20/05/2021 – Gli incaricati a contratto ai sensi dell’articolo 110 del Tuel non hanno diritto a porsi in aspettativa

Chi scrive, lo sostiene da sempre: il conferimento degli incarichi a contratto, ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 non fa sorgere nell’incaricato alcun diritto all’aspettativa.

Il Ministero della Funzione Pubblica, col parere DFP-0025780-P-16/04/2021 molto opportunamente chiarisce le sia pur ovvie argomentazioni secondo le quali il comma 5 dell’articolo 110 non istituisce nessun diritto alla collocazione in aspettativa, bensì prevede per l’interessato una possibilità, condizionata alla concessione da parte del datore di lavoro.

Il parere di Palazzo Vidoni richiama la sentenza del Tar Marche, Sezione I, 94/2018, che sul punto esprime un’indicazione illuminante: la sussistenza del “principio generale secondo cui l’amministrazione di appartenenza deve sempre poter esprimere l’assenso all’impiego dei propri dipendenti presso altre amministrazioni“. Principio alla luce del quale la collocazione in aspettativa può essere configurata come diritto solo negli esclusivi, espressi e tassativi casi nei quali la legge lo disponga. Fattispecie che non ricorre nel caso dell’articolo 110, comma 5.

La Funzione Pubblica smentisce, quindi, la diffusissima, quanto erronea, opinione corrente in moltissime amministrazioni locali, secondo la quale esse sarebbero in una posizione di pati, subendo necessariamente il diritto dell’incaricato di andare in aspettativa in coincidenza con l’avvio del servizio presso altro ente.

Una convinzione erronea, basata su un’esegesi del testo dell’articolo 110, comma 5, del Tuel del tutto fuorviante e, anche, fondata su un presunto diritto del dipendente all’evoluzione e crescita professionale, che non potrebbero essere conculcati dal datore di lavoro.

Le cose non stanno così. Un tempo, prima della riforma di alcuni anni fa, i dipendenti incaricati a contratto erano costretti a dimettersi; il nuovo testo del comma 5 dell’articolo 110 permette loro, invece, di chiedere l’aspettativa, per non dimettersi. Ma, se l’incaricato ritiene di non doversi sottoporre alla valutazione datoriale circa la possibilità di concedere o meno l’aspettativa o, in caso di diniego, considerasse comunque vantaggioso anche per la crescita professionale l’assunzione a contratto, può in ogni caso continuare a dimettersi e, quindi, assumere l’incarico a contratto.

Ma, la pubblica amministrazione non può essere costretta al giogo di chi in assoluta libertà pensi di poter utilizzare l’aspettativa come un diritto, creando poi problemi rilevantissimi di natura organizzativa ed operativa.

Sul tema, si riporta un articolo scritto poco tempo fa per la rivista La Gazzetta degli enti locali, sempre su un parere col quale Palazzo Vidoni aveva in effetti già anticipato le condivisibili opinioni espresse col parer commentato sopra:

La collocazione in aspettativa non è un diritto anche nel caso degli incarichi ex articoli 110 Tuel

Da molto tempo si trascina il dibattito in merito all’aspettativa prevista dall’articolo 110 del d.lgs 267/2000 per i dipendenti incaricati come dirigenti a contratto. Le alternative interpretative riguardano la configurazione dell’aspettativa come diritto potestativo del dipendente, al quale consegue un obbligo di patidell’amministrazione, cui si impone di subire una collocazione in aspettativa ex lege; oppure, la qualificazione dell’aspettativa pur sempre come mera aspettativa del lavoratore, condizionata alla concessione da parte del datore di lavoro.

La prima tesi si basa su un’interpretazione esclusivamente letterale del citato articolo 5 dell’articolo 110: “Per il periodo di durata degli incarichi di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo nonché dell’incarico di cui all’articolo 108, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio”.

Nel rispetto del particolare lessico del Legislatore, si considera che l’utilizzo dell’indicativo presente svolge la funzione di imperativo e, quindi, la gran parte degli operatori e degli interpreti (per tutti, R. Salimebni, “Il diritto all’aspettativa per gli incarichi dirigenziali o equiparati”, in ilpersonale.it; in senso contrario, C. Demartis “Collocamento in aspettativa in base all’art. 110, comma 5, del D.Lgs. 267/2000. Diritto soggettivo o interesse legittimo. Le ragioni per cui è necessario non fermarsi ad una interpretazione letterale” in www.segretarivighenzi.it) ritiene che la norma vada intesa nel senso di obbligare le amministrazioni a collocare in aspettativa i dipendenti pubblici incaricati come dirigenti a contratto in enti locali.

Il parere del Ministero della Funzione Pubblica 3.2.2021, n. 7147-P/2021 risulta molto utile per provare a dirimere la questione e convincere che, contrariamente al pensiero maggioritario, l’aspettativa menzionata dall’articolo 110, comma 5, del d.lgs 267/2000 non è affatto un diritto soggettivo del lavoratore, ma resta esclusivamente una sua aspettativa mera.

Un passaggio fondamentale, nell’interpretazione, è verificare se quella letterale risulti conchiusa e sufficiente. Bisogna, cioè, provare ad estendere l’interpretazione adottando altri criteri e così comprendere se quella letterale resista. A tale scopo, è necessario utilizzare l’interpretazione sistematica, mediante la quale si mette la norma da interpretare in rapporto ad altre relative alla medesima materia esistenti nell’ordinamento, in modo da comprendere se l’interpretazione letterale non vada a porsi in contrasto con il sistema ordinamentale.

E’, allora, opportuno seguire il percorso interpretativo sistematico suggerito da Palazzo Vidoni. Esso si riferisce direttamente all’aspettativa disciplinata dall’articolo 23-bis del d.lgs 165/2001, ma, correttamente, amplia l’analisi anche ad altre fattispecie. Infatti, la Funzione Pubblica configura la disciplina dell’articolo 23-bis sostanzialmente come “residuale”, quando la legge, cioè, non disciplini “con maggior dettaglio fattispecie in cui il dipendente pubblico può prestare servizio per un’amministrazione diversa da quella nei cui ruoli è inquadrato e, comunque, subordinatamente alla previa valutazione dell’esigenze organizzative e in funzione del perseguimento di obiettivi di crescita professionale del dipendente interessato”.

Tra tali regolazioni particolari della connessione tra aspettativa e svolgimento di attività lavorative subordinate a tempo determinato presso amministrazioni diverse da quella di appartenenza, ovviamente il parere di Palazzo Vidoni richiama, sia pure indirettamente e con maggiore approfondimento nella nota 4 del parere medesimo, l’articolo 110 del d.lgs 267/2000.

E lo richiama affrontando il problema della compatibilità tra l’articolo 23-bis del d.lgs 165/2001 e, in generale, appunto le norme che consentono l’aspettativa nel caso di incarichi presso PA diverse da quelle di appartenenza e le due fondamentali norme contenute negli articoli 60 e 65 del dPR 3/1957.

Ricordiamole. L’articolo 60 dispone: “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, nè alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”. E’ il principio di esclusività dell’attività lavorativa presso una PA. L’articolo 65 prevede: “Gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali. I capi di ufficio, di istituti o di aziende e stabilimenti pubblici sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire al Ministro competente, il quale ne dà notizia alla Corte dei conti, i casi di cumulo di impieghi riguardanti il dipendente personale. L’assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall’impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza eventualmente spettante, ai sensi dell’art. 125, alla data di assunzione del nuovo impiego”. E’ il divieto di cumulo di più impieghi pubblici.

In quanto al rapporto, allora, tra l’articolo 23-bis del d.lgs 165/2001 e le citate disposizioni del dPR 3/1957, Palazzo Vidoni afferma che “dovrebbe allora ritenersi che la norma in esame configuri una delle possibili eccezioni cui si fa rinvio nel citato art. 654 per cui la concessione dell’aspettativa non retribuita per il periodo corrispondente alla durata del nuovo rapporto che si va ad instaurare varrebbe quale rimozione temporanea del limite posto dal divieto di cumulo di impieghi pubblici”. La nota 4 del parere, introdotta proprio nel periodo citato spiega: “A titolo di esempio si fa presente che l’art. 110 del d.lgs. n. 267 del 2000 nel testo modificato dall’art. 11, comma 1, lett. b), del d.l. n. 90 del 2014 fa salva la possibilità di mantenimento del rapporto di lavoro in essere, a fronte della concessione da parte dell’Amministrazione di appartenenza dell’aspettativa prevista dalla medesima disposizione, fermo il generale principio di divieto di cumulo”.

La nota appare illuminante. La Funzione Pubblica evidenzia di considerare l’aspettativa di cui parla l’articolo 110, comma 5, del d.lgs 267/2000 come è corretto configurarla: non un diritto, bensì una mera “possibilità”, subordinata ad una “concessione”, espressione del potere datoriale di concedere o meno l’aspettativa, sulla base delle valutazioni discrezionali di cui dispone, in applicazione del “generale principio di divieto di cumulo”.

Tale principio, posto dall’articolo 65 del dPR 3/1957 risulta sempre operante. Ma, lo stesso articolo 65 rimette a leggi speciali la possibilità di prevedere eccezioni al divieto di cumulo.

Nella corretta prospettiva di Palazzo Vidoni, allora, l’articolo 110, comma 5, del d.lgs 267/2000 altro non è se non una norma di eccezione alla regola generale del divieto di cumulo di impieghi pubblici, da leggere come tale e nulla più.

Non è in alcun modo una disposizione che obblighi la pubblica amministrazione a patire una collocazione obbligata in aspettativa del dipendente selezionato da un ente locale come dirigente al contratto, cui faccia fronte un diritto di questi. Il dipendente può solo vantare, nei confronti del datore di lavoro pubblico, l’esistenza dell’eccezione al divieto di cumulo, sicchè la PA di appartenenza non potrebbe non adottare la concessione dell’aspettativa sulla base della mera applicazione dell’articolo 65 del dPR 3/1957. Infatti, l’articolo 110, comma 5, del Tuel prevede la possibilità di mantenere in piedi il rapporto di lavoro, nonostante l’assunzione del dipendente col contratto a tempo determinato di cui all’articolo 110 del Tuel presso un’amministrazione locale; ma, tale possibilità è subordinata comunque ad un atto di concessione dell’aspettativa da parte del datore pubblico.

L’articolo 110, comma 5, quindi, esplica il solo e limitato effetto di rimuovere l’applicazione del divieto di cumulo di impieghi pubblici: per questo, in modo laconico, è ivi scritto che “i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni”. In questo caso, dunque, l’utilizzo dell’indicativo presente non ha valore imperativo, nel senso di obbligare il datore pubblico a concedere l’aspettativa, bensì un valore affermativo, nel senso di affermare l’eccezione espressa al divieto di cumulo. La norma, cioè, intende stabilire che ad un dipendente pubblico è possibile cumulare al proprio preesistente contratto di lavoro subordinato di ruolo un altro contratto di lavoro subordinato a tempo determinato per le funzioni descritte dall’articolo 110 del d.lgs 267/2000 e che allo scopo, quindi, si utilizzi l’aspettativa senza assegni come strumento giuridico che regola la posizione del lavoratore con l’ente di provenienza, durante lo svolgimento dell’incarico a contratto.

Stando così le cose, allora, come già rilevato, l’articolo 110, comma 5, del Tuel, limitandosi ad affermare l’eccezione della fattispecie ivi regolata rispetto al divieto di cumulo, non prevede per nulla un diritto soggettivo del dipendente all’aspettativa, che resta, come indica Palazzo Vidoni, una possibilità condizionata alle valutazioni discrezionali del datore di lavoro, che avrà pur sempre la facoltà e non certo l’obbligo di concedere l’aspettativa.

 

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