21/05/2021 – Sindacato del giudice amministrativo sull’attività di regolazione – Tariffe idriche dopo il referendum sull’acqua

Autorità amministrative indipendenti – Discrezionalità tecnica – Sindacabilità – Limiti. 

 Autorità amministrative indipendenti – Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – Tariffe idriche – Dopo il referendum del 12 e 13 giugno 2011 – Norma transitoria – Estensione dell’effetto abrogativo. 

 Autorità amministrative indipendenti – Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – Referendum del 12 e 13 giugno 2011 – Effetti sulle prestazioni non erogate oggetto dei contratti stipulati. 

 Autorità amministrative indipendenti – Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente – Referendum del 12 e 13 giugno 2011 – Integrale copertura dei costi di investimento e di esercizio – Necessità. 

 Processo amministrativo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Giudice di ultima istanza – Obbligo – Condizioni.  

           In tema di sindacato del giudice amministrativo sull’attività di regolazione, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito del regolatore; l’unico limite in cui si sostanzia l’intangibilità della valutazione amministrativa complessa è quella per cui, quando ad un certo problema tecnico ed opinabile (in particolare, la fase di c.d. “contestualizzazione” dei parametri giuridici indeterminati ed il loro raffronto con i fatti accertati) l’Autorità ha dato una determinata risposta, il giudice (sia pure all’esito di un controllo “intrinseco”, che si avvale cioè delle medesime conoscenze tecniche appartenenti alla scienza specialistica applicata dall’Amministrazione) non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Autorità, dovendosi piuttosto limitare a verificare se siffatta risposta rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili, ragionevoli e proporzionate (sul piano tecnico), che possono essere date a quel problema alla luce della tecnica, delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto (1).

          L’effetto abrogante prodottosi sull’art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in conseguenza del referendum del 12 e 13 giugno 2011 (proclamato con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 116), deve ritenersi esteso anche alla norma transitoria, di cui all’art. 170, comma 3, lettera l), d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui “fino all’emanazione del decreto di cui all’articolo 154, comma 2, continua ad applicarsi il decreto ministeriale 1 agosto 1996” ‒ recante il metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato, in attuazione dell’art. 13, l. 5 gennaio 1994, n. 36 ‒ che del criterio della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (oggetto del quesito referendario) faceva per l’appunto applicazione (2). 

           L’effetto abrogativo prodottosi sull’art. 154, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in conseguenza del referendum del 12 e 13 giugno 2011, ha inciso sui contratti già stipulati, ma con decorrenza successiva alla sua entrata in vigore, ovvero con esclusivo riguardo alle prestazioni (al momento della definizione dell’esito referendario) non ancora eseguite; si tratta pertanto di un caso di retroattività c.d. “impropria”: la norma (abrogativa) ha prodotto effetti solo ex nunc, anche se con riferimento a fatti compiuti nel passato (i contratti “vigenti”) (3). 

       Anche a seguito del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011, la tariffa del servizio idrico deve assicurare l’integrale copertura dei costi di investimento e di esercizio secondo i principi del recupero dei costi, in piena coerenza con quanto disposto dal diritto eurounitario; l’esito referendario è, infatti, consistito nell’eliminazione della sola quota della componente tariffaria che assicurava, in maniera fissa e predeterminata, la remunerazione netta del capitale investito, e non anche delle quote della componente tariffaria correlate al costo del capitale; è pertanto illegittima la delibera che ha previsto la restituzione integrale della remunerazione, al netto dei costi per oneri finanziari, fiscali e degli accantonamenti per svalutazione dei crediti, e non dei costi di capitale ‘proprio’, che dunque non risultano coperti, in contrasto con la direttrice normativa che permea l’intera regolazione dei servizi economici di interesse generale (4)

             I giudici nazionali di ultima istanza giudici non sono tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (5). 

(1) Ha affermato la Sezione che nel caso della regolazione economica, il controllo giurisdizionale “non sostitutivo” trova giustificazione in ragione di una specifica scelta di diritto sostanziale; quella per cui il legislatore, non essendo in grado di governare tutte le possibili reciproche interazioni tra i soggetti interessati e di graduare il valore reciproco dei vari interessi in conflitto, si limita a predisporre soltanto i congegni per il loro confronto dialettico, senza prefigurare un esito giuridicamente predeterminato. In tali casi, l’attività integrativa del precetto corrisponde ad una tecnica di governo attraverso la quale viene rimesso ai pubblici poteri di delineare in itinere l’interesse pubblico concreto che l’atto mira a soddisfare. 

La Sezione si è preliminarmente soffermata sul servizio idrico integrato così definito perché comprensivo di più segmenti produttivi: l’attività di captazione dalla falda, la potabilizzazione, la distribuzione, il trasporto dei reflui nella fognatura, la depurazione della risorsa idrica. Ha spiegato che è un servizio di interesse economico generale, in quanto attività economica prestata dietro corrispettivo economico, ma che al tempo stesso non sarebbe assicurata dal mercato senza un intervento statale (o lo sarebbe ma condizioni difformi da quelle giudicate coerenti con gli obiettivi di interesse generale). Di tale attività sono quindi regolati diversi aspetti: la dimensione gestionale (organizzata sulla base di ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni sulla base di parametri fisici, demografici, tecnici), la struttura operativa, le modalità di affidamento (secondo il principio di unicità della gestione per ciascun ambito), le dotazioni infrastrutturali, il contenuto del rapporto convenzionale tra concedente e gestore, il corrispettivo contrattuale del rapporto di utenza.

Le funzioni attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici, ora attribuite all’Autorità per l’energia elettrica il gas e il servizio idrico (ora Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), investono specificatamente la definizione dei costi ammissibili e dei criteri per la determinazione delle tariffe a copertura di questi costi, la regolazione sulla qualità del servizio, la verifica dei piani d’ambito, nonché la predisposizione delle convenzioni tipo per l’affidamento del servizio.

La vigente disciplina del servizio idrico integrato ‒ a partire dalla legge “Galli”, legge 5 gennaio 1994, n. 36, i cui contenuti sono stati poi in larga misura trasposti nel decreto legislativo n. 152 del 2006 ‒ ha inteso superare le precedenti gestioni pubbliche in economia, considerate oramai inadeguate per un’efficace amministrazione del settore.

I principali contenuti “riformatori” dell’impianto normativo sono: i) l’industrializzazione della filiera realizzata attraverso la gestione integrata di tutti i segmenti produttivi (in passato gestiti separatamente); ii) il riconoscimento della rilevanza economica del servizio, la quale si delinea tramite l’adozione di un modello organizzativo efficiente, in quanto tendenzialmente idoneo a remunerare i fattori produttivi; iii) la facoltà per l’amministrazione di scegliere tra il monopolio pubblico e quello privato contendibile (concorrenza “per” il mercato); iv) un modello di organizzazione basato su unità geografiche e idrologiche naturali, delineati sulla scorta di parametri non meramente geografici, ma anche tecnici ed economici: la dimensione ottimale dei servizi mira soprattutto alla realizzazione di economie di scala e alla finalità di prevenire il possibile conflitto di interessi tra enti locali e gestori; v) il coordinamento amministrativo, coincidente con l’estensione dell’ambito territoriale, attraverso l’adozione del piano d’ambito, il potere tariffario e l’esternalizzazione; vi) una gestione integrata del servizio caratterizzata dalla «unicità» all’interno degli ATO; vii) la disciplina dei rapporti tra il regolatore dell’ambito e gestore mediante una convenzione i cui contenuti concorrono all’organizzazione consensuale del servizio, alla definizione sinallagmatica degli aspetti patrimoniali della gestione, all’assunzione degli obblighi di servizio pubblico, alla gestione delle infrastrutture, alla pianificazione degli investimenti in manutenzione e relativi alla innovazione tecnologica; viii) l’unicità della tariffa, calcolata in modo da assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.

La trama regolativa, così sommariamente riportata, riflette una precisa “misura compositiva” tra fini sociali (l’erogazione di un bene fondamentale ma scarso) e sostenibilità economica. La scelta politica, in particolare, è consistita nella ricerca di un modello di gestione in cui trovi adeguata sintesi la dialettica tra efficienza, anche imprenditoriale, del servizio, nell’ambito dei vincoli europei, garanzia degli utenti, che sono titolari di un diritto fondamentale, e universalità del servizio.

Si tratta di una scelta politica nazionale, in quanto la normativa europea in materia di acque (Direttiva 2000/60/UE) non contiene indicazioni rigide sull’organizzare il servizio idrico come un servizio a rilevanza economica, in buona parte suggerita dalla circostanza che il sistema idrico italiano sconta, come è noto, un pesante debito infrastrutturale.

Ha ancora ricordato la Sezione che la tariffa è definita dall’art. 154, d.lgs. n. 152 del 2006 come “il corrispettivo del servizio idrico integrato” che viene determinata “tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, [dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito] e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’ente di governo dell’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio ‘chi inquina paga’” .

La norma ricalca l’art. 9 della direttiva n. 2000/60/CE, secondo cui “Gli Stati membri tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi ambientali e relativi alle risorse, prendendo in considerazione l’analisi economica effettuata in base all’allegato III e, in particolare, secondo il principio ‘chi inquina paga’”, in linea con la configurazione – diffusamente delineata nella Comunicazione COM 2000/447 – della tariffa dei servizi idrici quale «mezzo per garantire un uso più sostenibile delle risorse idriche ed il recupero dei costi dei servizi idrici nell’ambito di ogni specifico settore economico».

Il primo comma dell’art. 154 è stato abrogato in esito al referendum indetto con d.P.R. 23 marzo 2011, limitatamente alle parole: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, a decorrere dal 21 luglio 2011, dall’articolo 1, comma 1, d.P.R. 18 luglio 2011, n. 116 e successivamente modificato dall’articolo 7, comma 1, lettera a), del decreto legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014 n. 164.

La tariffa base viene predisposta dall’ente di governo dell’ambito, nell’osservanza del metodo tariffario regolato dall’AEEGSI cui viene trasmessa per l’approvazione.

La giurisprudenza della Corte costituzionale definisce la disciplina statale relativa alla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato come complesso di norme atte a preservare il bene giuridico “ambiente” dai rischi derivanti da una tutela non uniforme ed a garantire uno sviluppo concorrenziale del settore. L’azione unitaria svolta dallo Stato, in particolare, viene giustificata sotto un duplice aspetto.

L’uniforme metodologia tariffaria adottata dalla legislazione statale deve, in primo luogo, garantire sull’intero territorio nazionale un trattamento uniforme alle varie imprese operanti in concorrenza tra loro, per evitare che si producano arbitrarie disparità di trattamento sui costi aziendali, conseguenti a vincoli imposti in modo differenziato sul territorio nazionale. Il nesso con la tutela della concorrenza si spiega anche perché la regolazione tariffaria deve assicurare l’equilibrio economico-finanziario della gestione e l’efficienza ed affidabilità del servizio (art. 151, comma 2, lettere c, d, e, del codice dell’ambiente), attraverso il meccanismo di price cap (artt. 151 e 154, comma 1, del codice dell’ambiente), «diretto ad evitare che il concessionario [recte: gestore] unico abusi della sua posizione dominante» (sentenza n. 246 del 2009, che richiama anche le sentenze n. 335 e n. 51 del 2008).

Sotto altro profilo, attraverso la determinazione della tariffa il legislatore statale fissa livelli uniformi di tutela dell’ambiente, perseguendo la finalità di garantire la tutela e l’uso delle risorse idriche secondo criteri di solidarietà e salvaguardando così la vivibilità dell’ambiente e le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale. La finalità della tutela dell’ambiente viene anche posta alla base della scelta delle tipologie dei costi che la tariffa è diretta a recuperare, tra i quali il legislatore ha incluso espressamente quelli ambientali. 

(2) Ha affermato la Sezione che al referendum abrogativo deve riconoscersi una valenza espansiva rispetto alle disposizioni legislative non coinvolte in maniera espressa dal quesito referendario, ma comunque incompatibili con la volontà manifestata dagli elettori. Si è al cospetto in casi siffatti di un’abrogazione tacita conseguente al contrasto tra contenuti normativi che si susseguono nel tempo (in tal senso, sul piano esclusivamente tecnico, non si condivide il riferimento operato nel citato parere del 2013 alla categoria della sopravvenuta «inoperatività», la quale riguarda il diverso caso della mera incongruenza, sul piano degli effetti pratici, all’interno della legislazione superstite). 

Al referendum abrogativo, del resto, deve riconoscersi una ‘forza’ politica peculiare – in quanto attraverso di esso il popolo esprime una volontà preminente su ogni altra –, idonea a dilatare le potenzialità espansive dello strumento in modo tale da trascendere anche i connotati legati alla efficacia della legge formale (vale ricordare la sentenza n. 16 del 1978, della Corte costituzionale, secondo cui “il tema del quesito sottoposto agli elettori non è tanto formato […] dalla serie delle singole disposizioni da abrogare, quanto dal comune principio che se ne ricava”; posizione ripresa nella sentenza n. 68 del 1978; anche se, con la sentenza n. 13 del 2012, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato che il “referendum comporta […], in caso di esito positivo, l’abrogazione di disposizioni, non di norme: esso produce la cessazione non dell’efficacia della norma pro futuro, ma della vigenza della disposizione”).

La diversa opinione che avesse ritenuto la nuova formulazione del citato art. 154 applicabile solo alle nuove convenzioni, con esclusione di quelle in essere, avrebbe comportato evidentemente la radicale vanificazione degli effetti del referendum del 2011, soprattutto tenuto conto della lunga durata delle convenzioni in essere (a tale conclusione questo Consiglio di Stato è già pervenuto con la sentenza 22 gennaio 2014, n. 319).

La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 26 gennaio 2011, n. 26 ‒ nel verificare se la struttura del quesito proposto rispondesse alle esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità ‒, ha ritenuto ammissibile il “quesito, benché formulato con la cosiddetta tecnica del ritaglio”, perché con esso “si persegue, chiaramente, la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua”.

Nel descritto quadro, era l’Amministrazione a dover garantire prima di chiunque altro il risultato referendario e a costruire le condizioni più idonee per la sua attuazione.

Ponendosi il decreto ministeriale 1 agosto 1996 ‒ nel periodo compreso tra il 21 luglio e il 31 dicembre 2011 ‒ in contrasto con il quadro normativo delineatosi a seguito del referendum del 12 e 13 giugno del 2011, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente ben poteva ‒ e anzi doveva ‒ ripristinare ‘ora per allora’ la legalità violata, avviando il procedimento per la restituzione agli utenti della componente tariffaria corrispondente alla remunerazione del capitale per il suddetto periodo successivo alla celebrazione del referendum e rimasto regolato da una disciplina che non ne aveva “introiettato” gli esiti. 

(3) Ha chiarito la Sezione che la ‘base affidante’ dei soggetti incisi dal provvedimento dell’Autorità deve apprezzarsi sulla scorta del canone della prevedibilità (sovente applicato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea: cfr. le sentenze 29 aprile 2004, in cause C-487/01 e C-7/02; 10 settembre 2009, causa C-201/08, Plantanol, punti 46 e seguenti; sentenza 19 dicembre 2013, resa nella causa C-563/12). 

Va rimarcato che gli operatori del servizio idrico integrato non sono semplici fornitori di servizi del tutto deresponsabilizzati rispetto al governo del settore, bensì sono soggetti di un complesso sistema pubblico-privato apprestato per assolvere ai compiti di interesse economico generale, le cui relazioni contrattuali sono conformate, come si è visto, da precise esigenze superiori di carattere organizzatorio, a protezione di una esigenza primaria della persona.

I rapporti di gestione di un servizio pubblico di lunga durata (spesso di durata ultraventennale), del resto, sono sempre esposti alle novità normative sopravvenute nel corso del tempo (tanto che nelle convenzioni del servizio idrico integrato sono spesso inserite clausole di adeguamento alla normativa sopravvenuta).

Su queste basi e alla luce del risalente e accesso dibattito pubblico sulla gestione pubblica dell’acqua, l’operatore prudente e accorto non poteva non sapere di essere esposto a possibili correttivi dei contenuti economici del corrispettivo.

Ai fini della valutazione della ragionevolezza del disposto regolatorio in esame, va da ultimo verificato il rispetto di un “necessario bilanciamento” tra il perseguimento dell’interesse pubblico e la tutela da riconoscere al legittimo affidamento nella sicurezza giuridica. 

Nel caso in esame, l’incisione della proprietà privata, oltre che legittima e diretta a perseguire un interesse pubblico, appare anche ragionevolmente proporzionata al fine che si intendeva realizzare. 

 

(4) Nella specie, l’impugnata delibera ha previsto la restituzione integrale della remunerazione, al netto dei costi per oneri finanziari, fiscali e degli accantonamenti per svalutazione dei crediti, e non dei costi di capitale ‘proprio’, che dunque non risultano coperti, in contrasto con la direttrice normativa che permea l’intera regolazione dei servizi economici di interesse generale. 

(5) Ha ricordato la Sezione che sistema del rinvio pregiudiziale, introdotto dall’art. 267 TFUE per assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto dell’Unione negli Stati membri, istituisce una cooperazione diretta tra la Corte di Giustizia e i giudici nazionali, attraverso un procedimento in cui la determinazione e la formulazione delle questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione ‒ se necessarie ai fini della risoluzione della controversia oggetto del procedimento principale ‒ spettano al giudice nazionale e le parti in causa nel procedimento principale non possono modificarne il tenore (sentenze Kelly, in C-104/10; Vlaamse Dierenartsenvereniging e Janssens, in C-42/10, C-45/10 e C-57/10).

Il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia del sistema di rinvio pregiudiziale, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, senza doverne attendere la previa soppressione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (sentenza Cartesio, in C-210/06, punti 93, 94 e 98).

Qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del Trattato.

La giurisprudenza europea ha, tuttavia, precisato che, dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’articolo 267 TFUE, deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere.

Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia. In sintesi, è stato chiarito che l’obbligo del giudice nazionale di ultima istanza non sussiste se: 

a) la questione di interpretazione di norme comunitarie non è pertinente al giudizio (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite);

b) la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla corte o comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso;

​​​​​​​c) la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione (c.d. teoria dell’atto chiaro, sul punto è sufficiente il richiamo alla sentenza capostipite della Corte del Lussemburgo 6 ottobre 1982, in C-283/81, Cilfit). 

Cons. St., sez. VI, 14 maggio 2021, n. 3809 – Pres. Montedoro, Est. Simeoli

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