambiti di applicazione del regime di responsabilità in esame, non avrà un grande impatto limitativo, permanendo, a regime, la possibilità di contestare la stessa a titolo di colpa grave, fattispecie, quest’ultima, che, nel concreto, è quella di maggiore applicazione. Maggiori perplessità desta la disposizione di cui al c. 2 della norma in esame, secondo la quale «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente». Va subito posto in evidenza che, come si diceva, la discrezionalità del legislatore non è assoluta, in quanto vincolata al limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte. Ebbene, può nutrirsi un fondato dubbio che siffatta drastica perimetrazione e limitazione del regime della responsabilità in esame possa apparire in violazione del suddetto limite della non manifesta irragionevolezza, in quanto, unitamente alla precisazione in tema di dolo, si rischia concretamente di ridurre, se non annullare, la configurabilità della responsabilità contabile per il periodo in parola. Sotto il profilo delle ricadute pratiche, non sembra, davvero, che siffatto intervento normativo sia idoneo a raggiungere lo scopo del calmierare “la paura della firma”, esponendo, paradossalmente, il pubblico dipendente ad una eventuale pressione maggiore. È ormai consolidato l’orientamento della giurisprudenza della Cassazione a Sezioni unite, secondo il quale l’azione di responsabilità per danno erariale e quella con la quale le amministrazioni interessate possono promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali. La prima è volta, infatti, alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse pubbliche, con funzione prevalentemente sanzionatoria. La seconda è finalizzata, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola amministrazione attrice. L’eventuale interferenza che può determinarsi tra tali giudizi pone esclusivamente un problema di proponibilità dell’azione di responsabilità (nonché di eventuale osservanza del principio del ne bis in idem), senza dar luogo a questione di giurisdizione (13). Ne deriva, pertanto, che, in presenza di condotte antigiuridiche, lesive dell’erario, poste in essere da dipendenti delle amministrazioni, in linea generale è possibile che si attivi, al fine di ottenere l’eventuale risarcimento del danno, sia la medesima amministrazione danneggiata in sede civile, sia il procuratore della Repubblica presso la Corte dei conti a titolo di responsabilità erariale. I presupposti e gli esiti di siffatte azioni sono, tuttavia, differenti, atteso che la responsabilità erariale può contestarsi, sotto lo specifico profilo del requisito soggettivo, solo in caso di colpa grave e dolo, in questa fase solo per dolo (ormai connotato dalla volontà dell’evento lesivo), con possibilità anche di non risarcire il danno integrale, mentre quella civile può contestarsi anche per colpa semplice e consente il risarcimento del danno integrale. Appare di tutta evidenza, dunque, che, nella fase temporale di cui al predetto art. 21, stante il regime della responsabilità contabile limitata ai soli casi di condotta dolosa, le amministrazioni danneggiate saranno maggiormente incentivate, proprio in ragione della grave limitazione imposta al regime della responsabilità contabile, ad agire esse stesse dinanzi al g.o. a titolo di responsabilità civile, nel contempo esponendo il dipendente al ben più grave rischio del risarcimento integrale del danno, contestabile anche in base alla semplice colpa. Giova, altresì, evidenziare che la scelta dell’intraprendere la via della azione giudiziaria innanzi al g.o., sebbene in teoria facoltativa, nel concreto sarà concretamente indotta dall’ultimo capoverso della norma in esame, con il quale si è esclusa la limitazione di responsabilità nel caso delle condotte omissive e/o inerti. Ne deriva, infatti, che, laddove la amministrazione interessata non faccia valere i propri interessi in sede civile, al maturare della prescrizione del sotteso diritto di credito, la procura contabile potrà valutare il ricorrere dei presupporti per agire nei confronti dei dirigenti competenti, anche a titolo di colpa grave, per la specifica condotta omissiva consistente nel non essersi attivati in sede giudiziaria civile ed avere in tal modo determinato, in capo alla amministrazione di appartenenza, la conseguente perdita del sotteso diritto di credito al risarcimento del danno. Altra peculiare ricaduta, in termini pratici, del regime temporaneo in esame, si paleserà nel caso di concorso, mediante condotta omissiva, nella causazione di fattispecie di danno erariale arrecata mediante condotta commissiva, a titolo di colpa grave. Si pensi al caso, di frequente realizzazione, del dirigente che ometta, a titolo di culpa in vigilando, di esercitare il potere di direttiva o, comunque, di controllare la negligente attività, commissiva, di un proprio responsabile del procedimento, causativa di un danno erariale. Oppure, ancora, al caso del concorso mediante condotta omissiva, a titolo di colpa grave, concretizzantesi nella omessa denuncia di una fattispecie di danno erariale commessa a titolo di colpa grave (art. 53 r.d. n. 1214/1934). In siffatte ipotesi, in applicazione del regime di cui all’art. 21, si giungerà al paradosso di legittimare l’azione contabile verso il concorrente a titolo di omissione e non verso l’autore della condotta lesiva.

3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere!

La malcelata irritazione suscitata nel ristretto ambito della Corte dei conti dal sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020, secondo cui «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso», costituisce, se possibile, la migliore spiegazione del perché il legislatore abbia ritenuto necessario un suo intervento nella materia della responsabilità amministrativa, imponendo al giudice contabile una “sua” nozione di dolo in luogo di un’altra ad essa alternativa (14). Si è trattato, infatti, dell’ineludibile presa d’atto, da parte della politica, delle sempre più pressanti lamentele e insofferenze manifestate dalla società civile rispetto ad un’azione della Corte dei conti non sempre lineare nei suoi contenuti. Basti pensare, in particolare, al progressivo fiorire di contrapposte e tra loro inconciliabili teorie in materia di dolo, che hanno suscitato negli anni sempre maggiore preoccupazione e sconcerto da parte dei diretti interessati, troppo spesso esposti con eccessiva facilità alle gravi ripercussioni sociali e giuridiche che generalmente si accompagnano all’accusa di avere agito dolosamente (15). Il tutto, peraltro e salvo isolate eccezioni (16), nella colpevole indifferenza della magistratura contabile pur a fronte alle evidenti ingiustizie e disuguaglianze che in tal modo si venivano a determinare. Inevitabile, allora, che la scure normativa si facesse carico di troncare, prima o poi, gli effetti perversi di tale irrisolutezza, optando per una nozione di dolo di matrice penalistica (17), decisamente più vicina all’eadem sentire della coscienza giuridica collettiva (18). Ma l’intervento del legislatore, oltre a realizzare le condizioni per una maggiore certezza del diritto, offre anche l’occasione per avviare finalmente una seria fase di riflessione all’interno della stessa magistratura contabile volta a superare una certa resistenza al cambiamento che ha impedito al giudizio di responsabilità amministrativo-contabile e agli istituti, sostanziali e processuali, che ne costituiscono il fondamento di sviluppare appieno i caratteri della propria innegabile specialità. In particolare, chi all’indomani dell’adozione del nuovo codice di giustizia contabile (19) aveva sperato in un cambio di passo del giudizio contabile, nel segno di una sua maggiore autonomia e di una accresciuta propensione all’approfondimento del fatto, è presto rimasto deluso: il processo di responsabilità amministrativo-contabile era e resta un processo eminentemente cartolare, destinato a svolgersi e ad esaurirsi in un’unica udienza di discussione e sulla base dei soli documenti prodotti dalle parti (20). L’ambivalente ruolo giocato dal dolo nell’ambito di tale giudizio costituisce, se vogliamo, la più evidente espressione di questa sua rigidità. Da un lato, infatti, negli ultimi anni si è assistito, per svariate ragioni, ad una maggiore propensione da parte delle procure contabili a privilegiare la contestazione di fattispecie dolose, soprattutto se di carattere seriale e con contaminazioni penalistiche (21). Dall’altro lato, però, al conseguente incremento di fattispecie di derivazione penale non ha poi sempre coinciso, da parte delle procure prima e delle sezioni giudicanti poi, la disponibilità ad un autonomo accertamento dei fatti, preferendosi demandare alla magistratura penale ogni onere in tale senso e svuotando di significato il principio di autonomia del processo contabile rispetto a quello penale (22).

Nel quadro di tale staticità operativa, che ha di fatto reso il dolo tanto “cartolare” quanto il procedimento giudiziario finalizzato al suo accertamento, si è peraltro sviluppata la sopra ricordata problematica della diffusione di indirizzi giurisprudenziali volti a privilegiare una nozione di dolo erariale sui generis, con gli effetti perversi che abbiamo visto e a cui il legislatore ha inteso porre rimedio. Come già anticipato, la novella normativa in tema di dolo è stata tuttavia avvertita da taluno non come una operazione di giustizia sostanziale, diretta a garantire uniformità di trattamento ai consociati, ma come una sorta di intervento a gamba tesa sulla Corte dei conti al fine di ostacolarne l’azione (23). Uno dei principali argomenti spesi a supporto di tale tesi riposa sui differenti poteri intestati alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, con conseguenti maggiori difficoltà per le prime a conseguire la prova dell’intenzionalità della condotta lesiva (24). Tale lettura riduzionista, però, riposa, ad avviso di chi scrive, su di un equivoco di fondo che è ad un tempo la causa e l’effetto dell’immobilismo registrato dalla magistratura contabile al cospetto dell’esigenza di accertare condotte lato sensu criminose. Una sorta di ingiustificato complesso di inferiorità rispetto alla magistratura ordinaria che trae forse origine da una insufficiente considerazione di quelli che sono i caratteri di specialità del procedimento di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quello penale. Una delle principali particolarità che contribuisce a rendere il processo di responsabilità amministrativa sensibilmente diverso da quello penale, già messo in evidenza dalle stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, attiene alla differente regola probatoria che sovraintende l’accertamento dell’illecito da parte del giudice contabile rispetto a quello penale. Mentre, infatti, nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo contabile, così come in quello civile, vige la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, giudizio che si basa sugli elementi di convincimento disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana), la cui attendibilità va verificata sulla base dei relativi elementi di conferma (25). Partendo da tale innegabile premessa di fondo, appare allora del tutto giustificato il differente armamentario di poteri attribuiti alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, non trattandosi, in particolare, di una capitis deminutio delle prime rispetto alle seconde, ma di una dotazione del tutto adeguata ai diversi valori in gioco e alla diversa intensità delle regole probatorie idonee a supportare in giudizio l’azione di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quella penale. Tornando alla problematica del dolo e alla novità normativa di cui si discute, si tratterebbe, allora, di fare buon governo o, assai più semplicemente, di valorizzare i poteri di cui tanto le procure contabili quanto le sezioni giurisdizionali già dispongono per individuare, raccogliere e soppesare gli elementi che possano giustificare l’accusa di avere procurato intenzionalmente un danno all’amministrazione (26). Invero, anche accedendo alla tesi che da un punto di vista ontologico-strutturale il dolo contabile non sia cosa diversa da quello penale (27), resterebbe comunque sempre il dato di fatto che ai fini di una condanna per dolo in sede contabile gli elementi di valutazione possono essere tranquillamente diversi e, per un certo verso, di minor peso specifico rispetto a quelli richiesti per un’analoga condanna in sede penale (28). Di qui l’esigenza, da un lato, di sviluppare nuove tecniche di indagine che rendano il pubblico ministero contabile sempre più dominus dell’attività istruttoria, anziché mero recettore passivo di iniziative altrui (Guardia di finanza, procure della Repubblica, ecc.), e di stimolare, dall’altro lato, le sezioni giurisdizionali a fare un uso sempre più ampio dei mezzi di prova previsti dalla legge, in primis della testimonianza, superando quelle naturali ritrosie che vengono da decenni di processi cartolari. Ne guadagnerà la collettività, i cui membri si vedranno esposti a contestazioni a titolo di dolo solo se suffragate da idonei elementi di prova, e ne guadagnerà la stessa Corte dei conti, che in tal modo potrà avviare un percorso che porti al definitivo affrancamento da altre giurisdizioni nel segno di una sua ritrovata identità.

4. Dolo e potere riduttivo

Le considerazioni fin qui formulate in relazione alla novella normativa ed agli inevitabili impatti che la stessa avrà sui procedimenti giuscontabili, sia sotto il profilo ordinamentale che processuale, potranno avere indubbie ripercussioni anche in ordine allo ormai storico e radicato potere, sussistente in capo al giudice contabile, di applicare il c.d. “potere riduttivo” Potere riduttivo che, come è noto, trova la sua legittimazione nell’art. 83, c. 1, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, in una accezione volta ad enfatizzare la peculiarità del carattere personale della responsabilità amministrativo-contabile laddove autorizza il giudice ad incidere sul quantum risarcibile, seppur in un giudizio di natura principalmente risarcitoria, tenendo conto delle “singole responsabilità”. Sebbene la dizione letterale della originaria norma sembrerebbe essere indirizzata a tipizzare la responsabilità amministrativo-contabile sotto i profili della parziarietà e della personalità piuttosto che ad un generale potere attribuito al giudice di individuazione di circostanze operabili nel caso concreto al fine di ridurre il danno, l’interpretazione pretoria e, successivamente, le evoluzioni legislative in materia hanno condotto la dottrina ad individuare nel potere riduttivo, alcune volte, una speciale peculiarità tipica della responsabilità amministrativa e, in altri casi, invece, una espressione del potere-dovere del giudice di proporzionare la misura della propria condanna in relazione ai fattori che possono incidere sull’effettiva graduazione della stessa. A tal proposito va evidenziato che l’art. 1 della l.14 gennaio 1994, n. 20, ha tenuto ben distinta la parte relativa al potere di riduzione dell’addebito da quella in cui, appunto, viene meticolosamente individuata la parziarietà dell’obbligazione risarcitoria in relazione all’individuazione delle singole responsabilità (accezione ripresa, appunto, dall’art. 83 del r.d. n. 2440/1923). Pertanto, la concreta applicazione dell’istituto presupporrebbe che il giudice, solo dopo aver individuato, secondo i canoni tipici della responsabilità erariale, la sussistenza di tutti gli elementi idonei a delimitare il danno risarcibile e la sua imputabilità ad un determinato soggetto, potrà valutare se e in quale misura fare uso del potere riduttivo, ad esito del quale giungere alla definitiva determinazione del danno da porre a carico del responsabile. Il potere riduttivo, poi, va precisato, ha resistito anche all’introduzione del codice di giustizia contabile e, in particolare, non è stato intaccato dagli ulteriori interventi deflattivi del contenzioso introdotti dallo stesso, tanto è vero che l’art. 130, c. 6, del codice di giustizia contabile prevede l’impossibilità di fare uso del potere riduttivo in appello, confermando, pertanto, la sua applicazione nel solo giudizio di primo grado. In realtà la sua collocazione nel contesto della disposizione relativa al rito abbreviato sembra quasi volta ad indurre i presunti responsabili ad optare il più possibile per tale soluzione, atteso che, tenderebbe a “mettere in guardia” gli stessi del fatto che, proseguendo nei gradi di giudizio, verrebbero meno le prerogative volte a ridurre il quantum risarcibile ad opera del giudice, ivi compreso quello, del tutto scollegato dal rito abbreviato, dell’esercizio del potere riduttivo. Fatta questa necessaria premessa, occorre necessariamente interrogarsi sulla permanenza in vita dell’istituto in questione nel corso del periodo transitorio di vigenza della riforma di cui all’art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020 che, come è noto, ha ridisegnato l’assetto della responsabilità erariale per gli illeciti commessi mediante azione (e non mediante omissione) sino al 31 dicembre 2021, atteso che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso l’applicabilità dell’istituto nel caso di accertamento della condotta dolosa del responsabile.

Infatti, il nocumento alle finanze pubbliche secondo la communis opinio dei giudici contabili non può trovare alcun elemento esogeno ed endogeno idoneo a legittimare un giudizio meritevole di una particolare ed ulteriore forma di benevolenza volta all’abbattimento del danno cagionato. Non a caso le pronunce solitamente liquidano in poche righe la questione relativa all’invocata applicabilità del potere riduttivo semplicemente richiamando il carattere doloso della condotta per giustificarne la sua esclusione (29). A ben vedere, tuttavia, se è vero quanto sostenuto da alcuni fautori della tesi secondo la quale l’esercizio del potere riduttivo altro non è se non la valutazione delle circostanze sussistenti nel caso concreto al fine di determinare, così come prevede l’art. 133 c.p. per il giudice penale, la giusta determinazione del risarcimento da porre a carico del responsabile, con le necessarie precauzioni e con le dovute accortezze l’istituto del potere riduttivo non appare superato ed avulso dal sistema giuridico che emergerà nel momento in cui la novella normativa entrerà a regime. Sebbene tale affermazione possa sembrare in netta contrapposizione rispetto alla natura fondamentalmente risarcitoria della responsabilità contabile, ancor più sentita ed evidente a fronte di condotte puramente dolose (e in tal senso sono orientate anche le recenti riforme al codice penale relativamente ai reati contro la pubblica amministrazione), va evidenziato, da un lato, che la responsabilità amministrativo-contabile è sempre più orientata verso connotazioni sanzionatorie (30) e, dall’altro, che la possibilità per il responsabile “doloso” di vedersi scomputare una buona parte della propria quota di danno è già prevista dall’ordinamento contabile all’art. 130 del codice di giustizia contabile nel caso di rito abbreviato, la cui possibilità di ricorso è esclusa solo nel caso di doloso arricchimento del presunto responsabile. In tale solco, pertanto, devono inquadrarsi le rare pronunce della giurisprudenza che ha, mediante un più complesso ed articolato percorso motivazionale, ritenuto esercitabile il potere riduttivo anche nel caso di condotte dolose, ponendo in evidenza, ad esempio, la circostanza secondo la quale «Non essendo stati previsti dal legislatore limiti all’esercizio del potere riduttivo deve ritenersi compatibile con l’elemento soggettivo del dolo e può essere applicato anche in presenza di elementi idonei a giustificarne il ricorso diversi dall’eventuale tenuità dell’elemento soggettivo, come più volte affermato in giurisprudenza, trovando il suo fondamento nelle caratteristiche peculiari del rapporto di impiego pubblico, che prevede obblighi e doveri specifici e rilevanti, rispetto ai quali un potere giudiziario di riduzione dell’addebito si configura quale utile strumento per garantire la proporzionalità tra diritti e doveri» (31). Nel caso in questione, si è dato ampio risalto ad alcune circostanze soggettive, vale a dire il ruolo collaborativo svolto dal responsabile già in sede di indagine, la volontà di restituire le somme imputate a titolo di danno erariale, la dedizione comunque mostrata nel corso della carriera lavorativa, unitamente, poi, alla eccessiva sproporzione fra danno contestato e condizioni economiche del ricorrente. È pur vero che, a parere di chi scrive, la rigorosa valutazione del dolo volta ad escludere il c.d. “dolo contrattuale”, come già esposto nei precedenti paragrafi, porta ad una inevitabile restrizione delle circostanze finora valutate dalla giurisprudenza idonee all’applicazione dell’istituto in questione, perdendo, pertanto, il potere riduttivo quella indubbia e unica portata che ha tuttora nel giudizio di responsabilità in relazione all’ampia casistica attualmente considerata e che, si ritiene, non potrà più trovare spazio, non potendo avere alcuna rilevanza nel processo di valutazione dell’elemento psicologico del responsabile. Basti pensare, a mero titolo esemplificativo, alle innumerevoli circostanze oggettive che la giurisprudenza pacificamente ritiene valutabili a favore dei responsabili, quali la giovane età, la disorganizzazione dell’amministrazione di appartenenza, la scarsa esperienza lavorativa pregressa, le gravose incombenze lavorative, la lodevole attività di servizio ovvero la mancanza di adeguata preparazione formativa o la difficoltà oggettiva della materia o della normativa di riferimento. In conclusione, la prospettiva sembra essere quella di un notevole ridimensionamento dell’istituto del potere riduttivo, soprattutto in relazione alla valutazione delle circostanze oggettive, che poco possono incidere sulla prefigurazione di un evento dannoso, che deve essere voluto sin dalla fase della sua ideazione e che si concretizza a seguito di una condotta cosciente e volontaria. Ciò in quanto non va dimenticato che logica conseguenza dell’utilizzo del potere riduttivo sarà l’accollo della residua parte di danno da parte dell’amministrazione danneggiata e, conseguentemente, della collettività amministrata, caratteristica che dovrà ben conciliarsi con la sussistenza di una condotta dolosa come finalisticamente inquadrata dal legislatore con la riforma di cui al d.l. n. 76/2020.                                                                                                       5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti                                                                        Nel tentativo di regolare una realtà sempre più complessa e più veloce nel porre interrogativi di tipo socio-economico da risolvere, una delle sfide più difficili che il legislatore ha dovuto affrontare è stata quelle di introdurre “regole” che combinassero i requisiti della generalità e dell’astrattezza con la capacità di dare risposte agli agenti pubblici e attraverso le quali gli stessi, nel pieno rispetto del principio di legalità, potessero declinare i loro comportamenti in azioni.

Altrettanto complesso è stato il processo che ha portato al superamento, almeno in linea tendenziale, dell’insita stridente tensione tra il principio di legalità, quantomeno nella sua accezione sostanziale, e l’esercizio del potere discrezionale da parte degli agenti pubblici. Tale potere è del resto lo strumento attraverso il quale la pubblica amministrazione tenta di rispondere, nell’esercizio dei propri poteri, a quel grado ineliminabile di imprevedibilità e di contingenza della realtà fattuale.

 La discrezionalità amministrativa non trova una compiuta definizione legislativa, seppure siano diverse le disposizioni che la richiamano direttamente o indirettamente in via generale (32), né tantomeno la dottrina ne ha fornito una ricostruzione unanime (33).

Tale locuzione, con la giustapposizione della qualificazione di tecnica, è stata poi utilizzata per descrivere quelle attività – assai diverse dalla discrezionalità amministrativa pura (34) – aventi ad oggetto decisioni dall’alto contenuto tecnico-scientifico di non univoca soluzione; decisioni la cui diffusione si è ampliata nei complessi ordinamenti moderni parallelamente all’affermarsi del policentrismo normativo. Al fine di garantire che la discrezionalità – tanto quella amministrativa quanto quella tecnica – non si traducesse in arbitrio, il legislatore ha previsto specifici contrappesi. Per la prima tipologia, è intervenuto introducendo diversi istituti atti a garantire il confronto più ampio all’interno del procedimento amministrativo tra gli interessi pubblici e quelli privati; per la seconda prevedendo un sindacato giurisdizionale che progressivamente si è connotato anche per essere di tipo intrinseco.

Tale stagione di riforme è stata oggetto poi di successivi progressivi aggiustamenti basati in particolare sull’analisi del dato reale e delle linee di tendenza emerse in sede giurisprudenziale. Il ricorso a questo metodo induttivo si è accentuato negli ultimi anni, da quando il legislatore ha cominciato a introdurre, sempre più frequentemente, in norma primaria una serie di previsioni talmente dettagliate da assomigliare a disposizioni di carattere regolamentare o talmente specifiche da sembrare provvedimenti amministrativi. Tra tali disposizioni rientrano quelle volte, allo stesso tempo, a disciplinare pedissequamente i nuovi compiti affidati agli agenti pubblici e a prevedere, in caso di inadempienza, il relativo apparato sanzionatorio, incrementando in tal modo le fattispecie tipizzate di responsabilità amministrativa (35). Un esempio plastico di questa tendenza è rinvenibile proprio nell’analisi del contenuto di alcune norme contenute nel decreto-legge semplificazioni (36), le quali intervengono su alcune delle cinque responsabilità nelle quali possono incorrere i pubblici dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni (37). In particolare, tale decreto ha introdotto sia modifiche alla disciplina di carattere generale della responsabilità amministrativo-contabile, sia alcune nuove specifiche fattispecie del più ampio genus della responsabilità dirigenziale. Se, infatti, con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile, il legislatore, al fine di superare la cosiddetta “paura della firma”, ha deciso di ridurre il perimetro dell’elemento soggettivo, modificando – in via permanente – la l. n. 20/1994, riqualificando il dolo condizione dell’azione erariale alla stregua di quello penalistico e prevedendo – in via “transitoria” – la non perseguibilità della colpa grave con riferimento ai comportamenti commissivi, dall’altro, ha introdotto una serie di disposizioni volte ad ampliare il numero di fattispecie tipizzate di responsabilità dirigenziale. Il decreto-legge (si vedano, ad es., gli artt. 24, 32, 33, 34), infatti, reca alcune novelle al codice dell’amministrazione digitale (ad es., gli artt. 32, 33, 34), le quali – allo stesso tempo – assegnano specifici compiti alle pubbliche amministrazioni e introducono puntuali meccanismi sanzionatori, tutti riconducibili al cosiddetto ciclo della performance, in caso di inadempienza. In particolare, l’art. 32 del decreto-legge semplificazioni prevede che le pubbliche amministrazioni, nell’ambito delle risorse disponibili e nel rispetto del codice di condotta tecnologica, progettino, realizzino e sviluppino sistemi informatici e servizi digitali. Il legislatore ha anche individuato l’autorità competente (AgId) a verificare il rispetto del codice di condotta e alla stessa ha riconosciuto specifici poteri, quali quello di diffida. La norma prevede, inoltre, un meccanismo sanzionatorio fondato sull’equivalenza tra la progettazione, la realizzazione e lo sviluppo dei servizi digitali e dei sistemi informatici in violazione del codice di condotta e il mancato raggiungimento, da parte dei dirigenti responsabili delle strutture competenti, di uno specifico risultato o di un rilevante obiettivo. A tale violazione consegue la riduzione (in misura non inferiore al 30 per cento) della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale per i dirigenti competenti, nonché il divieto di attribuire premi o incentivi nell’ambito delle medesime strutture. L’art. 24 prevede specifici adempimenti, a carico dei gestori di società pubbliche e delle società a controllo pubblico, per l’identificazione dei propri utenti di servizi on-line esclusivamente attraverso identità digitali, e l’art. 33 dispone che le pubbliche amministrazioni certificanti detentrici dei dati ne assicurino, attraverso accordi quadro, la fruizione da parte di altre pubbliche amministrazioni e dei gestori di servizi pubblici. Tali norme, inoltre, sono corredate da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione dei suddetti obblighi, secondo modalità analoghe a quelle descritte in precedenza. L’art. 34 prevede, modificando la disciplina della piattaforma digitale nazionale dei dati, l’obbligo di rendere disponibili e accessibili le proprie basi dati ovvero i dati aggregati e anonimizzati. L’attuazione di tale disposizione deve avvenire sempre a invarianza degli oneri ed è corredata dal suddetto meccanismo sanzionatorio in caso di inadempimento. Infine, anche l’art. 47 chiama in causa i sistemi di valutazione delle performance individuali dei dirigenti e prevede l’introduzione, nei medesimi sistemi, di specifici obiettivi connessi all’accelerazione dell’utilizzazione dei fondi nazionali ed europei per gli investimenti nella coesione e nelle riforme. In questa fattispecie non sono però stabili a priori i limiti quantitativi dei relativi meccanismi sanzionatori. Tali disposizioni si aggiungono a quelle già contenute nel decreto-legge cosiddetto rilancio (si vedano gli artt. 116 e 117) adottato durante l’emergenza Covid-19 (38), le quali hanno previsto la possibilità per gli enti territoriali – secondo rigidi e precisi parametri – di chiedere alla Cassa depositi e prestiti s.p.a. anticipi di liquidità per il pagamento dei debiti certi liquidi ed esigibili e contestualmente hanno definito regole per la parziale estinzione delle suddette anticipazioni, della cui violazione deve tenersi conto proprio ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili, con i conseguenti effetti in termini di responsabilità dirigenziale e disciplinare (ex artt. 21 e 55 d.lgs. n. 165/2001). Il dato normativo del periodo emergenziale, da un lato, conferma la più recente tendenza della legislazione di arginare i rischi connessi all’inerzia o alle omissioni dei pubblici agenti. Era già avvenuto, ad esempio, con l’introduzione o la rielaborazione di specifici istituti di natura sostanziale (quali, a titolo esemplificativo, le modifiche alla disciplina del silenzio o alle tipologie e modalità di azione delle conferenze di servizio). Dall’altro lato, esso si connota per una specifica peculiarità, quella di intervenire non sul procedimento, bensì sul sistema delle responsabilità e delle correlate sanzioni. Il materiale informativo (39) che correda il disegno di legge di conversione del decreto-legge semplificazioni, nel delineare la ratio del duplice intervento previsto sulla disciplina sostanziale della responsabilità amministrativo-contabile, mutua le motivazioni già utilizzate per le riforme alla pubblica amministrazione adottate negli anni Novanta e Duemila, vale a dire la necessità del raggiungimento di risultati, ma sembra lasciare in ombra quello che è il fondamento primigenio della responsabilità dei pubblici dipendenti, il quale si rinviene nell’art. 28 della Costituzione. Tale articolo fu oggetto di un lungo dibattito in sede di Assemblea costituente, di cui è prova la sua formulazione, che fu il frutto di un articolato compromesso tra le diverse forze politiche in essa rappresentate (40), le quali – al di là delle specifiche differenze – pressoché unanimemente lo ritenevano una norma di chiusura a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Sebbene sia oramai granitica la giurisprudenza e arata in dottrina l’enucleazione delle diverse finalità che l’articolato novero delle cinque responsabilità degli agenti pubblici persegue e la loro non alternatività, è innegabile che tali fattispecie costituiscano un insieme unitario. È allora interessante procedere al confronto tre le modifiche che il decretolegge semplificazioni ha introdotto con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile e a quella dirigenziale. In particolare, il ricorso a forze talvolta centripete e talora centrifughe per modificare il perimetro e la configurazione delle summenzionate responsabilità contiene in nuce il rischio che le modifiche del dato normativo possano dar luogo ad alcune aporie e talora finanche a una eterogenesi dei fini che tali modificazioni hanno animato. In primo luogo, tale disamina può prendere le mosse dalle modifiche all’elemento soggettivo. Se da un lato, infatti, la responsabilità dirigenziale si è progressivamente configurata alla stregua di una responsabilità oggettiva (41) e può prescindere dall’elemento soggettivo (sia esso riconducibile al dolo o alla colpa intesa come negligenza), non può non destare preoccupazione il fatto che si moltiplichino gli adempimenti che possono dare luogo alla stessa senza tenere adeguatamente conto della solidità delle strutture amministrative chiamate ad adempierli e dell’adeguatezza delle risorse economiche assegnate. Indice della sottovalutazione di tali aspetti è la sempre maggiore numerosità di disposizioni normative corredate da clausole di neutralità finanziaria (si vedano alcuni dei casi in precedenza menzionati) la cui idoneità e “robustezza” non sono sufficientemente suffragate nelle relazioni tecniche. Dall’altro, le modifiche apportate alla disciplina sostanziale che qualifica l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativo-contabile, prendendo le mosse da un asserito conflitto tra orientamenti giurisprudenziali, riducono in potenza il perimetro del dolo erariale, avvicinandolo sempre più alla configurazione di matrice penalistica (42). La riforma introdotta dal decreto-legge semplificazioni, intervenendo sulla qualificazione dell’elemento soggettivo e differenziando la disciplina da applicare in presenza di comportamenti omissivi rispetto a quelli commissivi, rischia di rendere più difficile sia la tutela di importanti aree del danno erariale, quale quello indiretto (43), sia la sottoposizione a giudizio di alcuni reati di particolare disdegno sociale (44). Inoltre, tale disciplina potrebbe modificare i comportamenti degli agenti pubblici, sostituendo la “paura della firma” con “l’audacia della firma a qualunque costo”, a prescindere dalla adeguata verifica di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento anche nella consapevolezza che la responsabilità potrà essere attribuita a qualcun altro (ad es., a coloro in capo ai quali potrà essere riconosciuto un generico obbligo di vigilanza). Inoltre, le modifiche apportate, seppure in via transitoria (45), alla qualificazione dell’elemento soggettivo – differenziandone il perimetro in caso di condotte commissive o omissive – trascurano la complessità dell’agere pubblico, che non consente, in particolare nei procedimenti articolati su più livelli, di scomporli in sezioni distinguendo quelli dove vi è azione da quelli dove può rinvenirsi l’omissione. A tale proposito, pare utile sottolineare che le riforme che già hanno interessato in passato la responsabilità di cui alla l. n. 20/1994 (46) debbano essere lette e valutate in parallelo con l’evoluzione del perimetro del danno erariale e che tale evoluzione non vada tralasciata prima di intervenire – anche se solo in via transitoria – sulla disciplina sostanziale di tale responsabilità.

Tale evoluzione, infatti, ha affiancato a una concezione di tipo naturalistico – connessa alla diminuzione, computata secondo criteri meramente ragionieristici, del valore della cosa distrutta o perduta, ovvero della somma indebitamente erogata nonché delle eventuali mancate entrate, in presenza di un rigido onere probatorio in termini di certezza e attualità del danno – una configurazione di tipo commutativo del danno erariale – ispirata ai principi di efficienza e di efficacia della spesa – nella quale il depauperamento del patrimonio pubblico si concretizza anche nel caso di acquisto di beni poi inutilizzati o inutilizzabili dalla collettività. In secondo luogo, la modifica del perimetro delle singole responsabilità e, in particolare, l’estensione attraverso la tipizzazione della responsabilità dirigenziale non consente più di rinviare la valutazione sull’adeguatezza del ciclo della gestione della performance (47), in particolare con riferimento ai principi ai quali lo stesso si conforma, al suo contenuto sostanziale, nonché alla sua governance. Con riferimento al profilo dei principi, tale ciclo prende in prestito dai procedimenti giurisdizionali il rispetto di quelli della tutela del contraddittorio e dell’imparzialità. Con riferimento a tale ultimo principio, il legislatore ha, infatti, previsto che i provvedimenti conseguenti a responsabilità dirigenziale (quali il mancato rinnovo, la revoca dell’incarico o di il recesso dal rapporto di lavoro in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati o di inosservanza delle direttive, nonché la decurtazione della retribuzione di risultato in caso di colpevole violazione del dovere di vigilanza sul personale assegnato (48)), vengano adottati nel rispetto dei principi del giusto procedimento. Tra gli strumenti attraverso i quali realizzare il giusto procedimento vi è la previsione del previo parere – obbligatorio, ma non vincolante – del Comitato dei garanti (49). Tale organismo non solo è stato istituito a distanza di diversi anni dalla sua previsione in via normativa, ma ha incontrato anche delle difficoltà ad affermarsi in concreto non essendo, come si evince da una nota emanata dal Dipartimento della funzione pubblica nel 2013 (50), mai adito dalle amministrazioni per ottenerne il parere previsto (51). Per quanto concerne il contenuto sostanziale dei documenti che compongono il ciclo, il legislatore ha tentato, nella formulazione del dettato normativo, di correlare il piano della performance con i documenti e le grandezze di finanza pubblica. Infatti, la normativa prevede che tale piano sia predisposto «a seguito della presentazione alle Camere del documento di economia e finanza, di cui all’articolo 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196» e che debba essere coerente con le note integrative al disegno di legge di bilancio. Tuttavia, non può negarsi l’ancora forte discrasia tra la definizione degli obiettivi e la corrispondente individuazione sia delle risorse effettivamente necessarie per la loro attuazione, sia di strumenti di misurazione efficace del grado della loro realizzazione. Infine, con riferimento alla governance, i documenti nei quali si articola il ciclo della performance si connotano sempre più per essere, allo stesso tempo, espressione del principio della separazione tra il potere politico e la dirigenza (52), ma anche della loro necessaria collaborazione, e vengono alla luce secondo modalità non di tipo top-down, bensì circolari. Proprio alla luce di tale modalità di formazione e ferma rimanendo la pluralità degli obiettivi nei quali si articola tale ciclo (generali e specifici, nonché individuali), occorrerà valutare come coniugare la fonte primigenia degli stessi, vale a dire il quadro del programma di Governo e la direttiva annuale di ogni ministro (53), con le molteplici disposizioni normative introdotte dal legislatore, quali quelle da ultimo ricordate. Tali norme possono, quindi, intendersi alla stregua di norme manifesto oppure come il tentativo di sostituire o quantomeno limitare, ex lege, l’autonomia definitoria degli obiettivi da parte dei singoli ministri e l’esercizio del proprio potere di indirizzo. Alla luce di tali considerazioni, il dato reale mostra le molte ombre dell’efficacia del ciclo della performance così come delineato nel suo impianto teorico e declinato in concreto. Tale ciclo, infatti, difficilmente potrà produrre risultati efficaci qualora non si verifichino, contestualmente, almeno le seguenti condizioni: una scelta degli obiettivi connotata dalla compiuta definizione del loro perimetro da parte degli organi politici; una assegnazione adeguata di risorse finanziarie e umane ex ante; un monitoraggio costante dell’implementazione di tali obiettivi e una verifica ex post del loro raggiungimento attraverso strumenti che siano “in concreto” adeguati. In sintesi, alla luce di tali considerazioni, il complesso ordito normativo che emerge dalle recenti modifiche legislative, da un lato mostra con evidenza la proliferazione di adempimenti corredati da meccanismi sanzionatori dei quali, peraltro, non è altrettanto chiara l’effettiva efficacia in assenza di un censimento e di un riordino che li riconduca a una unitarietà; dall’altro lato rende evidente che la modifica di elementi costitutivi della responsabilità erariale, sulla base di asseriti obiettivi di politica pubblica, non può prescindere da una compiuta analisi delle finalità ultime di tale responsabilità – troppo spesso ritenuta un doppione di altre –, dei mezzi probatori utilizzabili e delle peculiarità del danno erariale. In conclusione, quindi, occorre porsi l’interrogativo se il buon funzionamento della pubblica amministrazione possa meglio passare per un’adeguata formazione della classe dirigente, per il ricorso a efficaci strumenti di reclutamento e per una corretta individuazione delle risorse economiche da destinare a specifici obiettivi, la quale prescinda, quindi, dalla mera logica incrementale anche senza arrivare a tentativi utopici quali il cosiddetto zero based budget (54). Non può, infine, più eludersi la domanda se procedere, in alcuni settori assai complessi (ad es., le grandi opere pubbliche), a progressive tipizzazioni delle condotte non suscettibili di dar luogo alla responsabilità amministrativocontabile al fine di tracciare una strada e individuare best practices, anche tenendo conto egli arresti giurisprudenziali in materia; ma prima di formulare una risposta occorrerà riflettere sui rischi connessi a una normazione troppo legata al raggiungimento di obiettivi di breve periodo o basata sulla generalizzazione delle esigenze connesse a eventi, che per quanto importanti, rimangono straordinari. Non farlo porterebbe con sé il rischio – tutto da valutare – che gli agenti pubblici, invece di seguire la luce bianca rappresentata dai doveri costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, siano accecati dai molteplici colori nei quali si declinano le singole disposizioni legislative una volta entrate nel prisma del nostro articolato corpus normativo, in tal modo spostando il baricentro dell’agere pubblico verso la Costituzione dei poteri e non verso quella dei diritti (55).

6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie

L’art. 21 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, del ha apportato una importante novità di natura strutturale al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale. All’art. 1, c. 1, della l. n. 20/1994 è stato infatti inserito un nuovo periodo: «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso». In sede processuale la novella sarà certamente utilizzata dai difensori per sollevare eccezioni alle quali i pubblici ministeri saranno chiamati a replicare. Nelle righe che seguono si prova ad immaginare, in forma dialogica, un’ipotesi di processo contenente le possibili contrapposte tesi tra accusa e difesa. L’intento del contributo, che ha natura didascalica e divulgativa, è quello di far comprendere, anche a chi non è propriamente un giurista, i possibili risvolti della novella e gli effetti che la stessa potrebbe avere in ordine al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale dei pubblici dipendenti, sino al punto da ipotizzarne, di fatto, una sua sterilizzazione, anche a fronte di comportamenti dannosi conseguenti ad ipotesi di reato. Naturalmente ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

AULA D’UDIENZA

 SEGRETARIO D’UDIENZA Viene chiamato il giudizio n. 9999 ad istanza della procura regionale contro il sig. Tizio.

RELATORE              Il convenuto Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, è stato chiamato dalla procura regionale a risarcire i danni conseguenti al crollo dell’edificio da riconnettersi, a giudizio di parte attrice, alla omissione delle funzioni di controllo da parte di Tizio stesso, a seguito della accettazione di contribuzioni illecite corrispostegli dal titolare dell’impresa appaltatrice Questo collegio, all’esito di precedente udienza, aveva disposto una c.t.u. tesa a verificare le ragioni del crollo dell’edificio che, secondo la c.t.p. prodotta dal pubblico ministero, erano riconducibili a difetti di costruzione per utilizzo di materiali impropri. A seguito del deposito della consulenza la procura insiste per la condanna mentre la difesa del convenuto eccepisce la mancata prova da parte dell’attrice della volontà di provocare il danno.

PUBBLICO MINISTERO Signor presidente, signori giudici, la vicenda che ha dato origine al giudizio è molto semplice. Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, svolgeva funzioni di direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, allorquando ha accettato contribuzioni illecite da parte dell’appaltatore per “ammorbidire” – anzi sarebbe più corretto dire omettere del tutto – i controlli di sua spettanza sulla realizzazione a regola d’arte del manufatto. Come le indagini hanno consentito di accertare, egli ha totalmente abdicato alla propria funzione consentendo all’imprenditore privato di risparmiare sulla qualità e quantità dei materiali utilizzati. La stessa c.t.u. disposta da codesto collegio ha ampiamente dimostrato come il crollo sia stato la conseguenza della scarsa qualità del calcestruzzo e della altrettanto scarsa quantità delle armature del cemento armato. Ebbene appare evidente come nella fattispecie siano presenti tutti i presupposti per una condanna per danno erariale: il danno, pari all’intera spesa sostenuta dall’amministrazione per i lavori; il rapporto di servizio di Tizio con l’amministrazione comunale in quanto direttore dei lavori e al contempo responsabile dell’ufficio tecnico; la violazione degli obblighi di servizio rappresentata dalla omissione dei controlli a lui intestati; il nesso di causalità tra tale violazione e le conseguenze dannose ed infine la colorazione dolosa della condotta, attesa la provata corruzione di Tizio stesso ad opera dell’imprenditore (tutte circostanze abbondantemente provate come in atti). Per tutti i motivi esposti si insiste per la condanna.

AVVOCATO               Eccellentissimo collegio, è vero quello che ha detto il p.m. La fattispecie fattuale oggetto dell’odierno giudizio è semplice. Il mio assistito, come peraltro ha anche ammesso lui stesso, ha concluso un pactum sceleris con l’appaltatore: ha accettato tangenti in cambio di un “occhio di riguardo”. Ha girato la testa dall’altra parte mentre venivano armati i pilastri. Era assente al momento della gettata del cemento armato. Ma, signori giudici, il pubblico ministero, quando, poco prima di concludere, ha analizzato la presenza nel caso di specie di tutti gli elementi propri della responsabilità erariale, ha commesso un errore allorquando ha riferito l’elemento psicologico del dolo del mio assistito alla condotta (l’aver accettato tangenti). Mi spiego meglio. Certamente il mio assistito ha voluto accettare la tangente. Certamente ha volontariamente omesso i controlli che gli competevano quale contropartita del denaro illecito ricevuto. In tal senso certamente la sua condotta è stata dolosa. Ma è sufficiente ciò per una sua condanna? Per rispondere alla domanda ci viene in soccorso il legislatore stesso che con l’art. 21 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, nel novellare l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/94 ha inserito un alinea che prevede testualmente che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Questa prova non è stata fornita. Non c’è nulla, agli atti del processo, che dimostri che il mio assistito volesse l’evento dannoso, volesse, in sostanza, il crollo dell’edificio o volesse in qualche modo procurare un pregiudizio all’amministrazione. Cosa emerge dagli atti? Che ha voluto approfittare della propria posizione all’interno dell’amministrazione, del proprio ruolo di controllo, per arricchirsi illecitamente. Voleva anche procurare un danno all’ente? Certamente no ed in ogni caso non c’è nulla che lo provi. Ebbene, in mancanza della prova – testualmente – “della volontà dell’evento dannoso”, il mio assistito va assolto per carenza (o meglio per mancata dimostrazione dell’esistenza) di quello che è, oggi, uno degli elementi essenziali della responsabilità amministrativa: il dolo. Insisto pertanto per un’assoluzione piena del convenuto.

PUBBLICO MINISTERO La difesa, nel pretendere che parte attrice dia dimostrazione, come richiede la legge, della volontà dell’evento dannoso, mostra di aderire alla teoria naturalistica del dolo come originata in ambito penalistico: il dolo riferito all’evento, alla volontà, in sostanza, di produrre il risultato naturalistico della condotta. L’evento dannoso inteso come evento naturalistico; teoria che è stata costruita intorno al reato di omicidio volontario in cui il dolo si caratterizza in relazione ad un fatto naturale (la morte) che la legge richiede sia voluto. Dimentica però l’avvocato che questa teoria, già in ambito penalistico, ha mostrato i propri limiti con riferimento a tutti quei reati che non sono caratterizzati da un evento (come i reati di pericolo) ed in cui una data condotta è punita indipendentemente dal fatto che alla stessa consegua poi un certo evento in senso naturalistico. In tal caso, anche in sede penale, l’evento dannoso è rappresentato da una condotta ritenuta pericolosa. In questi casi il dolo viene associato non all’evento naturalisticamente inteso, che non c’è, ma alla condotta. D’altronde lo stesso art. 43 del codice penale laddove specifica che un delitto è “doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”, dimostra chiaramente che se un evento dannoso può corrispondere ad un evento naturalistico, quello pericoloso non può che corrispondere ad una condotta. È solo la condotta che può rappresentare un pericolo; pericolo di un successivo evento. Nell’associazione a delinquere ad esempio, è l’associarsi con uno scopo ritenuto pericoloso dall’ordinamento (condotta) che viene punita, indipendentemente dalla commissione di altri reati (evento). Entrambi i casi, evento naturalistico e condotta pericolosa, costituiscono un fatto, sono l’elemento fattuale previsto dalla legge come reato. Nell’illecito penale c’è sempre un fatto rilevante: talvolta esso è un evento naturalisticamente inteso (reati di evento), in altri casi è una mera condotta potenzialmente pericolosa, scandalosa o comunque riprovevole e come tale da punire. Le conseguenze della condotta stessa, quindi, non sempre rilevano ai fini della connotazione dell’elemento psicologico. L’elemento volitivo va ricondotto al fatto (che a volte è evento, a volte mera condotta) previsto dalla legge come reato. E qui sta la differenza con la responsabilità per danno erariale. Mentre le fattispecie penalmente punibili sono sempre tipiche e devono essere specificamente previste dalla legge, ciò che caratterizza la responsabilità per danno erariale è invece la sua atipicità. La responsabilità amministrativa infatti si inserisce, in un rapporto di genus a species, nell’ambito della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. in cui sia la condotta, sia le sue conseguenze in termini di diminuzione patrimoniale (il danno), sono sempre atipiche. L’interprete non è chiamato a confrontare il fatto con un paradigma normativo precostituito, quanto piuttosto con la serie di elementi che caratterizzano la responsabilità, verificandone, di volta in volta, la sussistenza. Ebbene, andando ad indagare l’elemento psicologico nei casi di responsabilità a titolo doloso emerge che mai l’agente pubblico infedele persegue, direttamente, le conseguenze dannose; queste sono invece semplice conseguenza, secondo lo schema dell’id quod plerumque accidit, della condotta. Anche nelle ipotesi di peculato, allorquando l’agente pubblico si impossessa di beni dell’amministrazione, il suo scopo non è impoverirla; egli vuole solo arricchirsi, accettando al contempo la conseguenza del suo impoverimento. L’elemento volitivo va allora ricondotto al comportamento illecito e non alle sue conseguenze che sono solo eventuali, se pur indispensabili per una declaratoria di responsabilità. Ciò è ancor più vero nelle ipotesi, come quella oggetto del giudizio, in cui le conseguenze dannose sono da ricondursi anche a comportati concorrenti altrui o a circostanze ultronee. Il funzionario infedele non persegue le conseguenze della propria condotta o comunque non si pone il problema di prefigurarsele e se anche lo fa, ne accetta il rischio. Il dolo nella responsabilità amministrativo contabile è allora sempre dolo eventuale. “L’evento dannoso” non può allora coincidere con la diminuzione patrimoniale, ma necessariamente con la condotta infedele, con quella condotta che, non essendo rispettosa delle regole che la governano, genera per l’amministrazione il pericolo di subire conseguenze dannose che vengono implicitamente accettate. Nella fattispecie di cui all’odierno giudizio il pericolo è quello – poi concretizzatosi – che, in assenza di adeguati controlli, l’imprenditore possa eseguire l’opera non a regola d’arte. È la condotta illecita e quindi pericolosa, che è voluta e che espone l’amministrazione al rischio di un danno che, in quanto prevedibile, viene accettato come possibile conseguenza.

AVVOCATO                 La ricostruzione del pubblico ministero non è accettabile. L’evento dannoso è evento naturalistico e coincide con il danno, con la diminuzione patrimoniale. Ciò trova conferma nella stessa giurisprudenza della Corte dei conti che ha sempre fatto coincidere il fatto dannoso con il danno ai fini della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione. Il legislatore è stato chiaro: è il danno che deve essere perseguito per aversi responsabilità dolosa. Non possono allora dar luogo a responsabilità le conseguenze dannose non volute o riconducibili a comportamenti altrui. Nella fattispecie Tizio non ha provocato alcun danno. Questo è stato il frutto del comportamento dell’imprenditore che ha impiegato materiali di qualità e quantità inferiore al dovuto.

PUBBLICO MINISTERO Atteso che il danno nella responsabilità amministrativa non è mai direttamente riconducibile alla volontà, ma semplice conseguenza del comportamento, se, come sostiene l’avvocato, lo si facesse coincidere con l’evento dannoso, si avrebbe una inammissibile esenzione di responsabilità con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 21 del decreto-legge n. 76/2020. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione impone allora che l’elemento psicologico doloso vada sempre rapportato alla condotta e non al danno ed il concetto di “evento dannoso” vada inteso come “fatto capace di creare danno”. Questo fatto è il comportamento. Non contraddice la ricostruzione che si offre l’art. 1, comma 2, della legge 20 del 1994, laddove statuisce che «Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso». La norma, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, utilizza l’espressione “fatto dannoso” e non “evento” dannoso. Appare evidente come, in tal caso, ai soli fini della decorrenza della prescrizione, la locuzione vada intesa come fatto naturalistico, come diminuzione patrimoniale in quanto, trattandosi di una responsabilità di natura risarcitoria di cui il danno costituisce elemento imprescindibile, il diritto al suo risarcimento, e quindi il termine prescrizionale, non può che iniziare a decorrere da quando esso si è concretizzato; ciò nel rispetto del principio di cui all’art. 2935 c.c. secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Si conclude pertanto insistendo per la condanna del convenuto.

AVVOCATO           Signor presidente le ipotesi interpretative del pubblico ministero, per quanto affascinanti sotto il profilo teorico, sono inaccettabili perché mirano a dare alla stessa locuzione letture differenti. La realtà è però un’altra: esse si scontrano con il dato testuale della norma che richiede la prova della volontà dell’evento dannoso. Agli atti del giudizio questa prova non c’è. Il mio assistito va quindi assolto.

PRESIDENTE          Le parti hanno abbondantemente argomentato le proprie ragioni fornendo ampio materiale di riflessione a questa Corte. Sarà deciso.

(1) Comprese quelle, solo apparentemente minori, del doloso occultamento e del doloso arricchimento, che se non incidono sull’an dell’illecito amministrativo, sono tuttavia in grado, ex lege, di condizionarne ampiamente la portata degli effetti.

(2) Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 22 dicembre 2017, n. 399, in .

(3) Espressione, questa, che peraltro trova un riscontro nella legislazione di settore, per quanto qui interessa, nell’art. 1-bis della l. 14 gennaio 1994, n. 20, secondo cui «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

(4) V., ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., 11 aprile 2018, n. 150, in questa Rivista, 2018, fasc. 3-4, 168, con nota di richiami.

(5) Il Conte di Cavour, fra i giganti della politica europea dell’800, e, per aver ideata e istituita la Corte dei conti, figura di spicco del suo Pantheon ideale (insieme a grandi magistrati come, fra gli altri, Giovanni Giolitti e Costantino Mortati), aveva come noto pensato, in prima persona, a “un castigo in danaro” e al conferimento al giudice contabile del potere equitativo (“secondo le circostanze dei casi”) di “porre a carico” dei responsabili “una parte soltanto dei valori perduti” (lo spunto avrebbe preso forma cogente nell’art. 47 del r.d. 3 novembre 1861, n. 302, sulla contabilità generale dello Stato,).

(6) V., amplius, Corte cost. n. 272/2007.

(7) Da ultimo, in tal senso, Cass., S.U., 7 maggio 2020, n. 8634, la quale si spinge a trarne, sul piano delle conseguenze pratiche, persino che «qualora si tratti dell’accertamento di un fatto reato da parte del giudice penale, la pubblica amministrazione, anche laddove non abbia esercitato l’azione civile nel processo penale, come nella specie, ben può agire in sede civile, per le restituzioni e per il risarcimento del danno, senza che siffatta azione sia ad essa preclusa».

(8) Così Corte conti, Sez. riun. giur., n. 12/2007: «ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, e della conseguente applicazione della sanzione ivi prevista, sia necessaria la sussistenza della colpa grave, o, ovviamente, del dolo, e ciò nella considerazione, desunta dal dato letterale della norma, che la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, nel disciplinare l’elemento soggettivo ai fini della sussistenza della “responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”, stabilisce espressamente che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità, nel merito, delle scelte discrezionali” (art. 1, comma 1, legge n. 20/1994 come modificato dall’art. 3, comma 1, legge n. 639/1996). In altre parole, pur alla luce delle diverse posizioni assunte, sul piano giurisprudenziale, dalle sezioni che si sono fin qui pronunciate sulla questione, e che oscillano tra il ritenere necessaria la “colpa grave” (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), e il ritenere sufficiente una qualsiasi colpa, seppur lieve (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005) o “lievissima”, secondo i principi generali in materia di sanzioni amministrative di cui all’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (cfr. Sez. giur. Regione Siciliana, n. 3198/2006, Sez. giur. Marche, n. 151/2007), queste Sezioni Riunite ritengono che non possa, in ogni caso, prescindersi dal dato letterale della citata disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, in cui il legislatore, senza operare alcuna distinzione fra le diverse forme di responsabilità (responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio e responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, come quella in parola), ha stabilito espressamente che “la responsabilità (senza alcuna distinzione – n.d.r.) dei soggetti (comunque – n.d.r.) sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica (e non v’è dubbio alcuno che, sulla base di quanto sopra si è detto, anche la fattispecie sanzionatoria in parola rientri fra le materie di contabilità pubblica, n.d.r.) è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave”».

(9) Ibidem.

 (10) Ibidem.

(11) Per risalente indirizzo delle magistrature speciali (Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 13 aprile 2000, 1192; Tar Calabria, Catanzaro, 11 luglio 1991, n. 455; Cons. Stato 14 maggio 1983, n. 330), la responsabilità dirigenziale non presuppone un accertamento dell’imputabilità di essa a titolo di colpa o dolo, ma postula, da un lato, la riconduzione dell’attività della pubblica amministrazione alle scelte gestionali del dirigente e, dall’altro, l’inefficacia di queste a raggiungere gli obiettivi previsti.

(12) V. l’audizione di Massimo Luciani (professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”) innanzi le Commissioni 1a e 8a del Senato della Repubblica del 27 luglio 2020.

(13) V. Cass., S.U., n. 24859/2019; n. 8634/2020, cit.; n. 16722/2020). Giova a tal riguardo richiamare anche una recentissima Cass., S.U., n. 21975/20, che, nel ribadire il proprio orientamento in merito al riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a. in caso di azioni di risarcimento promosse nei confronti di dipendenti pubblici in proprio, con precisazione di interesse anche per il riparto con questa magistratura contabile, ha evidenziato che: «qualora la domanda sia proposta nei confronti del funzionario, non rileva stabilire se questi abbia agito quale organo dell’ente pubblico di appartenenza ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la c.d. “frattura” del rapporto organico con quest’ultimo, posto che, nell’uno come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato ex art. 28 Cost.; la stessa conclusione (giurisdizione ordinaria) si impone anche quando la pretesa risarcitoria scaturisca dall’adozione da parte del funzionario, convenuto in proprio, di un provvedimento illegittimo, assumendo questa circostanza la valenza di fatto illecito extracontrattuale intercorrente tra privati, e non ostando a ciò la eventuale proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, posto che l’effettiva riferibilità all’ente dei comportamenti dei funzionari attiene al merito e non alla giurisdizione. Si tratta di indirizzo più volte successivamente riaffermato».

(14) Come noto, in materia di dolo si erano andati delineando, nel corso degli anni, due contrapposti indirizzi nell’ambito della giurisprudenza contabile. Secondo un primo orientamento, asseritamente ispiratosi alla nozione civilistica del dolo in adimplendo (art. 1225 c.c.), il c.d. “dolo contrattuale” andava inteso non come «coscienza e volontà di provocare il danno, ma [quale] mera consapevolezza e volontarietà dell’inadempimento. La nozione è ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza contabile sul presupposto che la responsabilità amministrativa abbia natura di responsabilità contrattuale, invero caratterizzata dalla violazione di obblighi di servizio inerenti al rapporto che lega il funzionario pubblico con l’amministrazione» (v. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 399/2017). In altre parole, mentre «il dolo penale viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di nuocere, ossia di agire ingiustamente a danno di altri da parte di persona imputabile, […] il dolo contrattuale consiste [invece] nel proposito consapevole di non adempiere all’obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri riconducibili all’espletamento del rapporto di impiego, ovvero di servizio per quanto concerne i soggetti privati», a prescindere dalla volontà di provocare l’evento dannoso (v. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 58/2007; nel senso dell’applicabilità della nozione di dolo contrattuale al giudizio di responsabilità, v., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 7/2017; Sez. giur. reg. Campania, n. 951/2014; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 229/2014; Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Bolzano, n. 24/2013; Sez. giur. reg. Veneto, n. 613/2012; Sez. giur. reg. Umbria, n. 390/2003; Sez. giur. reg. Lazio, n. 783/2003; Sez. I centr. app., n. 426/2002; Sez. giur. reg. Siciliana, n. 609/2002). Viceversa, per un secondo ed opposto orientamento giurisprudenziale il «dolo altro non è che l’intenzionalità di un comportamento produttivo di un evento pregiudizievole, in specie la consapevole volontà di arrecare un nocumento contra ius all’amministrazione lato sensu intesa […] Di talché […] per la sussistenza del c.d. dolo erariale non basta la consapevole violazione degli obblighi di servizio ma serve la volontà di produrre l’evento dannoso» (Sez. giur. reg. Veneto, n. 191/2014; nel senso che il dolo consiste nell’intenzionalità del comportamento produttivo dell’evento lesivo, vale a dire nella consapevole volontà di arrecare un danno ingiusto all’amministrazione, v. altresì, ex multis, Sez. giur. reg. Umbria, n. 2/2017; Sez. giur. reg. Abruzzo, n. 18/2017; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 38/ 2014; Sez. II centr. app., n. 534/2014; Sez. giur. reg. Puglia, n. 1628/2013; Sez. III centr. app., n. 783/2013; n. 724/2013; n. 510/2004; Sez. giur. reg. Veneto, n. 175/2013; n. 1124/2012).

(15) Volendo tralasciare i prevedibili effetti negativi, in termini di immagine, per coloro che risultino accusati di avere dolosamente depauperato l’ente di appartenenza, anziché di avere agito più semplicemente con colpa grave, occorre considerare che la contestazione di avere cagionato un danno a titolo di dolo, se accolta, determina inevitabilmente conseguenze negative anche sul piano più strettamente giuridico, comportando, ad esempio, che nel caso di concorso di più persone nell’illecito contabile i soli corresponsabili a titolo di dolo siano tenuti a rispondere solidalmente per l’intero ammontare danno, anziché in via parziaria per la sola parte di danno da essi cagionata (art. 1, c. 1-quinquies, l. 14 gennaio 1994, n. 20).

(16) Si pone espressamente il problema della duplicità di orientamenti in materia di dolo, ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., n. 401/2014, finendo per privilegiare il secondo indirizzo e affermando, di conseguenza, che «il dolo deve consistere nella volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa».

(17) Secondo la relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883, «la norma [di cui all’art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020] chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto».

(18) Imputare a taluno a titolo di dolo un evento dannoso solo perché si sia violata consapevolmente una regola di condotta o un obbligo di servizio, come propugnato dalla teoria del c.d. “dolo contrattuale”, porterebbe inevitabilmente a riconoscere come dolose certe condotte anche quando l’autore del comportamento abbia agito nella assoluta convinzione di non provocare danno alcuno, ossia senza alcuna intenzionalità di cagionare danno all’amministrazione.

(19) Adottato con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, ai sensi dell’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124, il codice di giustizia contabile è stato successivamente oggetto di modifiche ad opera del d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114 (c.d. correttivo).

(20) Pur essendo espressamente indicata tra i mezzi di prova di cui il giudice contabile può avvalersi – se ritualmente dedotta e processualmente rilevante – ai fini dell’accertamento dei fatti, nella prassi quotidiana è estremamente raro che venga ammessa la testimonianza di persone informate sui fatti (art. 98 c.g.c.), preferendosi viceversa privilegiare il mero esame dei verbali redatti in sede di indagine da parte degli organi inquirenti (per uno dei pochissimi casi in cui invece la prova testimoniale risulta essere stata ammessa e assunta in giudizio, v. Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, n. 47/2018).

(21) La proliferazione, nell’ambito del giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, di fattispecie seriali con connotazioni penalistiche, generalmente frutto di appositi filoni di indagine condotti da organismi di polizia giudiziaria su diffusi fenomeni illeciti di carattere appropriativo (ad es., da ultimo, il mancato riversamento dell’imposta di soggiorno da parte di esercenti alberghieri, astrattamente sussumibile nel delitto di peculato), si può spiegare anche con la facilità di gestione di un ampio numero di fascicoli da parte delle procure contabili e con l’elevato tasso di accoglimento dei relativi atti di citazione. Invero, dall’esame di diverse relazioni annuali pubblicate negli ultimi anni sul sito istituzionale della Corte dei conti in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario si evince l’impressione che l’attività giurisdizionale stia cadendo ostaggio di una sorta di ansia da prestazione, cedendo alla tentazione di ridurre il resoconto della stessa ad una fredda analisi costi/benefici in termini di numeri (possibilmente crescenti) di atti di citazione emessi e di importi (possibilmente elevati) di condanne ottenute. In questo senso si spiega, ad esempio, l’affermarsi di elaborazioni statistiche dei dati, talvolta frutto di opinabili se non addirittura poco trasparenti manipolazioni degli stessi, volte a evidenziare, in chiave marcatamente autoreferenziale, l’elevato rapporto tra le richieste di danni avanzate in citazione e gli importi di condanna liquidati in sentenza, quale presunto indice qualitativo del lavoro svolto. In altre parole, parafrasando un monito espresso dallo stesso Procuratore generale della Corte dei conti, il rischio è quello di scivolare in una sorta di datacrazia contabile, ossia nella «diffusione di dati solo apparentemente oggettivi, in realtà espressione di processi formativi ed informativi volti prevalentemente ad orientare il giudizio dei cittadini secondo finalità predeterminate. Processi nei quali gli indici statistici finiscono per diventare fine e non strumento» (Procuratore generale Avoli, Inaugurazione dell’anno giudiziario 2019).

(22) Come noto, dopo la riforma del codice di procedura penale del 1988, che ha abolito la pregiudiziale penale dell’art. 3 del previgente codice, e con la nuova formulazione dell’art. 295 c.p.c., sostituito dall’art. 35 della l. n. 353/1990, si è univocamente affermato il principio di autonomia e separatezza dei giudizi e la mancanza di pregiudizialità tra processo penale e processo di responsabilità amministrativa con la sola eccezione rappresentata dall’art. 651, c. 1, c.p.p., ai sensi del quale «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato»; cosicché, non essendo più configurabile un’ipotesi di sospensione obbligatoria, non si può dar luogo a sospensione del processo contabile quando il giudice sia in possesso di elementi idonei e sufficienti ai fini del decidere, anche se i giudizi concernano gli stessi fatti materiali (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, n. 257/2020; Sez. giur. reg. Toscana, n. 163/2020; Sez. II centr. app., n. 135/2020; Sez. I centr. app., n. 135/2020, in questa Rivista, 2020, fasc. 5, 208, m.). Tuttavia, nonostante tale principio costituisca ormai ius receptum, assai frequentemente capita ancora che, dinanzi alla prospettiva di accertare in via autonoma fatti di rilevanza penale, si preferisca attendere l’esito del concomitante processo penale sospendendo invece quello contabile (v., ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, ord. n. 17/2020; Sez. giur. reg. Marche, ord. n. 44/2019; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, ord. n. 41/2019; Sez. giur. reg. Lazio, ord. n. 130/2018). Vi è da aggiungere, però, che quando tali provvedimenti di sospensione sono tempestivamente impugnati in sede di regolamento di competenza (ex art. 119 c.g.c.) gli stessi vengono invariabilmente annullati da parte dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (cfr., ex plurimis, Corte conti, Sez. riun. giur., ord. n. 9/2018, ivi, 2018, fasc. 3-4, 155, con nota di richiami; nn. 6 e 12/2019, n. 2/2020).

 (23) La eccessiva esasperazione della c.d. paura della firma, che attanaglierebbe i dirigenti pubblici dinanzi alla prospettiva di finire dinanzi alla Corte dei conti in caso di errore, frenandone l’azione, e la temporanea limitazione al dolo della responsabilità erariale (art. 21, c. 2, d.l. n. 76/2020) hanno certamente contribuito a tale lettura.

 (24) Si pensi, ad esempio, alla mancanza del potere di intercettazione telefonica, informatica o ambientale, o a quello di perquisizione domiciliare e personale, rimessi alle sole procure ordinarie per l’accertamento di condotte delittuose. (25) V. Corte conti, Sez. riun., n. 28/2015/Qm, in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 278, che giustifica tale differente regola probatoria con i diversi valori in gioco nei due giudizi: «la differente natura dei valori in gioco nei due tipi di processo (libertà e patrimonio) segna l’essenziale distinzione tra il processo penale e quello civile, che è – come detto – la regola probatoria».

(26) Si pensi alle ispezioni e accertamenti diretti (art. 61 c.g.c.) o ai sequestri (art. 62 c.g.c.) come tipici atti a sorpresa. Sotto quest’ultimo profilo particolare attenzione deve essere riservata ai cosiddetti sequestri di corrispondenza, sia perché le norme codicistiche dettano norme particolarmente stringenti quanto al ruolo che il pubblico ministero deve direttamente assolvere nell’esame di tali elementi (art. 62, c. 4, c.g.c.), sia perché spesso è dall’attento esame di tali elementi (note, email, appunti e via dicendo) che si può trarre la prova della consapevolezza di porre in essere condotte illecite e pregiudizievoli per l’erario.

(27) Ovviamente diverso resta l’oggetto alla cui realizzazione deve essere diretta la volizione dell’agente; l’evento penalmente rilevante in un caso (art. 43 c.p.) e l’evento dannoso per l’erario nell’altro (art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020).

(28) Uno dei casi più eclatanti e al tempo stesso emblematici di valutazione differenziata, in sede civile ed in sede penale, degli stessi elementi probatori (acquisiti in ordine al medesimo fatto storico e rispetto alle medesime parti processuali) è rappresentato dal celebre processo per uxoricidio avviato contro il popolare sportivo O.J. Simpson, in cui le prove raccolte furono, dalle rispettive Corti, giudicate insufficienti per la affermazione della responsabilità penale dell’imputato, ma del tutto idonee ai fini della condanna del medesimo al risarcimento del danno arrecato alle parti offese. Un tale fisiologico contrasto di giudicati, diretta conseguenza del differente regime della prova vigente nelle due distinte sedi processuali, potrebbe egualmente verificarsi anche nostro sistema giuridico, in cui il giudice civile o contabile, procedendo, con pienezza di cognizione e senza essere influenzato dagli esiti del processo penale, ad un “proprio” accertamento del fatto, potrebbe giungere a soluzioni decisorie diverse da quello penale pur in relazione alle medesime vicende storiche.

(29) V., ad esempio, alcune decisioni di primo grado con le quali ci si è limitati ad affermare che «Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso il ricorso al potere riduttivo dell’addebito» (Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 26 settembre 2018, n. 467), ovvero che «Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritiene il collegio che la consapevole (pertanto dolosa) attività illecita comporti l’impossibilità di accogliere la richiesta difensiva di uso del potere riduttivo» (Sez. giur. reg. Liguria, 29 luglio 2019, n. 144), o ancora «ritiene di non poter esercitare il potere riduttivo dell’addebito, poiché precluso, per costante giurisprudenza di questa Corte, a fronte di condotte riconosciute come caratterizzate dall’elemento psicologico del dolo» (Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 26 marzo 2019, n. 43).

(30) V., da ultimo, quanto espressamente affermato da Cass., S.U., 4 ottobre 2019, n. 24859, cit., che ha sostenuto la funzione prevalentemente sanzionatoria della responsabilità per danno erariale.

(31) V. Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 16 maggio 2019, n. 112.

(32) Ad es., l’art. 11 della l. n. 241/1990, laddove prevede che gli accordi tra privati e amministrazione procedente non abbiano per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento; l’art. 21-octies della suddetta legge, che pone un limite all’annullabilità del provvedimento affetto da vizi del procedimento o della forma qualora abbia natura vincolata; l’art. 31 c.p.a., che, nel definire il perimetro di applicabilità al giudizio avverso il silenzio della pubblica amministrazione, stabilisce, tra le altre cose, che abbia a oggetto provvedimenti relativi all’attività vincolata della pubblica amministrazione e che non residuino altri margini di esercizio della discrezionalità.

 (33) Romano definitiva la discrezionalità amministrativa pura come lo «spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione»; Giannini, con la sua teoria del minimo mezzo, la riconduceva alla ponderazione dell’interesse pubblico e di quelli secondari al fine contemporaneamente di massimizzare il primo causando il minor sacrificio dei secondi; Virga come la «facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato».

 (34) Lo stesso Giannini affermava che la discrezionalità tecnica si è chiamata così per un errore storico e ne ha chiarito la diversità ontologica rispetto alla discrezionalità amministrativa pura. La distinzione tra discrezionalità amministrativa e tecnica sta nel fatto che nel primo caso la discrezionalità investe due momenti: quello del giudizio (dove l’amministrazione individua gli interessi in gioco) e quello della scelta (quando, alla luce delle risultanze del giudizio, l’amministrazione esprime la sua volontà di cui dà conto nella motivazione del provvedimento); nel secondo, invece, attiene soltanto alla fase del giudizio.

 (35) È utile ricordare che il giudice delle leggi ha respinto un tentativo di tipizzazione dei casi di colpa grave contenuto in una legge della provincia di Bolzano nel 2000, ribadendo l’atipicità dell’illecito contabile (a differenza di quello penale) e la necessità della valutazione caso per caso da parte del giudice.

(36) D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.

 (37) Si tratta della responsabilità civile verso terzi, di quella penale, di quella amministrativo contabile, nonché di quella disciplinare e dirigenziale. Per una loro disamina, v. V. Tenore, L. Palamara, B. Marzocchi Buratti, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, Giuffrè, 2013.

(38) D.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, recante Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

(39) Nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 si legge: «In materia di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto. Inoltre, fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità viene limitata al profilo del dolo solo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo».

(40) Per un’analisi storico costituzionale, v. M. Benvenuti, Art. 28, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario allaCostituzione, Torino, Utet, 2006.

(41) V., ad es., Cass., Sez. lav., 20 febbraio 2007, n. 3929.

 (42) Così nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 (v. supra). Alcuni commentatori delle modifiche legislative hanno prospettato che tale dolo, dovrà, quindi, essere interpretato alla stregua del dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale. V., in tal senso, L. D’Angelo, Il “nuovo” dolo erariale nelle prime decisioni del giudice contabile (nota a Corte dei conti, Sez. I App., 2 settembre 2020, n. 234), in , 25 settembre 2020.

 (43) Si definisce danno indiretto quello subito indirettamente dalla p.a., chiamata innanzi al giudice ordinario (o anche innanzi al giudice amministrativo) a risarcire, ex art. 28 Cost., il terzo danneggiato dal proprio lavoratore durante l’attività di servizio: così in V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità amministrativo-contabile davanti alla Corte dei conti, Napoli, Esi, 2019, 200.

(44) Quali, ad es., la turbativa d’asta (ex art. 353 c.p.), in quanto la disciplina codicistica tutela l’interesse della pubblica amministrazione al libero svolgimento dei pubblici incanti e delle licitazioni private e, in una logica plurioffensiva, la libertà di chi vi partecipa, ma non tiene conto delle peculiarità del danno erariale.

 (45) Si tratta delle disposizioni di cui al c. 2 dell’art. 21 del d.l. n. 34/2020.

(46) Quali, ad es., le modifiche apportate con il d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996, n. 639. La novella fu subito oggetto del sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale, che ritenne non fondata la questione con la sent. n. 371/1998, rilevando la coerenza delle modifiche allora previste con la revisione della disciplina del pubblico impiego che era stata di recente approvata e volta a valorizzare il profilo dei risultati dell’attività amministrativa.

(47) La cui disciplina si rinviene nel d.lgs. n. 150/2009.

 (48) La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che il parere del Comitato dei garanti per il personale statale – disposizione non derogabile dalla contrattazione collettiva ed estensibile anche alle pubbliche amministrazioni non statali in forza della norma di adeguamento di cui all’art. 27, c. 1, d.lgs. n. 165/2001 – riguarda le sole ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato raggiungimento degli obiettivi e alla grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente, e non è quindi estensibile alla responsabilità tipicamente disciplinare, correlata al colpevole inadempimento degli obblighi gravanti sul prestatore di lavoro, tranne nel caso in cui vi sia un indissolubile intreccio tra i due tipi di responsabilità. Ne consegue che, ove siano contestate mancanze di rilevanza esclusivamente disciplinare, la sanzione può legittimamente essere irrogata anche in assenza di detto parere ovvero con parere negativo (ex multis, Cass., Sez. lav, 10 dicembre 2019, n. 32258).

 (49) V. artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165/2001. La composizione di tale Comitato, ad eccezione della sua presidenza, affidata ad un magistrato della Corte dei conti, è stata oggetto di diverse modifiche legislative volte anche a incrementarne il numero dei componenti. L’attuale fisionomia della Commissione prevede cinque componenti: un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo Presidente; un componente designato dal Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), già Civit; un esperto designato dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione scelto tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico; due dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui almeno uno appartenente agli organismi indipendenti di valutazione (Oiv), estratti a sorte fra coloro che presentano la propria candidatura.

(50) Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza per il trattamento del personale, nota 24 dicembre 2013, n. Dfp/59912 – Comitato dei garanti di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001 – Documentazione da trasmettere per il parere obbligatorio.

 (51) Si ricorda, inoltre, che nella legge delega c.d. Madia (l. n. 124/2016), nella parte poi dichiarata incostituzionale di riforma della dirigenza pubblica, si prevedeva la sostituzione di tale organismo con una specifica commissione. V. l’art. 11, c. 1, lett. b), n. 1, che prevedeva «l’istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di una Commissione per la dirigenza statale, operante con piena autonomia di valutazione, i cui componenti sono selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali», tra le cui funzioni rientrava anche «la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli incarichi e del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi; l’attribuzione delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relative ai dirigenti statali».

 (52) La separazione da coloro che svolgono le funzioni di indirizzo politico e la compartecipazione, seppure debole, dei soggetti che si occupano della gestione amministrativa alla definizione degli obiettivi stessi concilia il principio democratico secondo cui nessun potere pubblico può essere sottratto al circuito politico rappresentativo (art. 1 Cost.) con quello di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

(53) Ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286.

(54) L’art. 21, c. 1, della l. n. 243/2012 ha previsto la sperimentazione di un bilancio “a base zero”, come modalità di superamento del criterio della spesa storica e di rafforzamento del ruolo programmatorio e allocativo del bilancio dello Stato. La sperimentazione è stata affidata al Ministero dell’economia e delle finanze-Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, è terminata nel mese di giugno 2014, e ad essa ha fatto seguito la presentazione alle Camere di una specifica relazione. Successivamente, con l’approvazione dell’ordine del giorno G/1121/1/3/Tab.6 (testo 2) del 29 ottobre 2013 al d.d.l. bilancio 2014, il Governo si è impegnato a intraprendere una specifica attività di simulazione degli effetti derivanti dall’adozione di detto strumento da parte del Ministero degli affari esteri, anche usando delle versioni meno rigide del tradizionale modello di budget “a base zero”. Al fine di attuare il percorso previsto dalla norma e dal successivo ordine del giorno, è stato costituito un apposito gruppo di lavoro interministeriale tra il Mef e il Mae. La sperimentazione ha preso a riferimento lo schema di “justification au premier euro” previsto dalla Lolf in Francia e ha avuto ad oggetto l’obiettivo “Promozione della lingua italiana”, in considerazione della tipologia di prodotti e servizi resi e la disponibilità di indicatori già utilizzati dall’amministrazione.

(55) Per la distinzione tra la Costituzione dei diritti e quella dei doveri, v. M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Aa.Vv., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Padova, Cedam, 1985, II, 497 ss.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa. – 3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere! – 4. Dolo e potere riduttivo. – 5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti. – 6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie.

  1. Premessa

Anche in ambito erariale, il dolo si pone, a ben vedere, come cifra identitaria – non unica, e tuttavia qualificante – di un’intera esperienza ordinamentale, prima, e giudiziaria, poi. Nell’intensità, nella profondità, nella colorazione, e nelle variabili declinazioni (1), il dolo erariale segna infatti in profondità l’illecito amministrativo, o almeno quella parte di esso che da sempre cerca ispirazione e distinzione, allo stesso tempo, nell’illecito penale. Diversamente da quest’ultima, infatti, l’altra grande famiglia di illeciti amministrativi, vale a dire quella delle fattispecie di “spreco” (come oggi si usa dire), rifugge – salvo casi limite – il dolo, e resta saldamente ancorata al solo fattore “colpa” (naturalmente, almeno grave). Non a caso, anche la risposta del sistema giustizia si sviluppa in modo binario. Così, se la risposta dello Stato alla malapianta della corruzione è affidata, per gli aspetti di rispettiva competenza, sia alla magistratura ordinaria che alla magistratura contabile, per sperperi e occasioni perdute, che recano danno ma non costituiscono reato, la reazione ordinamentale è affidata in via esclusiva alla magistratura contabile. Lo è, però e per vero, nella logica della deprivazione patrimoniale tipica del danno, dove ciò che non ritroviamo (o ritroviamo solo secondariamente), della (tradizionale e, nell’altro campo, in certa parte ancora intatta) dimensione penalistica, è la componente etica della riprovevolezza del comportamento: dinanzi al giudice contabile, il responsabile va perseguito non tanto perché sia immorale la sua condotta, quanto perché – laicamente e utilitaristicamente – il danno da “spreco” che ha cagionato impedisce in parte qua di realizzare (finanziandole) utili politiche pubbliche. In questo, la sistematica legale del danno erariale (quello da “spreco”, in particolare) si rivela di formidabile modernità. Se questo è, appunto, in rapporto all’illecito amministrativo da “spreco”, il dolo conserva invece ancora una sua centralità – sebbene un po’ irrisolta fra altalenanti accenti panpenalistici e rapsodiche pulsioni neocivilistiche – nel campo dell’illecito amministrativo da reato, o da violazione di ordini e prescrizioni. Questa irresolutezza è il riflesso, non di rado, della distanza fra disvalore morale della condotta incriminata e reale deprivazione patrimoniale che da esso in concreto deriva. Una distanza che in sede pretoria sfocia in diverse tratteggiature sfuggenti del danno, cariche di significato più morale che materiale. Così è, a puro titolo di esempio, per quella giurisprudenza che ha declinato il danno – diverso da quello all’immagine – da assunzioni illegittime nella «mancata realizzazione della funzione sociale di assumere presso gli uffici pubblici persone selezionate attraverso il pubblico concorso, con conseguente depauperamento sia dell’intera comunità, sia dell’ente che ha assunto il personale in maniera indebita, perché nel contesto sociale emerge demotivazione e degrado dei suoi appartenenti, che vedono frustrate le possibilità di conseguire legalmente e regolarmente un posto di lavoro» (2). Più il danno (diverso da quello all’immagine) si allontana dalla dimensione propriamente estimatoria (e, quindi, concreta), per dematerializzarsi ed eticizzarsi (se si preferisce, per moralizzarsi), più tendono a sfumarsi anche i contorni del soggetto passivo della lesione: da un’amministrazione pubblica ben determinata alla “comunità amministrata” (3). E più il danno tende a dematerializzarsi, maggiormente inevitabile diventa il ricorso – a fini quantificatori – alla clausola equitativa dell’art. 1226 c.c., talora con declinazioni estreme (sottostimate o, all’opposto, un po’ iperboliche) o contraddittorie (si pensi ai casi nei quali alla liquidazione ex art. 1226 c.c. si somma l’applicazione del potere riduttivo (4)), con le implicazioni che ne conseguono (anzitutto, una sostanziale eterogenesi dei fini, rispetto all’originale – ma sempre attuale, perché di estremo buon senso – ispirazione cavouriana (5)). Indirettamente, peraltro, il dolo erariale trova occasione e motivo di riproporre se stesso all’attenzione anche nel quadro dell’opinabile (6) (ancorché costante) indirizzo delle S.U. secondo il quale «l’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice; ne deriva che le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione ma di proponibilità dell’azione di responsabilità innanzi al giudice contabile […] (7)». Con il che si pone, e non può non porsi, il tema di “un” dolo al (contestuale) servizio di due prospettive epistemologiche, dove l’una si modulerebbe secondo tonalità prevalentemente sanzionatorie, e l’altra, invece, avrebbe una connotazione riparatoria e integralmente compensativa. E dove, soprattutto, la prima delle due che raggiungesse lo scopo (id est, il suo specifico – e diverso – scopo) produrrebbe per l’effetto, improbabilmente e insostenibilmente, l’estinzione (per… assorbimento?) dell’altra. Ma il dolo segna, per vero, anche il campo delle fattispecie di illecito amministrativo di stampo squisitamente sanzionatorio. Da oltre 10 anni, infatti, le Sez. riun. hanno chiarito «che il titolo soggettivo di imputazione della sanzione di cui all’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, debba essere determinato e valutato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, e che pertanto, ai fini della applicazione della sanzione in parola nei confronti degli amministratori che abbiano deliberato il ricorso all’indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, è necessario che ricorra, nella fattispecie concreta, l’elemento soggettivo della colpa grave, o, ovviamente, del dolo» (8).

D’altra parte, se in simili situazioni la condotta viene sanzionata a prescindere dalla produzione di un danno (avendo il legislatore ritenuto meritevole di particolare protezione la regola dell’equilibrio di bilancio anche quando la sua violazione non comporti un danno attuale e concreto valutabile economicamente, ma soltanto il pericolo di disequilibri che incidano negativamente sulla stabilità della finanza pubblica nel suo complesso) – tenuto conto, altresì, che la sanzione è commisurata a parametri certi (le indennità percepite dagli amministratori al momento della violazione) ed è irrogabile, nei limiti minimo e massimo individuati dalla legge stessa, in ragione della mera potenzialità lesiva del comportamento – «non occorre, da parte del giudice, verificare la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile, non essendo, appunto, una forma di responsabilità per danno, ma è necessario che si accerti la mera violazione del precetto previsto dalla legge, oltre, ovviamente, l’elemento psicologico» (9). Ma è plausibile che il dolo nella responsabilità erariale sanzionatoria (che tende a recare offesa a un bene giuridico sempre immateriale, e può persino non recargliene affatto, in concreto, trattandosi di un illecito di pericolo, dove la componente disvaloriale di tipo etico si accentua) si sovrapponga perfettamente a quello tipico della responsabilità (propriamente) erariale risarcitoria? È, cioè, davvero plausibile che coincida in tutto e per tutto con esso? Il quesito non è ozioso, né banale, se si considera che – sempre ad avviso delle Sez. riun. – ove la stessa condotta illecita contestabile ex lege a titolo di responsabilità sanzionatoria «dovesse cagionare un danno patrimoniale, economicamente valutabile, la fattispecie comporterebbe altresì la responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio, che – come è noto – è configurata dal legislatore mediante il ricorso ad una clausola generale, secondo cui la responsabilità discende dall’aver cagionato un danno patrimoniale all’amministrazione pubblica, in violazione degli obblighi di servizio e con comportamenti omissivi o commissivi connotati dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave» (10). Può davvero, un unico e sempre identico dolo, colorare indistintamente una stessa condotta materiale, reprimibile tuttavia, ex lege, due volte, a diverso titolo (una prima, in nome della logica riparatoria propria del risarcimento, e una seconda, nella logica punitiva panpenalistica dell’illecito di pericolo)? O non occorre piuttosto porsi il problema di una possibile (o necessaria?) pluralizzazione del dolo, perfino con riguardo a una stessa condotta materiale (in quanto plurioffensiva), in rapporto alla diversità dei beni giuridici (contemporaneamente) protetti e, di riflesso, alla diversità dei risultati finali perseguiti sul piano ordinamentale? Come si pone, tutto quanto precede, rispetto al sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020? Specie, è notazione d’obbligo, se si considera che il medesimo d.l. n. 76/2020 scrive un capitolo nuovo e di ampia portata riguardo al fenomeno, da tempo silentemente in atto, di avanzamento della frontiera della responsabilità dirigenziale con arretramento (per correlativo e immediato riflesso) della frontiera della responsabilità amministrativa (11). L’impressione, netta, è che in materia di dolo erariale l’art. 21, c. 1, riproponga con forza, agli operatori e agli interpreti, il tema della ricerca di un punto di equilibrio sistemico. Una ricerca da svolgere, naturalmente, facendo tesoro di una delle eredità politiche più forti e attuali del pensiero di Luigi Einaudi, il quale osservava, acutamente, che «non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare».

2. L’anomalo percorso involutivo di disancoraggio delle gestioni pubbliche dalla responsabilità amministrativa

In un’epoca nella quale le tradizionali categorie del diritto sono travolte dal rapidissimo mutare dei contesti socio economici al fine di adattarsi alle innovative esigenze di tutela, anche la responsabilità amministrativa per danno all’erario sta subendo la medesima sorte. Il processo evolutivo di siffatto istituto ha però subito una parabola davvero peculiare e, paradossalmente, non ancorata al mutare del proprio mondo di riferimento, rappresentato dalla pubblica amministrazione e, più in generale, dalle risorse di pubblica provenienza. Come è bene noto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si è assistito ad un sostanziale mutamento del “volto della p.a.”, aumentando in modo esponenziale sia il ricorso a soggetti di diritto privato per l’espletamento delle tipiche funzioni autoritative ed erogazione dei servizi pubblici, sia l’assunzione da parte della medesima p.a. di una “forma” di diritto privato, al fine di acquisire una presunta, ma mai provata, maggiore agilità nell’espletamento delle proprie funzioni.

Ne è, pertanto, derivato un graduale ma inesorabile decentramento di una sempre più nutrita percentuale di risorse pubbliche nelle mani di soggetti formalmente di diritto privato, ma pur sempre titolari delle funzioni pubbliche “concesse”. La logica conseguenza di un siffatto processo rivoluzionario sarebbe stata l’adattarsi anche dello speciale regime di responsabilità posto a presidio del corretto uso delle pubbliche risorse, evitando la facile elusione dello stesso mediante l’evolvere “formale” del mondo della pubblica amministrazione. Nella realtà concreta si è, viceversa, assistito ad un percorso “anomalo”, non di evoluzione ma, piuttosto, di involuzione, affermatosi sia a livello giurisprudenziale, sia a livello legislativo, improntato ad un lento e/o parziale disancoraggio della gestione “sostanziale” delle pubbliche risorse dallo speciale regime di responsabilità che fino ad oggi ne aveva connotato la essenza. Sul piano della giurisprudenza, rileva un ormai consolidato orientamento della Cassazione a Sezioni unite, che, in sede di regolamento di giurisdizione, dopo una iniziale e timida apertura alla giurisdizione contabile, fondata proprio sul mutamento istituzionale della p.a., ha, poi, lentamente e definitivamente spostato il baricentro verso la giurisdizione ordinaria, denegando quella contabile, sia nelle ipotesi di soggetti derivanti dai processi di privatizzazione di enti pubblici, sia nelle ipotesi di soggetti di diritto privato costituiti dalle medesima p.a., con la sola eccezione dei soggetti “in house”. Il legislatore, dal suo canto, non ha colto la sostanza del mutamento in atto, mai decidendosi a confermare la penetrazione dello speciale regime della responsabilità erariale anche nel modo “sostanziale” della p.a., consentendole di “seguire” il percorso delle finanze erariali verso soggetti solo formalmente privati, ma, nella sostanza, gestori di ingentissime risorse pubbliche. Di contro, è intervenuto più volte al fine di “conformare” il regime della responsabilità in parola, da ultimo, con il d.l. n. 76/2020, da un lato, precisando e perimetrando, con disposizione di carattere definitivo, i confini dell’elemento soggettivo rappresentato dal dolo, dall’altro, limitando, in via solo transitoria, fino, cioè, al 31 dicembre 2021, la responsabilità per danno erariale ai soli casi, appunto, di dolo, con esclusione quindi della rilevanza, a tale fine, della colpa grave, ad eccezione delle fattispecie di danno cagionate a seguito di omissione o inerzia del soggetto agente. Ferma restando la discrezionalità del legislatore, tuttavia, è bene precisarlo, non priva in assoluto di limiti, ciò che lascia perplessi sono le motivazioni addotte a fondamento della modifica normativa in esame, rappresentata, secondo quanto emerge anche dai lavori preparatori, dalla necessità di calmierare la “paura della firma” che indurrebbe nella dirigenza pubblica il regime della responsabilità contabile. Nella sostanza, dunque, si è espressamente inteso limitare l’ambito applicativo del regime della responsabilità per danno all’erario, onde ottenerne, quale contraltare, una maggiore “spregiudicatezza” della dirigenza pubblica nel “fare”. Quanto alla precisazione in tema di “dolo”, il primo comma dell’art. 21 in esame, precisa che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Si tratta in pratica di una disposizione che ha ricadute sotto lo specifico profilo dell’onere della prova gravante sul pubblico ministero contabile, imponendo, ai fini della eventuale contestazione del requisito soggettivo del dolo, la dimostrazione della volontà, da parte del soggetto agente, dell’evento dannoso. Occorre, cioè, comprovare in atti che la condotta antigiuridica è stata connotata dalla volontà specifica di danneggiare, dalla volontà, cioè, dell’evento dannoso. Si impone, in pratica, di comprovare la volontà anche del “danno conseguenza” (12). Dal punto di vista pratico, fermo restando quanto la giurisprudenza avrà modo di precisare, può subito porsi in evidenza che, nella realtà del concreto operare, la stragrande fattispecie delle condotte antigiuridiche, lesive dell’erario non sono animate da una precisa e specifica volontà di cagionare il “danno conseguenza”. Sono piuttosto finalizzate, infatti, ad ottenere illeciti tornaconti e/o vantaggi, quali ad esempio: la tangente, l’acquisizione di crediti personali e/o favori elettorali mediante la distribuzione di consulenze illecite, la mancata riscossione di canoni locatizi e così via. Se certamente la condotta antigiuridica può essere animata dalla consapevolezza e conseguente volontà di violare le norme ed i propri doveri di servizio pur di ottenere quei vantaggi, l’ulteriore conseguenza concretizzantesi nel concreto danno erariale rimane, per la verità, sotto lo specifico profilo psicologico, sullo sfondo o meglio, senza dubbio viene prefigurata ed “accettata”, ma non direttamente “voluta”. Trattasi di fattispecie differenti da quelle relative ad altre ipotesi di responsabilità, come ad esempio nel caso della responsabilità penale, laddove, a fronte della fattispecie di reato tipica rileva la volontà di ledere proprio quel determinato bene oggetto di protezione. In definitiva, se, certo non può negarsi che, in linea teorica, possa anche agirsi allo specifico scopo di “volere” il danno all’erario, non può non considerarsi che la realtà concreta ed operativa dimostra che siffatta circostanza è davvero rara. Alla luce di quanto sopra, dunque, al netto delle rare ipotesi nelle quali rilevi una precisa e specifica volontà di danneggiare, a seguito della modifica di cui al predetto art. 21, potrà più facilmente contestarsi la responsabilità erariale a titolo di dolo solo nel caso in cui si interpreti la nozione di “volontà dell’evento dannoso” anche nel senso, più ampio, di prefigurazione ed accettazione dello stesso da parte del soggetto agente. Trattasi, tuttavia, di una modifica che, comunque, dal punto di vista della incidenza sugli ambiti di applicazione del regime di responsabilità in esame, non avrà un grande impatto limitativo, permanendo, a regime, la possibilità di contestare la stessa a titolo di colpa grave, fattispecie, quest’ultima, che, nel concreto, è quella di maggiore applicazione. Maggiori perplessità desta la disposizione di cui al c. 2 della norma in esame, secondo la quale «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente». Va subito posto in evidenza che, come si diceva, la discrezionalità del legislatore non è assoluta, in quanto vincolata al limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte. Ebbene, può nutrirsi un fondato dubbio che siffatta drastica perimetrazione e limitazione del regime della responsabilità in esame possa apparire in violazione del suddetto limite della non manifesta irragionevolezza, in quanto, unitamente alla precisazione in tema di dolo, si rischia concretamente di ridurre, se non annullare, la configurabilità della responsabilità contabile per il periodo in parola. Sotto il profilo delle ricadute pratiche, non sembra, davvero, che siffatto intervento normativo sia idoneo a raggiungere lo scopo del calmierare “la paura della firma”, esponendo, paradossalmente, il pubblico dipendente ad una eventuale pressione maggiore. È ormai consolidato l’orientamento della giurisprudenza della Cassazione a Sezioni unite, secondo il quale l’azione di responsabilità per danno erariale e quella con la quale le amministrazioni interessate possono promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali. La prima è volta, infatti, alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della p.a. e al corretto impiego delle risorse pubbliche, con funzione prevalentemente sanzionatoria. La seconda è finalizzata, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola amministrazione attrice. L’eventuale interferenza che può determinarsi tra tali giudizi pone esclusivamente un problema di proponibilità dell’azione di responsabilità (nonché di eventuale osservanza del principio del ne bis in idem), senza dar luogo a questione di giurisdizione (13). Ne deriva, pertanto, che, in presenza di condotte antigiuridiche, lesive dell’erario, poste in essere da dipendenti delle amministrazioni, in linea generale è possibile che si attivi, al fine di ottenere l’eventuale risarcimento del danno, sia la medesima amministrazione danneggiata in sede civile, sia il procuratore della Repubblica presso la Corte dei conti a titolo di responsabilità erariale. I presupposti e gli esiti di siffatte azioni sono, tuttavia, differenti, atteso che la responsabilità erariale può contestarsi, sotto lo specifico profilo del requisito soggettivo, solo in caso di colpa grave e dolo, in questa fase solo per dolo (ormai connotato dalla volontà dell’evento lesivo), con possibilità anche di non risarcire il danno integrale, mentre quella civile può contestarsi anche per colpa semplice e consente il risarcimento del danno integrale. Appare di tutta evidenza, dunque, che, nella fase temporale di cui al predetto art. 21, stante il regime della responsabilità contabile limitata ai soli casi di condotta dolosa, le amministrazioni danneggiate saranno maggiormente incentivate, proprio in ragione della grave limitazione imposta al regime della responsabilità contabile, ad agire esse stesse dinanzi al g.o. a titolo di responsabilità civile, nel contempo esponendo il dipendente al ben più grave rischio del risarcimento integrale del danno, contestabile anche in base alla semplice colpa. Giova, altresì, evidenziare che la scelta dell’intraprendere la via della azione giudiziaria innanzi al g.o., sebbene in teoria facoltativa, nel concreto sarà concretamente indotta dall’ultimo capoverso della norma in esame, con il quale si è esclusa la limitazione di responsabilità nel caso delle condotte omissive e/o inerti. Ne deriva, infatti, che, laddove la amministrazione interessata non faccia valere i propri interessi in sede civile, al maturare della prescrizione del sotteso diritto di credito, la procura contabile potrà valutare il ricorrere dei presupporti per agire nei confronti dei dirigenti competenti, anche a titolo di colpa grave, per la specifica condotta omissiva consistente nel non essersi attivati in sede giudiziaria civile ed avere in tal modo determinato, in capo alla amministrazione di appartenenza, la conseguente perdita del sotteso diritto di credito al risarcimento del danno. Altra peculiare ricaduta, in termini pratici, del regime temporaneo in esame, si paleserà nel caso di concorso, mediante condotta omissiva, nella causazione di fattispecie di danno erariale arrecata mediante condotta commissiva, a titolo di colpa grave. Si pensi al caso, di frequente realizzazione, del dirigente che ometta, a titolo di culpa in vigilando, di esercitare il potere di direttiva o, comunque, di controllare la negligente attività, commissiva, di un proprio responsabile del procedimento, causativa di un danno erariale. Oppure, ancora, al caso del concorso mediante condotta omissiva, a titolo di colpa grave, concretizzantesi nella omessa denuncia di una fattispecie di danno erariale commessa a titolo di colpa grave (art. 53 r.d. n. 1214/1934). In siffatte ipotesi, in applicazione del regime di cui all’art. 21, si giungerà al paradosso di legittimare l’azione contabile verso il concorrente a titolo di omissione e non verso l’autore della condotta lesiva.

3. La mannaia del decreto semplificazioni sul dolo “cartolare”: quando non tutto il male viene per nuocere!

La malcelata irritazione suscitata nel ristretto ambito della Corte dei conti dal sopravvenuto art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020, secondo cui «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso», costituisce, se possibile, la migliore spiegazione del perché il legislatore abbia ritenuto necessario un suo intervento nella materia della responsabilità amministrativa, imponendo al giudice contabile una “sua” nozione di dolo in luogo di un’altra ad essa alternativa (14). Si è trattato, infatti, dell’ineludibile presa d’atto, da parte della politica, delle sempre più pressanti lamentele e insofferenze manifestate dalla società civile rispetto ad un’azione della Corte dei conti non sempre lineare nei suoi contenuti. Basti pensare, in particolare, al progressivo fiorire di contrapposte e tra loro inconciliabili teorie in materia di dolo, che hanno suscitato negli anni sempre maggiore preoccupazione e sconcerto da parte dei diretti interessati, troppo spesso esposti con eccessiva facilità alle gravi ripercussioni sociali e giuridiche che generalmente si accompagnano all’accusa di avere agito dolosamente (15). Il tutto, peraltro e salvo isolate eccezioni (16), nella colpevole indifferenza della magistratura contabile pur a fronte alle evidenti ingiustizie e disuguaglianze che in tal modo si venivano a determinare. Inevitabile, allora, che la scure normativa si facesse carico di troncare, prima o poi, gli effetti perversi di tale irrisolutezza, optando per una nozione di dolo di matrice penalistica (17), decisamente più vicina all’eadem sentire della coscienza giuridica collettiva (18). Ma l’intervento del legislatore, oltre a realizzare le condizioni per una maggiore certezza del diritto, offre anche l’occasione per avviare finalmente una seria fase di riflessione all’interno della stessa magistratura contabile volta a superare una certa resistenza al cambiamento che ha impedito al giudizio di responsabilità amministrativo-contabile e agli istituti, sostanziali e processuali, che ne costituiscono il fondamento di sviluppare appieno i caratteri della propria innegabile specialità. In particolare, chi all’indomani dell’adozione del nuovo codice di giustizia contabile (19) aveva sperato in un cambio di passo del giudizio contabile, nel segno di una sua maggiore autonomia e di una accresciuta propensione all’approfondimento del fatto, è presto rimasto deluso: il processo di responsabilità amministrativo-contabile era e resta un processo eminentemente cartolare, destinato a svolgersi e ad esaurirsi in un’unica udienza di discussione e sulla base dei soli documenti prodotti dalle parti (20). L’ambivalente ruolo giocato dal dolo nell’ambito di tale giudizio costituisce, se vogliamo, la più evidente espressione di questa sua rigidità. Da un lato, infatti, negli ultimi anni si è assistito, per svariate ragioni, ad una maggiore propensione da parte delle procure contabili a privilegiare la contestazione di fattispecie dolose, soprattutto se di carattere seriale e con contaminazioni penalistiche (21). Dall’altro lato, però, al conseguente incremento di fattispecie di derivazione penale non ha poi sempre coinciso, da parte delle procure prima e delle sezioni giudicanti poi, la disponibilità ad un autonomo accertamento dei fatti, preferendosi demandare alla magistratura penale ogni onere in tale senso e svuotando di significato il principio di autonomia del processo contabile rispetto a quello penale (22).

Nel quadro di tale staticità operativa, che ha di fatto reso il dolo tanto “cartolare” quanto il procedimento giudiziario finalizzato al suo accertamento, si è peraltro sviluppata la sopra ricordata problematica della diffusione di indirizzi giurisprudenziali volti a privilegiare una nozione di dolo erariale sui generis, con gli effetti perversi che abbiamo visto e a cui il legislatore ha inteso porre rimedio. Come già anticipato, la novella normativa in tema di dolo è stata tuttavia avvertita da taluno non come una operazione di giustizia sostanziale, diretta a garantire uniformità di trattamento ai consociati, ma come una sorta di intervento a gamba tesa sulla Corte dei conti al fine di ostacolarne l’azione (23). Uno dei principali argomenti spesi a supporto di tale tesi riposa sui differenti poteri intestati alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, con conseguenti maggiori difficoltà per le prime a conseguire la prova dell’intenzionalità della condotta lesiva (24). Tale lettura riduzionista, però, riposa, ad avviso di chi scrive, su di un equivoco di fondo che è ad un tempo la causa e l’effetto dell’immobilismo registrato dalla magistratura contabile al cospetto dell’esigenza di accertare condotte lato sensu criminose. Una sorta di ingiustificato complesso di inferiorità rispetto alla magistratura ordinaria che trae forse origine da una insufficiente considerazione di quelli che sono i caratteri di specialità del procedimento di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quello penale. Una delle principali particolarità che contribuisce a rendere il processo di responsabilità amministrativa sensibilmente diverso da quello penale, già messo in evidenza dalle stesse Sezioni riunite della Corte dei conti, attiene alla differente regola probatoria che sovraintende l’accertamento dell’illecito da parte del giudice contabile rispetto a quello penale. Mentre, infatti, nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo contabile, così come in quello civile, vige la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, giudizio che si basa sugli elementi di convincimento disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana), la cui attendibilità va verificata sulla base dei relativi elementi di conferma (25). Partendo da tale innegabile premessa di fondo, appare allora del tutto giustificato il differente armamentario di poteri attribuiti alle procure contabili rispetto a quelle ordinarie, non trattandosi, in particolare, di una capitis deminutio delle prime rispetto alle seconde, ma di una dotazione del tutto adeguata ai diversi valori in gioco e alla diversa intensità delle regole probatorie idonee a supportare in giudizio l’azione di responsabilità amministrativo-contabile rispetto a quella penale. Tornando alla problematica del dolo e alla novità normativa di cui si discute, si tratterebbe, allora, di fare buon governo o, assai più semplicemente, di valorizzare i poteri di cui tanto le procure contabili quanto le sezioni giurisdizionali già dispongono per individuare, raccogliere e soppesare gli elementi che possano giustificare l’accusa di avere procurato intenzionalmente un danno all’amministrazione (26). Invero, anche accedendo alla tesi che da un punto di vista ontologico-strutturale il dolo contabile non sia cosa diversa da quello penale (27), resterebbe comunque sempre il dato di fatto che ai fini di una condanna per dolo in sede contabile gli elementi di valutazione possono essere tranquillamente diversi e, per un certo verso, di minor peso specifico rispetto a quelli richiesti per un’analoga condanna in sede penale (28). Di qui l’esigenza, da un lato, di sviluppare nuove tecniche di indagine che rendano il pubblico ministero contabile sempre più dominus dell’attività istruttoria, anziché mero recettore passivo di iniziative altrui (Guardia di finanza, procure della Repubblica, ecc.), e di stimolare, dall’altro lato, le sezioni giurisdizionali a fare un uso sempre più ampio dei mezzi di prova previsti dalla legge, in primis della testimonianza, superando quelle naturali ritrosie che vengono da decenni di processi cartolari. Ne guadagnerà la collettività, i cui membri si vedranno esposti a contestazioni a titolo di dolo solo se suffragate da idonei elementi di prova, e ne guadagnerà la stessa Corte dei conti, che in tal modo potrà avviare un percorso che porti al definitivo affrancamento da altre giurisdizioni nel segno di una sua ritrovata identità.

4. Dolo e potere riduttivo

Le considerazioni fin qui formulate in relazione alla novella normativa ed agli inevitabili impatti che la stessa avrà sui procedimenti giuscontabili, sia sotto il profilo ordinamentale che processuale, potranno avere indubbie ripercussioni anche in ordine allo ormai storico e radicato potere, sussistente in capo al giudice contabile, di applicare il c.d. “potere riduttivo” Potere riduttivo che, come è noto, trova la sua legittimazione nell’art. 83, c. 1, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, in una accezione volta ad enfatizzare la peculiarità del carattere personale della responsabilità amministrativo-contabile laddove autorizza il giudice ad incidere sul quantum risarcibile, seppur in un giudizio di natura principalmente risarcitoria, tenendo conto delle “singole responsabilità”. Sebbene la dizione letterale della originaria norma sembrerebbe essere indirizzata a tipizzare la responsabilità amministrativo-contabile sotto i profili della parziarietà e della personalità piuttosto che ad un generale potere attribuito al giudice di individuazione di circostanze operabili nel caso concreto al fine di ridurre il danno, l’interpretazione pretoria e, successivamente, le evoluzioni legislative in materia hanno condotto la dottrina ad individuare nel potere riduttivo, alcune volte, una speciale peculiarità tipica della responsabilità amministrativa e, in altri casi, invece, una espressione del potere-dovere del giudice di proporzionare la misura della propria condanna in relazione ai fattori che possono incidere sull’effettiva graduazione della stessa. A tal proposito va evidenziato che l’art. 1 della l.14 gennaio 1994, n. 20, ha tenuto ben distinta la parte relativa al potere di riduzione dell’addebito da quella in cui, appunto, viene meticolosamente individuata la parziarietà dell’obbligazione risarcitoria in relazione all’individuazione delle singole responsabilità (accezione ripresa, appunto, dall’art. 83 del r.d. n. 2440/1923). Pertanto, la concreta applicazione dell’istituto presupporrebbe che il giudice, solo dopo aver individuato, secondo i canoni tipici della responsabilità erariale, la sussistenza di tutti gli elementi idonei a delimitare il danno risarcibile e la sua imputabilità ad un determinato soggetto, potrà valutare se e in quale misura fare uso del potere riduttivo, ad esito del quale giungere alla definitiva determinazione del danno da porre a carico del responsabile. Il potere riduttivo, poi, va precisato, ha resistito anche all’introduzione del codice di giustizia contabile e, in particolare, non è stato intaccato dagli ulteriori interventi deflattivi del contenzioso introdotti dallo stesso, tanto è vero che l’art. 130, c. 6, del codice di giustizia contabile prevede l’impossibilità di fare uso del potere riduttivo in appello, confermando, pertanto, la sua applicazione nel solo giudizio di primo grado. In realtà la sua collocazione nel contesto della disposizione relativa al rito abbreviato sembra quasi volta ad indurre i presunti responsabili ad optare il più possibile per tale soluzione, atteso che, tenderebbe a “mettere in guardia” gli stessi del fatto che, proseguendo nei gradi di giudizio, verrebbero meno le prerogative volte a ridurre il quantum risarcibile ad opera del giudice, ivi compreso quello, del tutto scollegato dal rito abbreviato, dell’esercizio del potere riduttivo. Fatta questa necessaria premessa, occorre necessariamente interrogarsi sulla permanenza in vita dell’istituto in questione nel corso del periodo transitorio di vigenza della riforma di cui all’art. 21, c. 1, del d.l. n. 76/2020 che, come è noto, ha ridisegnato l’assetto della responsabilità erariale per gli illeciti commessi mediante azione (e non mediante omissione) sino al 31 dicembre 2021, atteso che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso l’applicabilità dell’istituto nel caso di accertamento della condotta dolosa del responsabile.

Infatti, il nocumento alle finanze pubbliche secondo la communis opinio dei giudici contabili non può trovare alcun elemento esogeno ed endogeno idoneo a legittimare un giudizio meritevole di una particolare ed ulteriore forma di benevolenza volta all’abbattimento del danno cagionato. Non a caso le pronunce solitamente liquidano in poche righe la questione relativa all’invocata applicabilità del potere riduttivo semplicemente richiamando il carattere doloso della condotta per giustificarne la sua esclusione (29). A ben vedere, tuttavia, se è vero quanto sostenuto da alcuni fautori della tesi secondo la quale l’esercizio del potere riduttivo altro non è se non la valutazione delle circostanze sussistenti nel caso concreto al fine di determinare, così come prevede l’art. 133 c.p. per il giudice penale, la giusta determinazione del risarcimento da porre a carico del responsabile, con le necessarie precauzioni e con le dovute accortezze l’istituto del potere riduttivo non appare superato ed avulso dal sistema giuridico che emergerà nel momento in cui la novella normativa entrerà a regime. Sebbene tale affermazione possa sembrare in netta contrapposizione rispetto alla natura fondamentalmente risarcitoria della responsabilità contabile, ancor più sentita ed evidente a fronte di condotte puramente dolose (e in tal senso sono orientate anche le recenti riforme al codice penale relativamente ai reati contro la pubblica amministrazione), va evidenziato, da un lato, che la responsabilità amministrativo-contabile è sempre più orientata verso connotazioni sanzionatorie (30) e, dall’altro, che la possibilità per il responsabile “doloso” di vedersi scomputare una buona parte della propria quota di danno è già prevista dall’ordinamento contabile all’art. 130 del codice di giustizia contabile nel caso di rito abbreviato, la cui possibilità di ricorso è esclusa solo nel caso di doloso arricchimento del presunto responsabile. In tale solco, pertanto, devono inquadrarsi le rare pronunce della giurisprudenza che ha, mediante un più complesso ed articolato percorso motivazionale, ritenuto esercitabile il potere riduttivo anche nel caso di condotte dolose, ponendo in evidenza, ad esempio, la circostanza secondo la quale «Non essendo stati previsti dal legislatore limiti all’esercizio del potere riduttivo deve ritenersi compatibile con l’elemento soggettivo del dolo e può essere applicato anche in presenza di elementi idonei a giustificarne il ricorso diversi dall’eventuale tenuità dell’elemento soggettivo, come più volte affermato in giurisprudenza, trovando il suo fondamento nelle caratteristiche peculiari del rapporto di impiego pubblico, che prevede obblighi e doveri specifici e rilevanti, rispetto ai quali un potere giudiziario di riduzione dell’addebito si configura quale utile strumento per garantire la proporzionalità tra diritti e doveri» (31). Nel caso in questione, si è dato ampio risalto ad alcune circostanze soggettive, vale a dire il ruolo collaborativo svolto dal responsabile già in sede di indagine, la volontà di restituire le somme imputate a titolo di danno erariale, la dedizione comunque mostrata nel corso della carriera lavorativa, unitamente, poi, alla eccessiva sproporzione fra danno contestato e condizioni economiche del ricorrente. È pur vero che, a parere di chi scrive, la rigorosa valutazione del dolo volta ad escludere il c.d. “dolo contrattuale”, come già esposto nei precedenti paragrafi, porta ad una inevitabile restrizione delle circostanze finora valutate dalla giurisprudenza idonee all’applicazione dell’istituto in questione, perdendo, pertanto, il potere riduttivo quella indubbia e unica portata che ha tuttora nel giudizio di responsabilità in relazione all’ampia casistica attualmente considerata e che, si ritiene, non potrà più trovare spazio, non potendo avere alcuna rilevanza nel processo di valutazione dell’elemento psicologico del responsabile. Basti pensare, a mero titolo esemplificativo, alle innumerevoli circostanze oggettive che la giurisprudenza pacificamente ritiene valutabili a favore dei responsabili, quali la giovane età, la disorganizzazione dell’amministrazione di appartenenza, la scarsa esperienza lavorativa pregressa, le gravose incombenze lavorative, la lodevole attività di servizio ovvero la mancanza di adeguata preparazione formativa o la difficoltà oggettiva della materia o della normativa di riferimento. In conclusione, la prospettiva sembra essere quella di un notevole ridimensionamento dell’istituto del potere riduttivo, soprattutto in relazione alla valutazione delle circostanze oggettive, che poco possono incidere sulla prefigurazione di un evento dannoso, che deve essere voluto sin dalla fase della sua ideazione e che si concretizza a seguito di una condotta cosciente e volontaria. Ciò in quanto non va dimenticato che logica conseguenza dell’utilizzo del potere riduttivo sarà l’accollo della residua parte di danno da parte dell’amministrazione danneggiata e, conseguentemente, della collettività amministrata, caratteristica che dovrà ben conciliarsi con la sussistenza di una condotta dolosa come finalisticamente inquadrata dal legislatore con la riforma di cui al d.l. n. 76/2020.

                                                                                                                                                                                            5. Le geometrie variabili delle responsabilità dei pubblici agenti

 Nel tentativo di regolare una realtà sempre più complessa e più veloce nel porre interrogativi di tipo socio-economico da risolvere, una delle sfide più difficili che il legislatore ha dovuto affrontare è stata quelle di introdurre “regole” che combinassero i requisiti della generalità e dell’astrattezza con la capacità di dare risposte agli agenti pubblici e attraverso le quali gli stessi, nel pieno rispetto del principio di legalità, potessero declinare i loro comportamenti in azioni.

Altrettanto complesso è stato il processo che ha portato al superamento, almeno in linea tendenziale, dell’insita stridente tensione tra il principio di legalità, quantomeno nella sua accezione sostanziale, e l’esercizio del potere discrezionale da parte degli agenti pubblici. Tale potere è del resto lo strumento attraverso il quale la pubblica amministrazione tenta di rispondere, nell’esercizio dei propri poteri, a quel grado ineliminabile di imprevedibilità e di contingenza della realtà fattuale.

 La discrezionalità amministrativa non trova una compiuta definizione legislativa, seppure siano diverse le disposizioni che la richiamano direttamente o indirettamente in via generale (32), né tantomeno la dottrina ne ha fornito una ricostruzione unanime (33).

Tale locuzione, con la giustapposizione della qualificazione di tecnica, è stata poi utilizzata per descrivere quelle attività – assai diverse dalla discrezionalità amministrativa pura (34) – aventi ad oggetto decisioni dall’alto contenuto tecnico-scientifico di non univoca soluzione; decisioni la cui diffusione si è ampliata nei complessi ordinamenti moderni parallelamente all’affermarsi del policentrismo normativo. Al fine di garantire che la discrezionalità – tanto quella amministrativa quanto quella tecnica – non si traducesse in arbitrio, il legislatore ha previsto specifici contrappesi. Per la prima tipologia, è intervenuto introducendo diversi istituti atti a garantire il confronto più ampio all’interno del procedimento amministrativo tra gli interessi pubblici e quelli privati; per la seconda prevedendo un sindacato giurisdizionale che progressivamente si è connotato anche per essere di tipo intrinseco.

Tale stagione di riforme è stata oggetto poi di successivi progressivi aggiustamenti basati in particolare sull’analisi del dato reale e delle linee di tendenza emerse in sede giurisprudenziale. Il ricorso a questo metodo induttivo si è accentuato negli ultimi anni, da quando il legislatore ha cominciato a introdurre, sempre più frequentemente, in norma primaria una serie di previsioni talmente dettagliate da assomigliare a disposizioni di carattere regolamentare o talmente specifiche da sembrare provvedimenti amministrativi. Tra tali disposizioni rientrano quelle volte, allo stesso tempo, a disciplinare pedissequamente i nuovi compiti affidati agli agenti pubblici e a prevedere, in caso di inadempienza, il relativo apparato sanzionatorio, incrementando in tal modo le fattispecie tipizzate di responsabilità amministrativa (35). Un esempio plastico di questa tendenza è rinvenibile proprio nell’analisi del contenuto di alcune norme contenute nel decreto-legge semplificazioni (36), le quali intervengono su alcune delle cinque responsabilità nelle quali possono incorrere i pubblici dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni (37). In particolare, tale decreto ha introdotto sia modifiche alla disciplina di carattere generale della responsabilità amministrativo-contabile, sia alcune nuove specifiche fattispecie del più ampio genus della responsabilità dirigenziale. Se, infatti, con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile, il legislatore, al fine di superare la cosiddetta “paura della firma”, ha deciso di ridurre il perimetro dell’elemento soggettivo, modificando – in via permanente – la l. n. 20/1994, riqualificando il dolo condizione dell’azione erariale alla stregua di quello penalistico e prevedendo – in via “transitoria” – la non perseguibilità della colpa grave con riferimento ai comportamenti commissivi, dall’altro, ha introdotto una serie di disposizioni volte ad ampliare il numero di fattispecie tipizzate di responsabilità dirigenziale. Il decreto-legge (si vedano, ad es., gli artt. 24, 32, 33, 34), infatti, reca alcune novelle al codice dell’amministrazione digitale (ad es., gli artt. 32, 33, 34), le quali – allo stesso tempo – assegnano specifici compiti alle pubbliche amministrazioni e introducono puntuali meccanismi sanzionatori, tutti riconducibili al cosiddetto ciclo della performance, in caso di inadempienza. In particolare, l’art. 32 del decreto-legge semplificazioni prevede che le pubbliche amministrazioni, nell’ambito delle risorse disponibili e nel rispetto del codice di condotta tecnologica, progettino, realizzino e sviluppino sistemi informatici e servizi digitali. Il legislatore ha anche individuato l’autorità competente (AgId) a verificare il rispetto del codice di condotta e alla stessa ha riconosciuto specifici poteri, quali quello di diffida. La norma prevede, inoltre, un meccanismo sanzionatorio fondato sull’equivalenza tra la progettazione, la realizzazione e lo sviluppo dei servizi digitali e dei sistemi informatici in violazione del codice di condotta e il mancato raggiungimento, da parte dei dirigenti responsabili delle strutture competenti, di uno specifico risultato o di un rilevante obiettivo. A tale violazione consegue la riduzione (in misura non inferiore al 30 per cento) della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale per i dirigenti competenti, nonché il divieto di attribuire premi o incentivi nell’ambito delle medesime strutture. L’art. 24 prevede specifici adempimenti, a carico dei gestori di società pubbliche e delle società a controllo pubblico, per l’identificazione dei propri utenti di servizi on-line esclusivamente attraverso identità digitali, e l’art. 33 dispone che le pubbliche amministrazioni certificanti detentrici dei dati ne assicurino, attraverso accordi quadro, la fruizione da parte di altre pubbliche amministrazioni e dei gestori di servizi pubblici. Tali norme, inoltre, sono corredate da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione dei suddetti obblighi, secondo modalità analoghe a quelle descritte in precedenza. L’art. 34 prevede, modificando la disciplina della piattaforma digitale nazionale dei dati, l’obbligo di rendere disponibili e accessibili le proprie basi dati ovvero i dati aggregati e anonimizzati. L’attuazione di tale disposizione deve avvenire sempre a invarianza degli oneri ed è corredata dal suddetto meccanismo sanzionatorio in caso di inadempimento. Infine, anche l’art. 47 chiama in causa i sistemi di valutazione delle performance individuali dei dirigenti e prevede l’introduzione, nei medesimi sistemi, di specifici obiettivi connessi all’accelerazione dell’utilizzazione dei fondi nazionali ed europei per gli investimenti nella coesione e nelle riforme. In questa fattispecie non sono però stabili a priori i limiti quantitativi dei relativi meccanismi sanzionatori. Tali disposizioni si aggiungono a quelle già contenute nel decreto-legge cosiddetto rilancio (si vedano gli artt. 116 e 117) adottato durante l’emergenza Covid-19 (38), le quali hanno previsto la possibilità per gli enti territoriali – secondo rigidi e precisi parametri – di chiedere alla Cassa depositi e prestiti s.p.a. anticipi di liquidità per il pagamento dei debiti certi liquidi ed esigibili e contestualmente hanno definito regole per la parziale estinzione delle suddette anticipazioni, della cui violazione deve tenersi conto proprio ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili, con i conseguenti effetti in termini di responsabilità dirigenziale e disciplinare (ex artt. 21 e 55 d.lgs. n. 165/2001). Il dato normativo del periodo emergenziale, da un lato, conferma la più recente tendenza della legislazione di arginare i rischi connessi all’inerzia o alle omissioni dei pubblici agenti. Era già avvenuto, ad esempio, con l’introduzione o la rielaborazione di specifici istituti di natura sostanziale (quali, a titolo esemplificativo, le modifiche alla disciplina del silenzio o alle tipologie e modalità di azione delle conferenze di servizio). Dall’altro lato, esso si connota per una specifica peculiarità, quella di intervenire non sul procedimento, bensì sul sistema delle responsabilità e delle correlate sanzioni. Il materiale informativo (39) che correda il disegno di legge di conversione del decreto-legge semplificazioni, nel delineare la ratio del duplice intervento previsto sulla disciplina sostanziale della responsabilità amministrativo-contabile, mutua le motivazioni già utilizzate per le riforme alla pubblica amministrazione adottate negli anni Novanta e Duemila, vale a dire la necessità del raggiungimento di risultati, ma sembra lasciare in ombra quello che è il fondamento primigenio della responsabilità dei pubblici dipendenti, il quale si rinviene nell’art. 28 della Costituzione. Tale articolo fu oggetto di un lungo dibattito in sede di Assemblea costituente, di cui è prova la sua formulazione, che fu il frutto di un articolato compromesso tra le diverse forze politiche in essa rappresentate (40), le quali – al di là delle specifiche differenze – pressoché unanimemente lo ritenevano una norma di chiusura a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Sebbene sia oramai granitica la giurisprudenza e arata in dottrina l’enucleazione delle diverse finalità che l’articolato novero delle cinque responsabilità degli agenti pubblici persegue e la loro non alternatività, è innegabile che tali fattispecie costituiscano un insieme unitario. È allora interessante procedere al confronto tre le modifiche che il decretolegge semplificazioni ha introdotto con riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile e a quella dirigenziale. In particolare, il ricorso a forze talvolta centripete e talora centrifughe per modificare il perimetro e la configurazione delle summenzionate responsabilità contiene in nuce il rischio che le modifiche del dato normativo possano dar luogo ad alcune aporie e talora finanche a una eterogenesi dei fini che tali modificazioni hanno animato. In primo luogo, tale disamina può prendere le mosse dalle modifiche all’elemento soggettivo. Se da un lato, infatti, la responsabilità dirigenziale si è progressivamente configurata alla stregua di una responsabilità oggettiva (41) e può prescindere dall’elemento soggettivo (sia esso riconducibile al dolo o alla colpa intesa come negligenza), non può non destare preoccupazione il fatto che si moltiplichino gli adempimenti che possono dare luogo alla stessa senza tenere adeguatamente conto della solidità delle strutture amministrative chiamate ad adempierli e dell’adeguatezza delle risorse economiche assegnate. Indice della sottovalutazione di tali aspetti è la sempre maggiore numerosità di disposizioni normative corredate da clausole di neutralità finanziaria (si vedano alcuni dei casi in precedenza menzionati) la cui idoneità e “robustezza” non sono sufficientemente suffragate nelle relazioni tecniche. Dall’altro, le modifiche apportate alla disciplina sostanziale che qualifica l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativo-contabile, prendendo le mosse da un asserito conflitto tra orientamenti giurisprudenziali, riducono in potenza il perimetro del dolo erariale, avvicinandolo sempre più alla configurazione di matrice penalistica (42). La riforma introdotta dal decreto-legge semplificazioni, intervenendo sulla qualificazione dell’elemento soggettivo e differenziando la disciplina da applicare in presenza di comportamenti omissivi rispetto a quelli commissivi, rischia di rendere più difficile sia la tutela di importanti aree del danno erariale, quale quello indiretto (43), sia la sottoposizione a giudizio di alcuni reati di particolare disdegno sociale (44). Inoltre, tale disciplina potrebbe modificare i comportamenti degli agenti pubblici, sostituendo la “paura della firma” con “l’audacia della firma a qualunque costo”, a prescindere dalla adeguata verifica di tutti gli interessi coinvolti nel procedimento anche nella consapevolezza che la responsabilità potrà essere attribuita a qualcun altro (ad es., a coloro in capo ai quali potrà essere riconosciuto un generico obbligo di vigilanza). Inoltre, le modifiche apportate, seppure in via transitoria (45), alla qualificazione dell’elemento soggettivo – differenziandone il perimetro in caso di condotte commissive o omissive – trascurano la complessità dell’agere pubblico, che non consente, in particolare nei procedimenti articolati su più livelli, di scomporli in sezioni distinguendo quelli dove vi è azione da quelli dove può rinvenirsi l’omissione. A tale proposito, pare utile sottolineare che le riforme che già hanno interessato in passato la responsabilità di cui alla l. n. 20/1994 (46) debbano essere lette e valutate in parallelo con l’evoluzione del perimetro del danno erariale e che tale evoluzione non vada tralasciata prima di intervenire – anche se solo in via transitoria – sulla disciplina sostanziale di tale responsabilità.

Tale evoluzione, infatti, ha affiancato a una concezione di tipo naturalistico – connessa alla diminuzione, computata secondo criteri meramente ragionieristici, del valore della cosa distrutta o perduta, ovvero della somma indebitamente erogata nonché delle eventuali mancate entrate, in presenza di un rigido onere probatorio in termini di certezza e attualità del danno – una configurazione di tipo commutativo del danno erariale – ispirata ai principi di efficienza e di efficacia della spesa – nella quale il depauperamento del patrimonio pubblico si concretizza anche nel caso di acquisto di beni poi inutilizzati o inutilizzabili dalla collettività. In secondo luogo, la modifica del perimetro delle singole responsabilità e, in particolare, l’estensione attraverso la tipizzazione della responsabilità dirigenziale non consente più di rinviare la valutazione sull’adeguatezza del ciclo della gestione della performance (47), in particolare con riferimento ai principi ai quali lo stesso si conforma, al suo contenuto sostanziale, nonché alla sua governance. Con riferimento al profilo dei principi, tale ciclo prende in prestito dai procedimenti giurisdizionali il rispetto di quelli della tutela del contraddittorio e dell’imparzialità. Con riferimento a tale ultimo principio, il legislatore ha, infatti, previsto che i provvedimenti conseguenti a responsabilità dirigenziale (quali il mancato rinnovo, la revoca dell’incarico o di il recesso dal rapporto di lavoro in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati o di inosservanza delle direttive, nonché la decurtazione della retribuzione di risultato in caso di colpevole violazione del dovere di vigilanza sul personale assegnato (48)), vengano adottati nel rispetto dei principi del giusto procedimento. Tra gli strumenti attraverso i quali realizzare il giusto procedimento vi è la previsione del previo parere – obbligatorio, ma non vincolante – del Comitato dei garanti (49). Tale organismo non solo è stato istituito a distanza di diversi anni dalla sua previsione in via normativa, ma ha incontrato anche delle difficoltà ad affermarsi in concreto non essendo, come si evince da una nota emanata dal Dipartimento della funzione pubblica nel 2013 (50), mai adito dalle amministrazioni per ottenerne il parere previsto (51). Per quanto concerne il contenuto sostanziale dei documenti che compongono il ciclo, il legislatore ha tentato, nella formulazione del dettato normativo, di correlare il piano della performance con i documenti e le grandezze di finanza pubblica. Infatti, la normativa prevede che tale piano sia predisposto «a seguito della presentazione alle Camere del documento di economia e finanza, di cui all’articolo 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196» e che debba essere coerente con le note integrative al disegno di legge di bilancio. Tuttavia, non può negarsi l’ancora forte discrasia tra la definizione degli obiettivi e la corrispondente individuazione sia delle risorse effettivamente necessarie per la loro attuazione, sia di strumenti di misurazione efficace del grado della loro realizzazione. Infine, con riferimento alla governance, i documenti nei quali si articola il ciclo della performance si connotano sempre più per essere, allo stesso tempo, espressione del principio della separazione tra il potere politico e la dirigenza (52), ma anche della loro necessaria collaborazione, e vengono alla luce secondo modalità non di tipo top-down, bensì circolari. Proprio alla luce di tale modalità di formazione e ferma rimanendo la pluralità degli obiettivi nei quali si articola tale ciclo (generali e specifici, nonché individuali), occorrerà valutare come coniugare la fonte primigenia degli stessi, vale a dire il quadro del programma di Governo e la direttiva annuale di ogni ministro (53), con le molteplici disposizioni normative introdotte dal legislatore, quali quelle da ultimo ricordate. Tali norme possono, quindi, intendersi alla stregua di norme manifesto oppure come il tentativo di sostituire o quantomeno limitare, ex lege, l’autonomia definitoria degli obiettivi da parte dei singoli ministri e l’esercizio del proprio potere di indirizzo. Alla luce di tali considerazioni, il dato reale mostra le molte ombre dell’efficacia del ciclo della performance così come delineato nel suo impianto teorico e declinato in concreto. Tale ciclo, infatti, difficilmente potrà produrre risultati efficaci qualora non si verifichino, contestualmente, almeno le seguenti condizioni: una scelta degli obiettivi connotata dalla compiuta definizione del loro perimetro da parte degli organi politici; una assegnazione adeguata di risorse finanziarie e umane ex ante; un monitoraggio costante dell’implementazione di tali obiettivi e una verifica ex post del loro raggiungimento attraverso strumenti che siano “in concreto” adeguati. In sintesi, alla luce di tali considerazioni, il complesso ordito normativo che emerge dalle recenti modifiche legislative, da un lato mostra con evidenza la proliferazione di adempimenti corredati da meccanismi sanzionatori dei quali, peraltro, non è altrettanto chiara l’effettiva efficacia in assenza di un censimento e di un riordino che li riconduca a una unitarietà; dall’altro lato rende evidente che la modifica di elementi costitutivi della responsabilità erariale, sulla base di asseriti obiettivi di politica pubblica, non può prescindere da una compiuta analisi delle finalità ultime di tale responsabilità – troppo spesso ritenuta un doppione di altre –, dei mezzi probatori utilizzabili e delle peculiarità del danno erariale. In conclusione, quindi, occorre porsi l’interrogativo se il buon funzionamento della pubblica amministrazione possa meglio passare per un’adeguata formazione della classe dirigente, per il ricorso a efficaci strumenti di reclutamento e per una corretta individuazione delle risorse economiche da destinare a specifici obiettivi, la quale prescinda, quindi, dalla mera logica incrementale anche senza arrivare a tentativi utopici quali il cosiddetto zero based budget (54). Non può, infine, più eludersi la domanda se procedere, in alcuni settori assai complessi (ad es., le grandi opere pubbliche), a progressive tipizzazioni delle condotte non suscettibili di dar luogo alla responsabilità amministrativocontabile al fine di tracciare una strada e individuare best practices, anche tenendo conto egli arresti giurisprudenziali in materia; ma prima di formulare una risposta occorrerà riflettere sui rischi connessi a una normazione troppo legata al raggiungimento di obiettivi di breve periodo o basata sulla generalizzazione delle esigenze connesse a eventi, che per quanto importanti, rimangono straordinari. Non farlo porterebbe con sé il rischio – tutto da valutare – che gli agenti pubblici, invece di seguire la luce bianca rappresentata dai doveri costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, siano accecati dai molteplici colori nei quali si declinano le singole disposizioni legislative una volta entrate nel prisma del nostro articolato corpus normativo, in tal modo spostando il baricentro dell’agere pubblico verso la Costituzione dei poteri e non verso quella dei diritti (55).

6. L’art. 21 nel vivo del quotidiano delle aule di giustizia: esperienze simulatorie

L’art. 21 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, del ha apportato una importante novità di natura strutturale al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale. All’art. 1, c. 1, della l. n. 20/1994 è stato infatti inserito un nuovo periodo: «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso». In sede processuale la novella sarà certamente utilizzata dai difensori per sollevare eccezioni alle quali i pubblici ministeri saranno chiamati a replicare. Nelle righe che seguono si prova ad immaginare, in forma dialogica, un’ipotesi di processo contenente le possibili contrapposte tesi tra accusa e difesa. L’intento del contributo, che ha natura didascalica e divulgativa, è quello di far comprendere, anche a chi non è propriamente un giurista, i possibili risvolti della novella e gli effetti che la stessa potrebbe avere in ordine al regime della responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale dei pubblici dipendenti, sino al punto da ipotizzarne, di fatto, una sua sterilizzazione, anche a fronte di comportamenti dannosi conseguenti ad ipotesi di reato. Naturalmente ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

AULA D’UDIENZA

 SEGRETARIO D’UDIENZA Viene chiamato il giudizio n. 9999 ad istanza della procura regionale contro il sig. Tizio.

RELATORE              Il convenuto Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, è stato chiamato dalla procura regionale a risarcire i danni conseguenti al crollo dell’edificio da riconnettersi, a giudizio di parte attrice, alla omissione delle funzioni di controllo da parte di Tizio stesso, a seguito della accettazione di contribuzioni illecite corrispostegli dal titolare dell’impresa appaltatrice Questo collegio, all’esito di precedente udienza, aveva disposto una c.t.u. tesa a verificare le ragioni del crollo dell’edificio che, secondo la c.t.p. prodotta dal pubblico ministero, erano riconducibili a difetti di costruzione per utilizzo di materiali impropri. A seguito del deposito della consulenza la procura insiste per la condanna mentre la difesa del convenuto eccepisce la mancata prova da parte dell’attrice della volontà di provocare il danno.

PUBBLICO MINISTERO Signor presidente, signori giudici, la vicenda che ha dato origine al giudizio è molto semplice. Tizio, dipendente del Comune di Vattelapesca, svolgeva funzioni di direttore dei lavori dell’appalto per la realizzazione del nuovo asilo comunale, allorquando ha accettato contribuzioni illecite da parte dell’appaltatore per “ammorbidire” – anzi sarebbe più corretto dire omettere del tutto – i controlli di sua spettanza sulla realizzazione a regola d’arte del manufatto. Come le indagini hanno consentito di accertare, egli ha totalmente abdicato alla propria funzione consentendo all’imprenditore privato di risparmiare sulla qualità e quantità dei materiali utilizzati. La stessa c.t.u. disposta da codesto collegio ha ampiamente dimostrato come il crollo sia stato la conseguenza della scarsa qualità del calcestruzzo e della altrettanto scarsa quantità delle armature del cemento armato. Ebbene appare evidente come nella fattispecie siano presenti tutti i presupposti per una condanna per danno erariale: il danno, pari all’intera spesa sostenuta dall’amministrazione per i lavori; il rapporto di servizio di Tizio con l’amministrazione comunale in quanto direttore dei lavori e al contempo responsabile dell’ufficio tecnico; la violazione degli obblighi di servizio rappresentata dalla omissione dei controlli a lui intestati; il nesso di causalità tra tale violazione e le conseguenze dannose ed infine la colorazione dolosa della condotta, attesa la provata corruzione di Tizio stesso ad opera dell’imprenditore (tutte circostanze abbondantemente provate come in atti). Per tutti i motivi esposti si insiste per la condanna.

AVVOCATO               Eccellentissimo collegio, è vero quello che ha detto il p.m. La fattispecie fattuale oggetto dell’odierno giudizio è semplice. Il mio assistito, come peraltro ha anche ammesso lui stesso, ha concluso un pactum sceleris con l’appaltatore: ha accettato tangenti in cambio di un “occhio di riguardo”. Ha girato la testa dall’altra parte mentre venivano armati i pilastri. Era assente al momento della gettata del cemento armato. Ma, signori giudici, il pubblico ministero, quando, poco prima di concludere, ha analizzato la presenza nel caso di specie di tutti gli elementi propri della responsabilità erariale, ha commesso un errore allorquando ha riferito l’elemento psicologico del dolo del mio assistito alla condotta (l’aver accettato tangenti). Mi spiego meglio. Certamente il mio assistito ha voluto accettare la tangente. Certamente ha volontariamente omesso i controlli che gli competevano quale contropartita del denaro illecito ricevuto. In tal senso certamente la sua condotta è stata dolosa. Ma è sufficiente ciò per una sua condanna? Per rispondere alla domanda ci viene in soccorso il legislatore stesso che con l’art. 21 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, nel novellare l’art. 1, comma 1, della legge n. 20/94 ha inserito un alinea che prevede testualmente che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Questa prova non è stata fornita. Non c’è nulla, agli atti del processo, che dimostri che il mio assistito volesse l’evento dannoso, volesse, in sostanza, il crollo dell’edificio o volesse in qualche modo procurare un pregiudizio all’amministrazione. Cosa emerge dagli atti? Che ha voluto approfittare della propria posizione all’interno dell’amministrazione, del proprio ruolo di controllo, per arricchirsi illecitamente. Voleva anche procurare un danno all’ente? Certamente no ed in ogni caso non c’è nulla che lo provi. Ebbene, in mancanza della prova – testualmente – “della volontà dell’evento dannoso”, il mio assistito va assolto per carenza (o meglio per mancata dimostrazione dell’esistenza) di quello che è, oggi, uno degli elementi essenziali della responsabilità amministrativa: il dolo. Insisto pertanto per un’assoluzione piena del convenuto.

PUBBLICO MINISTERO La difesa, nel pretendere che parte attrice dia dimostrazione, come richiede la legge, della volontà dell’evento dannoso, mostra di aderire alla teoria naturalistica del dolo come originata in ambito penalistico: il dolo riferito all’evento, alla volontà, in sostanza, di produrre il risultato naturalistico della condotta. L’evento dannoso inteso come evento naturalistico; teoria che è stata costruita intorno al reato di omicidio volontario in cui il dolo si caratterizza in relazione ad un fatto naturale (la morte) che la legge richiede sia voluto. Dimentica però l’avvocato che questa teoria, già in ambito penalistico, ha mostrato i propri limiti con riferimento a tutti quei reati che non sono caratterizzati da un evento (come i reati di pericolo) ed in cui una data condotta è punita indipendentemente dal fatto che alla stessa consegua poi un certo evento in senso naturalistico. In tal caso, anche in sede penale, l’evento dannoso è rappresentato da una condotta ritenuta pericolosa. In questi casi il dolo viene associato non all’evento naturalisticamente inteso, che non c’è, ma alla condotta. D’altronde lo stesso art. 43 del codice penale laddove specifica che un delitto è “doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”, dimostra chiaramente che se un evento dannoso può corrispondere ad un evento naturalistico, quello pericoloso non può che corrispondere ad una condotta. È solo la condotta che può rappresentare un pericolo; pericolo di un successivo evento. Nell’associazione a delinquere ad esempio, è l’associarsi con uno scopo ritenuto pericoloso dall’ordinamento (condotta) che viene punita, indipendentemente dalla commissione di altri reati (evento). Entrambi i casi, evento naturalistico e condotta pericolosa, costituiscono un fatto, sono l’elemento fattuale previsto dalla legge come reato. Nell’illecito penale c’è sempre un fatto rilevante: talvolta esso è un evento naturalisticamente inteso (reati di evento), in altri casi è una mera condotta potenzialmente pericolosa, scandalosa o comunque riprovevole e come tale da punire. Le conseguenze della condotta stessa, quindi, non sempre rilevano ai fini della connotazione dell’elemento psicologico. L’elemento volitivo va ricondotto al fatto (che a volte è evento, a volte mera condotta) previsto dalla legge come reato. E qui sta la differenza con la responsabilità per danno erariale. Mentre le fattispecie penalmente punibili sono sempre tipiche e devono essere specificamente previste dalla legge, ciò che caratterizza la responsabilità per danno erariale è invece la sua atipicità. La responsabilità amministrativa infatti si inserisce, in un rapporto di genus a species, nell’ambito della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. in cui sia la condotta, sia le sue conseguenze in termini di diminuzione patrimoniale (il danno), sono sempre atipiche. L’interprete non è chiamato a confrontare il fatto con un paradigma normativo precostituito, quanto piuttosto con la serie di elementi che caratterizzano la responsabilità, verificandone, di volta in volta, la sussistenza. Ebbene, andando ad indagare l’elemento psicologico nei casi di responsabilità a titolo doloso emerge che mai l’agente pubblico infedele persegue, direttamente, le conseguenze dannose; queste sono invece semplice conseguenza, secondo lo schema dell’id quod plerumque accidit, della condotta. Anche nelle ipotesi di peculato, allorquando l’agente pubblico si impossessa di beni dell’amministrazione, il suo scopo non è impoverirla; egli vuole solo arricchirsi, accettando al contempo la conseguenza del suo impoverimento. L’elemento volitivo va allora ricondotto al comportamento illecito e non alle sue conseguenze che sono solo eventuali, se pur indispensabili per una declaratoria di responsabilità. Ciò è ancor più vero nelle ipotesi, come quella oggetto del giudizio, in cui le conseguenze dannose sono da ricondursi anche a comportati concorrenti altrui o a circostanze ultronee. Il funzionario infedele non persegue le conseguenze della propria condotta o comunque non si pone il problema di prefigurarsele e se anche lo fa, ne accetta il rischio. Il dolo nella responsabilità amministrativo contabile è allora sempre dolo eventuale. “L’evento dannoso” non può allora coincidere con la diminuzione patrimoniale, ma necessariamente con la condotta infedele, con quella condotta che, non essendo rispettosa delle regole che la governano, genera per l’amministrazione il pericolo di subire conseguenze dannose che vengono implicitamente accettate. Nella fattispecie di cui all’odierno giudizio il pericolo è quello – poi concretizzatosi – che, in assenza di adeguati controlli, l’imprenditore possa eseguire l’opera non a regola d’arte. È la condotta illecita e quindi pericolosa, che è voluta e che espone l’amministrazione al rischio di un danno che, in quanto prevedibile, viene accettato come possibile conseguenza.

AVVOCATO                 La ricostruzione del pubblico ministero non è accettabile. L’evento dannoso è evento naturalistico e coincide con il danno, con la diminuzione patrimoniale. Ciò trova conferma nella stessa giurisprudenza della Corte dei conti che ha sempre fatto coincidere il fatto dannoso con il danno ai fini della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione. Il legislatore è stato chiaro: è il danno che deve essere perseguito per aversi responsabilità dolosa. Non possono allora dar luogo a responsabilità le conseguenze dannose non volute o riconducibili a comportamenti altrui. Nella fattispecie Tizio non ha provocato alcun danno. Questo è stato il frutto del comportamento dell’imprenditore che ha impiegato materiali di qualità e quantità inferiore al dovuto.

PUBBLICO MINISTERO    Atteso che il danno nella responsabilità amministrativa non è mai direttamente riconducibile alla volontà, ma semplice conseguenza del comportamento, se, come sostiene l’avvocato, lo si facesse coincidere con l’evento dannoso, si avrebbe una inammissibile esenzione di responsabilità con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 21 del decreto-legge n. 76/2020. Una lettura costituzionalmente orientata della disposizione impone allora che l’elemento psicologico doloso vada sempre rapportato alla condotta e non al danno ed il concetto di “evento dannoso” vada inteso come “fatto capace di creare danno”. Questo fatto è il comportamento. Non contraddice la ricostruzione che si offre l’art. 1, comma 2, della legge 20 del 1994, laddove statuisce che «Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso». La norma, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, utilizza l’espressione “fatto dannoso” e non “evento” dannoso. Appare evidente come, in tal caso, ai soli fini della decorrenza della prescrizione, la locuzione vada intesa come fatto naturalistico, come diminuzione patrimoniale in quanto, trattandosi di una responsabilità di natura risarcitoria di cui il danno costituisce elemento imprescindibile, il diritto al suo risarcimento, e quindi il termine prescrizionale, non può che iniziare a decorrere da quando esso si è concretizzato; ciò nel rispetto del principio di cui all’art. 2935 c.c. secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Si conclude pertanto insistendo per la condanna del convenuto.

AVVOCATO           Signor presidente le ipotesi interpretative del pubblico ministero, per quanto affascinanti sotto il profilo teorico, sono inaccettabili perché mirano a dare alla stessa locuzione letture differenti. La realtà è però un’altra: esse si scontrano con il dato testuale della norma che richiede la prova della volontà dell’evento dannoso. Agli atti del giudizio questa prova non c’è. Il mio assistito va quindi assolto.

PRESIDENTE          Le parti hanno abbondantemente argomentato le proprie ragioni fornendo ampio materiale di riflessione a questa Corte. Sarà deciso.

(1) Comprese quelle, solo apparentemente minori, del doloso occultamento e del doloso arricchimento, che se non incidono sull’an dell’illecito amministrativo, sono tuttavia in grado, ex lege, di condizionarne ampiamente la portata degli effetti.

(2) Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 22 dicembre 2017, n. 399, in .

(3) Espressione, questa, che peraltro trova un riscontro nella legislazione di settore, per quanto qui interessa, nell’art. 1-bis della l. 14 gennaio 1994, n. 20, secondo cui «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

(4) V., ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., 11 aprile 2018, n. 150, in questa Rivista, 2018, fasc. 3-4, 168, con nota di richiami.

(5) Il Conte di Cavour, fra i giganti della politica europea dell’800, e, per aver ideata e istituita la Corte dei conti, figura di spicco del suo Pantheon ideale (insieme a grandi magistrati come, fra gli altri, Giovanni Giolitti e Costantino Mortati), aveva come noto pensato, in prima persona, a “un castigo in danaro” e al conferimento al giudice contabile del potere equitativo (“secondo le circostanze dei casi”) di “porre a carico” dei responsabili “una parte soltanto dei valori perduti” (lo spunto avrebbe preso forma cogente nell’art. 47 del r.d. 3 novembre 1861, n. 302, sulla contabilità generale dello Stato,).

(6) V., amplius, Corte cost. n. 272/2007.

(7) Da ultimo, in tal senso, Cass., S.U., 7 maggio 2020, n. 8634, la quale si spinge a trarne, sul piano delle conseguenze pratiche, persino che «qualora si tratti dell’accertamento di un fatto reato da parte del giudice penale, la pubblica amministrazione, anche laddove non abbia esercitato l’azione civile nel processo penale, come nella specie, ben può agire in sede civile, per le restituzioni e per il risarcimento del danno, senza che siffatta azione sia ad essa preclusa».

(8) Così Corte conti, Sez. riun. giur., n. 12/2007: «ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002, e della conseguente applicazione della sanzione ivi prevista, sia necessaria la sussistenza della colpa grave, o, ovviamente, del dolo, e ciò nella considerazione, desunta dal dato letterale della norma, che la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, nel disciplinare l’elemento soggettivo ai fini della sussistenza della “responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica”, stabilisce espressamente che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità, nel merito, delle scelte discrezionali” (art. 1, comma 1, legge n. 20/1994 come modificato dall’art. 3, comma 1, legge n. 639/1996). In altre parole, pur alla luce delle diverse posizioni assunte, sul piano giurisprudenziale, dalle sezioni che si sono fin qui pronunciate sulla questione, e che oscillano tra il ritenere necessaria la “colpa grave” (cfr. Sez. giur. Umbria, n. 128/2007), e il ritenere sufficiente una qualsiasi colpa, seppur lieve (cfr. Sez. giur. Lazio, n. 3001/2005) o “lievissima”, secondo i principi generali in materia di sanzioni amministrative di cui all’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (cfr. Sez. giur. Regione Siciliana, n. 3198/2006, Sez. giur. Marche, n. 151/2007), queste Sezioni Riunite ritengono che non possa, in ogni caso, prescindersi dal dato letterale della citata disposizione di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 543/1996, convertito, con modificazioni, nella legge n. 639/1996, in cui il legislatore, senza operare alcuna distinzione fra le diverse forme di responsabilità (responsabilità amministrativa di tipo risarcitorio e responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, come quella in parola), ha stabilito espressamente che “la responsabilità (senza alcuna distinzione – n.d.r.) dei soggetti (comunque – n.d.r.) sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica (e non v’è dubbio alcuno che, sulla base di quanto sopra si è detto, anche la fattispecie sanzionatoria in parola rientri fra le materie di contabilità pubblica, n.d.r.) è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave”».

(9) Ibidem.

 (10) Ibidem.

(11) Per risalente indirizzo delle magistrature speciali (Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 13 aprile 2000, 1192; Tar Calabria, Catanzaro, 11 luglio 1991, n. 455; Cons. Stato 14 maggio 1983, n. 330), la responsabilità dirigenziale non presuppone un accertamento dell’imputabilità di essa a titolo di colpa o dolo, ma postula, da un lato, la riconduzione dell’attività della pubblica amministrazione alle scelte gestionali del dirigente e, dall’altro, l’inefficacia di queste a raggiungere gli obiettivi previsti.

(12) V. l’audizione di Massimo Luciani (professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”) innanzi le Commissioni 1a e 8a del Senato della Repubblica del 27 luglio 2020.

(13) V. Cass., S.U., n. 24859/2019; n. 8634/2020, cit.; n. 16722/2020). Giova a tal riguardo richiamare anche una recentissima Cass., S.U., n. 21975/20, che, nel ribadire il proprio orientamento in merito al riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a. in caso di azioni di risarcimento promosse nei confronti di dipendenti pubblici in proprio, con precisazione di interesse anche per il riparto con questa magistratura contabile, ha evidenziato che: «qualora la domanda sia proposta nei confronti del funzionario, non rileva stabilire se questi abbia agito quale organo dell’ente pubblico di appartenenza ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la c.d. “frattura” del rapporto organico con quest’ultimo, posto che, nell’uno come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato ex art. 28 Cost.; la stessa conclusione (giurisdizione ordinaria) si impone anche quando la pretesa risarcitoria scaturisca dall’adozione da parte del funzionario, convenuto in proprio, di un provvedimento illegittimo, assumendo questa circostanza la valenza di fatto illecito extracontrattuale intercorrente tra privati, e non ostando a ciò la eventuale proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, posto che l’effettiva riferibilità all’ente dei comportamenti dei funzionari attiene al merito e non alla giurisdizione. Si tratta di indirizzo più volte successivamente riaffermato».

(14) Come noto, in materia di dolo si erano andati delineando, nel corso degli anni, due contrapposti indirizzi nell’ambito della giurisprudenza contabile. Secondo un primo orientamento, asseritamente ispiratosi alla nozione civilistica del dolo in adimplendo (art. 1225 c.c.), il c.d. “dolo contrattuale” andava inteso non come «coscienza e volontà di provocare il danno, ma [quale] mera consapevolezza e volontarietà dell’inadempimento. La nozione è ampiamente utilizzata dalla giurisprudenza contabile sul presupposto che la responsabilità amministrativa abbia natura di responsabilità contrattuale, invero caratterizzata dalla violazione di obblighi di servizio inerenti al rapporto che lega il funzionario pubblico con l’amministrazione» (v. Corte conti, Sez. II centr. app., n. 399/2017). In altre parole, mentre «il dolo penale viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di nuocere, ossia di agire ingiustamente a danno di altri da parte di persona imputabile, […] il dolo contrattuale consiste [invece] nel proposito consapevole di non adempiere all’obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri riconducibili all’espletamento del rapporto di impiego, ovvero di servizio per quanto concerne i soggetti privati», a prescindere dalla volontà di provocare l’evento dannoso (v. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 58/2007; nel senso dell’applicabilità della nozione di dolo contrattuale al giudizio di responsabilità, v., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 7/2017; Sez. giur. reg. Campania, n. 951/2014; Sez. giur. reg. Sardegna, n. 229/2014; Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Bolzano, n. 24/2013; Sez. giur. reg. Veneto, n. 613/2012; Sez. giur. reg. Umbria, n. 390/2003; Sez. giur. reg. Lazio, n. 783/2003; Sez. I centr. app., n. 426/2002; Sez. giur. reg. Siciliana, n. 609/2002). Viceversa, per un secondo ed opposto orientamento giurisprudenziale il «dolo altro non è che l’intenzionalità di un comportamento produttivo di un evento pregiudizievole, in specie la consapevole volontà di arrecare un nocumento contra ius all’amministrazione lato sensu intesa […] Di talché […] per la sussistenza del c.d. dolo erariale non basta la consapevole violazione degli obblighi di servizio ma serve la volontà di produrre l’evento dannoso» (Sez. giur. reg. Veneto, n. 191/2014; nel senso che il dolo consiste nell’intenzionalità del comportamento produttivo dell’evento lesivo, vale a dire nella consapevole volontà di arrecare un danno ingiusto all’amministrazione, v. altresì, ex multis, Sez. giur. reg. Umbria, n. 2/2017; Sez. giur. reg. Abruzzo, n. 18/2017; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 38/ 2014; Sez. II centr. app., n. 534/2014; Sez. giur. reg. Puglia, n. 1628/2013; Sez. III centr. app., n. 783/2013; n. 724/2013; n. 510/2004; Sez. giur. reg. Veneto, n. 175/2013; n. 1124/2012).

(15) Volendo tralasciare i prevedibili effetti negativi, in termini di immagine, per coloro che risultino accusati di avere dolosamente depauperato l’ente di appartenenza, anziché di avere agito più semplicemente con colpa grave, occorre considerare che la contestazione di avere cagionato un danno a titolo di dolo, se accolta, determina inevitabilmente conseguenze negative anche sul piano più strettamente giuridico, comportando, ad esempio, che nel caso di concorso di più persone nell’illecito contabile i soli corresponsabili a titolo di dolo siano tenuti a rispondere solidalmente per l’intero ammontare danno, anziché in via parziaria per la sola parte di danno da essi cagionata (art. 1, c. 1-quinquies, l. 14 gennaio 1994, n. 20).

(16) Si pone espressamente il problema della duplicità di orientamenti in materia di dolo, ad esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., n. 401/2014, finendo per privilegiare il secondo indirizzo e affermando, di conseguenza, che «il dolo deve consistere nella volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa».

(17) Secondo la relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883, «la norma [di cui all’art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020] chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto».

(18) Imputare a taluno a titolo di dolo un evento dannoso solo perché si sia violata consapevolmente una regola di condotta o un obbligo di servizio, come propugnato dalla teoria del c.d. “dolo contrattuale”, porterebbe inevitabilmente a riconoscere come dolose certe condotte anche quando l’autore del comportamento abbia agito nella assoluta convinzione di non provocare danno alcuno, ossia senza alcuna intenzionalità di cagionare danno all’amministrazione.

(19) Adottato con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, ai sensi dell’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124, il codice di giustizia contabile è stato successivamente oggetto di modifiche ad opera del d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114 (c.d. correttivo).

(20) Pur essendo espressamente indicata tra i mezzi di prova di cui il giudice contabile può avvalersi – se ritualmente dedotta e processualmente rilevante – ai fini dell’accertamento dei fatti, nella prassi quotidiana è estremamente raro che venga ammessa la testimonianza di persone informate sui fatti (art. 98 c.g.c.), preferendosi viceversa privilegiare il mero esame dei verbali redatti in sede di indagine da parte degli organi inquirenti (per uno dei pochissimi casi in cui invece la prova testimoniale risulta essere stata ammessa e assunta in giudizio, v. Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, n. 47/2018).

(21) La proliferazione, nell’ambito del giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, di fattispecie seriali con connotazioni penalistiche, generalmente frutto di appositi filoni di indagine condotti da organismi di polizia giudiziaria su diffusi fenomeni illeciti di carattere appropriativo (ad es., da ultimo, il mancato riversamento dell’imposta di soggiorno da parte di esercenti alberghieri, astrattamente sussumibile nel delitto di peculato), si può spiegare anche con la facilità di gestione di un ampio numero di fascicoli da parte delle procure contabili e con l’elevato tasso di accoglimento dei relativi atti di citazione. Invero, dall’esame di diverse relazioni annuali pubblicate negli ultimi anni sul sito istituzionale della Corte dei conti in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario si evince l’impressione che l’attività giurisdizionale stia cadendo ostaggio di una sorta di ansia da prestazione, cedendo alla tentazione di ridurre il resoconto della stessa ad una fredda analisi costi/benefici in termini di numeri (possibilmente crescenti) di atti di citazione emessi e di importi (possibilmente elevati) di condanne ottenute. In questo senso si spiega, ad esempio, l’affermarsi di elaborazioni statistiche dei dati, talvolta frutto di opinabili se non addirittura poco trasparenti manipolazioni degli stessi, volte a evidenziare, in chiave marcatamente autoreferenziale, l’elevato rapporto tra le richieste di danni avanzate in citazione e gli importi di condanna liquidati in sentenza, quale presunto indice qualitativo del lavoro svolto. In altre parole, parafrasando un monito espresso dallo stesso Procuratore generale della Corte dei conti, il rischio è quello di scivolare in una sorta di datacrazia contabile, ossia nella «diffusione di dati solo apparentemente oggettivi, in realtà espressione di processi formativi ed informativi volti prevalentemente ad orientare il giudizio dei cittadini secondo finalità predeterminate. Processi nei quali gli indici statistici finiscono per diventare fine e non strumento» (Procuratore generale Avoli, Inaugurazione dell’anno giudiziario 2019).

(22) Come noto, dopo la riforma del codice di procedura penale del 1988, che ha abolito la pregiudiziale penale dell’art. 3 del previgente codice, e con la nuova formulazione dell’art. 295 c.p.c., sostituito dall’art. 35 della l. n. 353/1990, si è univocamente affermato il principio di autonomia e separatezza dei giudizi e la mancanza di pregiudizialità tra processo penale e processo di responsabilità amministrativa con la sola eccezione rappresentata dall’art. 651, c. 1, c.p.p., ai sensi del quale «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato»; cosicché, non essendo più configurabile un’ipotesi di sospensione obbligatoria, non si può dar luogo a sospensione del processo contabile quando il giudice sia in possesso di elementi idonei e sufficienti ai fini del decidere, anche se i giudizi concernano gli stessi fatti materiali (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, n. 257/2020; Sez. giur. reg. Toscana, n. 163/2020; Sez. II centr. app., n. 135/2020; Sez. I centr. app., n. 135/2020, in questa Rivista, 2020, fasc. 5, 208, m.). Tuttavia, nonostante tale principio costituisca ormai ius receptum, assai frequentemente capita ancora che, dinanzi alla prospettiva di accertare in via autonoma fatti di rilevanza penale, si preferisca attendere l’esito del concomitante processo penale sospendendo invece quello contabile (v., ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, ord. n. 17/2020; Sez. giur. reg. Marche, ord. n. 44/2019; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, ord. n. 41/2019; Sez. giur. reg. Lazio, ord. n. 130/2018). Vi è da aggiungere, però, che quando tali provvedimenti di sospensione sono tempestivamente impugnati in sede di regolamento di competenza (ex art. 119 c.g.c.) gli stessi vengono invariabilmente annullati da parte dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (cfr., ex plurimis, Corte conti, Sez. riun. giur., ord. n. 9/2018, ivi, 2018, fasc. 3-4, 155, con nota di richiami; nn. 6 e 12/2019, n. 2/2020).

 (23) La eccessiva esasperazione della c.d. paura della firma, che attanaglierebbe i dirigenti pubblici dinanzi alla prospettiva di finire dinanzi alla Corte dei conti in caso di errore, frenandone l’azione, e la temporanea limitazione al dolo della responsabilità erariale (art. 21, c. 2, d.l. n. 76/2020) hanno certamente contribuito a tale lettura.

 (24) Si pensi, ad esempio, alla mancanza del potere di intercettazione telefonica, informatica o ambientale, o a quello di perquisizione domiciliare e personale, rimessi alle sole procure ordinarie per l’accertamento di condotte delittuose. (25) V. Corte conti, Sez. riun., n. 28/2015/Qm, in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 278, che giustifica tale differente regola probatoria con i diversi valori in gioco nei due giudizi: «la differente natura dei valori in gioco nei due tipi di processo (libertà e patrimonio) segna l’essenziale distinzione tra il processo penale e quello civile, che è – come detto – la regola probatoria».

(26) Si pensi alle ispezioni e accertamenti diretti (art. 61 c.g.c.) o ai sequestri (art. 62 c.g.c.) come tipici atti a sorpresa. Sotto quest’ultimo profilo particolare attenzione deve essere riservata ai cosiddetti sequestri di corrispondenza, sia perché le norme codicistiche dettano norme particolarmente stringenti quanto al ruolo che il pubblico ministero deve direttamente assolvere nell’esame di tali elementi (art. 62, c. 4, c.g.c.), sia perché spesso è dall’attento esame di tali elementi (note, email, appunti e via dicendo) che si può trarre la prova della consapevolezza di porre in essere condotte illecite e pregiudizievoli per l’erario.

(27) Ovviamente diverso resta l’oggetto alla cui realizzazione deve essere diretta la volizione dell’agente; l’evento penalmente rilevante in un caso (art. 43 c.p.) e l’evento dannoso per l’erario nell’altro (art. 21, c. 1, d.l. n. 76/2020).

(28) Uno dei casi più eclatanti e al tempo stesso emblematici di valutazione differenziata, in sede civile ed in sede penale, degli stessi elementi probatori (acquisiti in ordine al medesimo fatto storico e rispetto alle medesime parti processuali) è rappresentato dal celebre processo per uxoricidio avviato contro il popolare sportivo O.J. Simpson, in cui le prove raccolte furono, dalle rispettive Corti, giudicate insufficienti per la affermazione della responsabilità penale dell’imputato, ma del tutto idonee ai fini della condanna del medesimo al risarcimento del danno arrecato alle parti offese. Un tale fisiologico contrasto di giudicati, diretta conseguenza del differente regime della prova vigente nelle due distinte sedi processuali, potrebbe egualmente verificarsi anche nostro sistema giuridico, in cui il giudice civile o contabile, procedendo, con pienezza di cognizione e senza essere influenzato dagli esiti del processo penale, ad un “proprio” accertamento del fatto, potrebbe giungere a soluzioni decisorie diverse da quello penale pur in relazione alle medesime vicende storiche.

(29) V., ad esempio, alcune decisioni di primo grado con le quali ci si è limitati ad affermare che «Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso il ricorso al potere riduttivo dell’addebito» (Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 26 settembre 2018, n. 467), ovvero che «Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritiene il collegio che la consapevole (pertanto dolosa) attività illecita comporti l’impossibilità di accogliere la richiesta difensiva di uso del potere riduttivo» (Sez. giur. reg. Liguria, 29 luglio 2019, n. 144), o ancora «ritiene di non poter esercitare il potere riduttivo dell’addebito, poiché precluso, per costante giurisprudenza di questa Corte, a fronte di condotte riconosciute come caratterizzate dall’elemento psicologico del dolo» (Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 26 marzo 2019, n. 43).

(30) V., da ultimo, quanto espressamente affermato da Cass., S.U., 4 ottobre 2019, n. 24859, cit., che ha sostenuto la funzione prevalentemente sanzionatoria della responsabilità per danno erariale.

(31) V. Corte conti, Sez. giur. reg. Marche, 16 maggio 2019, n. 112.

(32) Ad es., l’art. 11 della l. n. 241/1990, laddove prevede che gli accordi tra privati e amministrazione procedente non abbiano per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento; l’art. 21-octies della suddetta legge, che pone un limite all’annullabilità del provvedimento affetto da vizi del procedimento o della forma qualora abbia natura vincolata; l’art. 31 c.p.a., che, nel definire il perimetro di applicabilità al giudizio avverso il silenzio della pubblica amministrazione, stabilisce, tra le altre cose, che abbia a oggetto provvedimenti relativi all’attività vincolata della pubblica amministrazione e che non residuino altri margini di esercizio della discrezionalità.

 (33) Romano definitiva la discrezionalità amministrativa pura come lo «spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione»; Giannini, con la sua teoria del minimo mezzo, la riconduceva alla ponderazione dell’interesse pubblico e di quelli secondari al fine contemporaneamente di massimizzare il primo causando il minor sacrificio dei secondi; Virga come la «facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato».

 (34) Lo stesso Giannini affermava che la discrezionalità tecnica si è chiamata così per un errore storico e ne ha chiarito la diversità ontologica rispetto alla discrezionalità amministrativa pura. La distinzione tra discrezionalità amministrativa e tecnica sta nel fatto che nel primo caso la discrezionalità investe due momenti: quello del giudizio (dove l’amministrazione individua gli interessi in gioco) e quello della scelta (quando, alla luce delle risultanze del giudizio, l’amministrazione esprime la sua volontà di cui dà conto nella motivazione del provvedimento); nel secondo, invece, attiene soltanto alla fase del giudizio.

 (35) È utile ricordare che il giudice delle leggi ha respinto un tentativo di tipizzazione dei casi di colpa grave contenuto in una legge della provincia di Bolzano nel 2000, ribadendo l’atipicità dell’illecito contabile (a differenza di quello penale) e la necessità della valutazione caso per caso da parte del giudice.

(36) D.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.

 (37) Si tratta della responsabilità civile verso terzi, di quella penale, di quella amministrativo contabile, nonché di quella disciplinare e dirigenziale. Per una loro disamina, v. V. Tenore, L. Palamara, B. Marzocchi Buratti, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, Giuffrè, 2013.

(38) D.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, recante Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

(39) Nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 si legge: «In materia di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto. Inoltre, fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità viene limitata al profilo del dolo solo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo».

(40) Per un’analisi storico costituzionale, v. M. Benvenuti, Art. 28, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario allaCostituzione, Torino, Utet, 2006.

(41) V., ad es., Cass., Sez. lav., 20 febbraio 2007, n. 3929.

 (42) Così nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 (v. supra). Alcuni commentatori delle modifiche legislative hanno prospettato che tale dolo, dovrà, quindi, essere interpretato alla stregua del dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale. V., in tal senso, L. D’Angelo, Il “nuovo” dolo erariale nelle prime decisioni del giudice contabile (nota a Corte dei conti, Sez. I App., 2 settembre 2020, n. 234), in , 25 settembre 2020.

 (43) Si definisce danno indiretto quello subito indirettamente dalla p.a., chiamata innanzi al giudice ordinario (o anche innanzi al giudice amministrativo) a risarcire, ex art. 28 Cost., il terzo danneggiato dal proprio lavoratore durante l’attività di servizio: così in V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità amministrativo-contabile davanti alla Corte dei conti, Napoli, Esi, 2019, 200.

(44) Quali, ad es., la turbativa d’asta (ex art. 353 c.p.), in quanto la disciplina codicistica tutela l’interesse della pubblica amministrazione al libero svolgimento dei pubblici incanti e delle licitazioni private e, in una logica plurioffensiva, la libertà di chi vi partecipa, ma non tiene conto delle peculiarità del danno erariale.

 (45) Si tratta delle disposizioni di cui al c. 2 dell’art. 21 del d.l. n. 34/2020.

(46) Quali, ad es., le modifiche apportate con il d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996, n. 639. La novella fu subito oggetto del sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale, che ritenne non fondata la questione con la sent. n. 371/1998, rilevando la coerenza delle modifiche allora previste con la revisione della disciplina del pubblico impiego che era stata di recente approvata e volta a valorizzare il profilo dei risultati dell’attività amministrativa.

(47) La cui disciplina si rinviene nel d.lgs. n. 150/2009.

 (48) La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che il parere del Comitato dei garanti per il personale statale – disposizione non derogabile dalla contrattazione collettiva ed estensibile anche alle pubbliche amministrazioni non statali in forza della norma di adeguamento di cui all’art. 27, c. 1, d.lgs. n. 165/2001 – riguarda le sole ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato raggiungimento degli obiettivi e alla grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente, e non è quindi estensibile alla responsabilità tipicamente disciplinare, correlata al colpevole inadempimento degli obblighi gravanti sul prestatore di lavoro, tranne nel caso in cui vi sia un indissolubile intreccio tra i due tipi di responsabilità. Ne consegue che, ove siano contestate mancanze di rilevanza esclusivamente disciplinare, la sanzione può legittimamente essere irrogata anche in assenza di detto parere ovvero con parere negativo (ex multis, Cass., Sez. lav, 10 dicembre 2019, n. 32258).

 (49) V. artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165/2001. La composizione di tale Comitato, ad eccezione della sua presidenza, affidata ad un magistrato della Corte dei conti, è stata oggetto di diverse modifiche legislative volte anche a incrementarne il numero dei componenti. L’attuale fisionomia della Commissione prevede cinque componenti: un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo Presidente; un componente designato dal Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), già Civit; un esperto designato dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione scelto tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico; due dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui almeno uno appartenente agli organismi indipendenti di valutazione (Oiv), estratti a sorte fra coloro che presentano la propria candidatura.

(50) Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della funzione pubblica, Servizio studi e consulenza per il trattamento del personale, nota 24 dicembre 2013, n. Dfp/59912 – Comitato dei garanti di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001 – Documentazione da trasmettere per il parere obbligatorio.

 (51) Si ricorda, inoltre, che nella legge delega c.d. Madia (l. n. 124/2016), nella parte poi dichiarata incostituzionale di riforma della dirigenza pubblica, si prevedeva la sostituzione di tale organismo con una specifica commissione. V. l’art. 11, c. 1, lett. b), n. 1, che prevedeva «l’istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di una Commissione per la dirigenza statale, operante con piena autonomia di valutazione, i cui componenti sono selezionati con modalità tali da assicurarne l’indipendenza, la terzietà, l’onorabilità e l’assenza di conflitti di interessi, con procedure trasparenti e con scadenze differenziate, sulla base di requisiti di merito e incompatibilità con cariche politiche e sindacali», tra le cui funzioni rientrava anche «la verifica del rispetto dei criteri di conferimento degli incarichi e del concreto utilizzo dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della revoca degli incarichi; l’attribuzione delle funzioni del Comitato dei garanti di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relative ai dirigenti statali».

 (52) La separazione da coloro che svolgono le funzioni di indirizzo politico e la compartecipazione, seppure debole, dei soggetti che si occupano della gestione amministrativa alla definizione degli obiettivi stessi concilia il principio democratico secondo cui nessun potere pubblico può essere sottratto al circuito politico rappresentativo (art. 1 Cost.) con quello di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

(53) Ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286.

(54) L’art. 21, c. 1, della l. n. 243/2012 ha previsto la sperimentazione di un bilancio “a base zero”, come modalità di superamento del criterio della spesa storica e di rafforzamento del ruolo programmatorio e allocativo del bilancio dello Stato. La sperimentazione è stata affidata al Ministero dell’economia e delle finanze-Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, è terminata nel mese di giugno 2014, e ad essa ha fatto seguito la presentazione alle Camere di una specifica relazione. Successivamente, con l’approvazione dell’ordine del giorno G/1121/1/3/Tab.6 (testo 2) del 29 ottobre 2013 al d.d.l. bilancio 2014, il Governo si è impegnato a intraprendere una specifica attività di simulazione degli effetti derivanti dall’adozione di detto strumento da parte del Ministero degli affari esteri, anche usando delle versioni meno rigide del tradizionale modello di budget “a base zero”. Al fine di attuare il percorso previsto dalla norma e dal successivo ordine del giorno, è stato costituito un apposito gruppo di lavoro interministeriale tra il Mef e il Mae. La sperimentazione ha preso a riferimento lo schema di “justification au premier euro” previsto dalla Lolf in Francia e ha avuto ad oggetto l’obiettivo “Promozione della lingua italiana”, in considerazione della tipologia di prodotti e servizi resi e la disponibilità di indicatori già utilizzati dall’amministrazione.

(55) Per la distinzione tra la Costituzione dei diritti e quella dei doveri, v. M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Aa.Vv., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, Padova, Cedam, 1985, II, 497 ss.

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