21/05/2021 – Inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile

Lavoro – Inquadramento – Categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante – Contestazione – Criterio. 

         L’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – non rientra tra le irregolarità in materia di lavoro e legislazione sociale che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione ma corrisponde ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale – sancito dall’art. 2103 c.c. e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela 

(1) Ha chiarito il Tar che il tipo di violazione contestata – l’inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante, in forza delle mansioni esercitate, secondo il C.C.N.L. applicabile – non rientra tra le “irregolarità (…) in materia di lavoro e legislazione sociale” che possono essere contestate dall’Ispettorato nell’esercizio del potere di disposizione. 

Nella consapevolezza di porsi in contrasto con la diversa lettura della disposizione fatta propria dall’I.N.L. – ed espressa dalla circolare n. 5 del 30 settembre 2020 – il Tribunale ha rilevato che contro tale interpretazione militano una  pluralità di argomenti. 

Dal punto di vista letterale, la norma parla di “irregolarità”, termine con il quale si è soliti definire una difformità rispetto alla fattispecie legale, priva di espressa sanzione giuridica (come del resto specificato dalla stessa norma, che esclude i casi in cui le irregolarità “siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”). Deve trattarsi, quindi, della violazione di norme c.d. “imperfette”, che al comando giuridico non accompagnino alcuna sanzione. L’adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di inquadramento di cui al C.C.N.L. corrisponde, invece, ad una condotta di inadempimento di un obbligo di fonte legale – sancito dall’art. 2103 c.c., secondo cui “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto …” (comma 1) – e presidiato da uno speciale meccanismo di tutela, in forza del quale “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi” (comma 7). 

Sotto altro profilo, sempre nel contesto di una interpretazione letterale della disposizione, la limitazione del potere in esame ai casi di mancata previsione di “sanzioni penali o amministrative”, dovrebbe guidare anche l’interpretazione del concetto di “irregolarità … in materia di lavoro e legislazione sociale”, portando quindi a concludere che anche le irregolarità debbano rivestire analoga natura penale o amministrativa. Si riscontrerebbe, altrimenti, un difetto di coordinamento interno alla proposizione normativa, tale da ridondare in vero e proprio vizio di logicità della disposizione, ove si consideri che, proprio con riguardo alla categoria più controversa e difficilmente accertabile in sede amministrativa, cioè quella delle difformità rispetto alla fonte negoziale (individuale o collettiva), mancherebbe qualsiasi parametro delimitativo del potere. 

A tutto concedere, quindi, anche un’eventuale estensione ad “irregolarità” civilistiche/contrattuali, dovrebbe comunque essere interpretata in conformità all’espresso principio di “residualità” del potere di disposizione, per cui esso è attivabile solo in mancanza di rimedi tipici. Non quindi nel caso di adibizione di fatto a mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento, ipotesi per la quale, come visto al precedente par. 9, l’art. 2103 c.c. prevede un particolare meccanismo di tutela davanti all’a.g.o., fondato sul riconoscimento del diritto alla stabilizzazione della categoria contrattuale corrispondente alle superiori mansioni esercitate. 9.3. Ancora, la possibilità di riferire l’art. 14. d.lgs. 124 del 2004 alle irregolarità derivanti da violazioni dei contratti collettivi, in assenza di espressa specificazione, non si concilia con il tenore testuale dell’art. 13 dello stesso d.lgs., ove la volontà di estendere il campo applicativo del diverso strumento della diffida alla “constatata inosservanza delle norme … del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale” è espressamente sancita. La particolare natura dei contratti collettivi, atti di natura negoziale aventi però efficacia ultra partes e paranormativa, avrebbe richiesto da parte del legislatore un’esplicita considerazione anche nel contesto dell’art. 14 che, nel parlare di “lavoro e legislazione sociale” e correlate “sanzioni penali o amministrative”, sembra naturalmente riferirsi alle sole fonti di diritto oggettivo. 

Sotto un profilo sistematico, sono evidenti le problematicità che derivano dal riconoscere cittadinanza ad un atto di disposizione siffatto. Attraverso tale provvedimento, l’Ispettorato ha sindacato l’esercizio del potere direttivo del datore, imponendogli, sotto la minaccia della sanzione pecuniaria, di dare al rapporto, in via permanente, una determinata conformazione. Ciò che la misura ha realizzato è, di fatto, l’accertamento di un rapporto giuridico tra privati in via amministrativa, per effetto di un potere unilaterale, senza le garanzie proprie della giurisdizione. L’evidente difficoltà concettuale ad ammettere tale possibilità emerge dalle contraddittorie difese dell’Ispettorato che, pur avendo emanato il provvedimento, se ne ritiene al contempo estraneo e domanda la propria estromissione dal giudizio. A parere del Tribunale, il “disagio” dell’amministrazione nel trovarsi coinvolta in questioni interamente interprivatistiche non nasce – come l’eccezione di difetto di legittimazione passiva vorrebbe implicare – dall’erronea individuazione della controparte ad opera del ricorrente, quanto dall’abnormità di un provvedimento emanato per intervenire in via autoritativa su un rapporto contrattuale, in supplenza della parte direttamente titolare dell’interesse (il lavoratore), pur non avendo tale interesse una diretta rilevanza pubblicistica. 

Sul piano pratico, infine, l’estensione del potere di disposizione ad ipotesi come quella in esame sarebbe fonte di non poche criticità e diseconomie. Il datore di lavoro destinatario di un ordine ex art. 14, d.lgs. 124 del 2004, per evitarne il consolidamento e l’irrogazione della sanzione per inottemperanza, non può che contestarlo innanzi al Tar. Il giudice amministrativo si troverebbe quindi a dover pronunciare nel merito del rapporto di lavoro, senza efficacia di giudicato (e nel contesto di un rito interamente documentale, non concepito per questa tipologia di controversie), trattandosi di “questione incidentale relativa a diritti … la cui risoluzione è necessaria per pronunciale sulla questione principale” (art. 8, comma 1 c.p.a.), cioè sulla legittimità del provvedimento di diffida.

​​​​​​​​​​​​​Al contempo il lavoratore, anche a fronte di un esito “favorevole” (in via riflessa) del giudizio amministrativo, non troverebbe adeguata tutela qualora il datore persista nell’inottemperanza e decida di assoggettarsi alla sanzione, senza modificare l’inquadramento contrattuale in conformità all’ordine di disposizione. Egli dovrebbe infatti necessariamente agire di fronte al giudice naturale (il Tribunale in funzione di giudice del lavoro), l’unico in grado di intervenire in via diretta sul rapporto giuridico, chiedendo il riconoscimento della diversa qualifica spettante secondo il C.C.N.L. e il pagamento delle conseguenti differenze retributive.  

Il provvedimento di disposizione, applicato per contestare la categoria di inquadramento, si rileva quindi, strumento del tutto ineffettivo sul piano della tutela dell’interesse del lavoratore e al contempo inefficiente dal punto di vista dell’uso delle risorse amministrative e giurisdizionali, in palese contrasto con la propria ratio. Lo strumento rischierebbe inoltre di provocare la frequente sovrapposizione di attività processuale sul medesimo oggetto, da parte di giudici appartenenti a diverse giurisdizioni, con un evidente spreco di risorse e con il rischio di pronunce tra loro contrastanti. 

Tar Friuli Venezia Giulia 18 maggio 2021, n. 155 – Pres. Settesoldi, Est. Ricci

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