19/07/2021 – La mobilità volontaria? Non può essere mera cessione del contratto

Se vi fosse stata la necessità di una conferma che la mobilità volontaria è un’assunzione e non è per nulla una vera e propria cessione del contratto di lavoro subordinato, bensì un istituto di diritto pubblico solo analogo, ma parecchio differente, il parere della Funzione Pubblica DFP-27149-P-21/04/2021 dovrebbe contribuire a togliere qualsiasi dubbio. Ovviamente, solo a chi non si ostini a difendere per pregiudizio l’insostenibile tesi della coincidenza tra mobilità e cessione di contratto.

 

Il pronunciamento della Funzione Pubblica riguarda, nello specifico, una mobilità volontaria intercompartimentale, da un Ministero ad una Usl. Il problema posto dalla Usl consiste nella verifica della possibilità di mantenere in capo al dipendente, almeno come assegno ad personam riassorbibile, la “indennità di amministrazione”, spettante nell’ambito del comparto di provenienza, ma non prevista dalla contrattazione nazionale collettiva del comparto Sanità.

Palazzo Vidoni, correttamente, richiama l’articolo 30, comma 2-quinquies, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “Salvo diversa previsione, a seguito dell’iscrizione nel ruolo dell’amministrazione di destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione”.

La norma è estremamente precisa, anzi chirurgica, più ancora di quanto non appaia ad una prima veloce lettura.

Il parere aggancia la previsione dell’articolo 30, comma 2-quinquies, a quanto stabilisce l’articolo 45, comma 2, sempre del d.lgs 165/2001: “Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”.

Il principio di parità di trattamento contrattuale – ed economico – è alla base delle regole concernenti la mobilità del personale, se volontaria: il trasferimento dei dipendenti non può cagionare l’erogazione di emolumenti specifici, distinti e diversi, di maggior favore per il dipendente che transita in mobilità.

 

Basta pensarci. Un dipendente che appartenga ad un comparto che abbia un trattamento mediamente più alto di quello di altri, potrebbe essere tentato di abbandonarlo per trasferirsi in altri enti di altre PA, potendo conservare il differenziale economico, laddove, ad esempio, la sede dell’altro ente nel quale intenda trasferirsi si riveli più comoda. L’ente di destinazione dovrebbe accollarsi, quindi, spese non giustificate dall’ordinamento. Il caos gestionale sarebbe dietro l’angolo.

Queste, e anche altre, sono le storture possibili, rispetto alle quali fanno muro gli articoli 30, comma 2-quinquies, e 45, comma 2, del d.lgs 165/2001.

A conferma di ciò, come ricorda la Funzione Pubblica, l’ordinamento consente, è vero, in talune circostanze la conservazione del trattamento economico del dipendente. Ma, questa possibilità deve essere disciplinata dalla legge e limitata, ai sensi del comma 2[1] dell’articolo 30, ai soli “casi di mobilità diversa da quella volontaria, fatta salva l’eventuale disciplina speciale”.

 

Quindi, soltanto laddove il dipendente sia obbligato a transitare in mobilità da un ente all’altro la legge può consentire la conservazione integrale (ma, nemmeno sempre: si veda la “transumanza” imposta anni addietro ai dipendenti provinciali dalla folle riforma delle province) del trattamento economico (nemmeno di quello giuridico, se si determina un radicale cambio di mansioni, come non di rado avvenuto proprio attuando la folle riforma delle province).

Cosa significa, allora, tutto ciò? Che l’idea secondo la quale la mobilità volontaria dia luogo ad una cessione del contratto per effetto della quale il rapporto di lavoro del dipendente transiti in totale continuità e, quindi, identità assoluta dell’oggetto contrattuale, da un datore all’altro, risulta totalmente erronea.

Lo è senz’altro nel caso della mobilità volontaria intercompartimentale, cioè tra amministrazioni appartenenti a comparti contrattuali differenti.

Ma, la mobilità non consente alcuna continuità del rapporto contrattuale nemmeno nel caso della mobilità volontaria nell’ambito dello stesso comparto.

Torniamo sopra a rileggere l’articolo 30, comma 2-quinquies, del d.lgs 165/2001, le cui parole hanno un senso molto preciso: esso connette il trattamento giuridico ed economico del dipendente passato per mobilità volontaria all’ente di destinazione all’istituto molto specifico della “iscrizione nel ruolo dell’amministrazione di destinazione”.

 

L’iscrizione nel ruolo implica l’inserimento del dipendente nell’elenco del personale stabilmente parte dell’organico.

Rispondiamo, ora, alla seguente domanda: qual è il presupposto per iscrivere un dipendente nel ruolo?

Ci aiuta a dare la risposta la Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 27564/2016 “il concorso pubblico costituisce la modalità generale ed ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni. L’eccezionale possibilità di derogare per legge al principio del concorso per il reclutamento del personale, che è prevista dall’art. 97 Cost. comma 4, è ammessa nei soli casi in cui sia maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondente a straordinarie esigenze di interesse pubblico, individuate dal legislatore in base ad una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza”.

Si accede ai ruoli, dunque, a seguito del concorso. Ma, il concorso è il mezzo mediante il quale si recluta il dipendente, cioè il presupposto. 

L’accesso vero e proprio al ruolo deriva esclusivamente dalla sottoscrizione del contratto di lavoro, che costituisce la fonte di attivazione del rapporto contrattuale di lavoro tra le parti, come prescrive l’articolo 35, comma 1, del d.lgs 165/2001: “L’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro”.

 

Dunque, anche nel caso della mobilità volontaria, tra dipendente che passa in mobilità ed ente di destinazione deve esservi un contratto individuale di lavoro.

Laddove si tratti di mobilità intercompartimentale è evidentissima la necessità di sottoscrivere un contratto individuale totalmente nuovo e diverso rispetto a quello condotto dal dipendente con l’amministrazione di provenienza, vista la necessità di regolare il rapporto di lavoro con l’ente di destinazione nel rispetto degli specifici vincoli connessi alla contrattazione nazionale collettiva del comparto di ascrizione dell’ente di destinazione.

Tuttavia, occorre comunque un nuovo contratto individuale anche nel caso di mobilità volontaria compartimentale. Esemplifichiamo il caso della mobilità tra enti del comparto Funzioni Locali e leggiamo la disposizione dell’articolo 19, comma 2, del Ccnl 21.5.2018: “Nel contratto di lavoro individuale, per il quale è richiesta la forma scritta, sono comunque indicati: a) tipologia del rapporto di lavoro; b) data di inizio del rapporto di lavoro; c) categoria e profilo professionale di inquadramento; d) posizione economica iniziale; e) durata del periodo di prova; f) sede di lavoro; g) termine finale in caso di rapporto di lavoro a tempo determinato”.

Come minimo, cambia, necessariamente, la sede di lavoro: il dipendente, infatti, se si trasferisce dall’ente A all’ente B non potrà che prestare servizio presso la sede dell’ente B, la quale non può coincidere con la sede dell’ente A.

Ma, quelli indicati dall’articolo 19, comma 2, del Ccnl 21.5.2021 sono solo i contenuti minimi obbligatori del contratto. Il rapporto di lavoro nel nuovo ente sarà certamente profondamente diverso da quello condotto dal dipendente con l’ente di provenienza per molti altri aspetti: il trattamento accessorio (impossibile che i fondi dei due enti coincidano), quindi le indennità, ma anche la flessibilità, gli orari di lavoro, i sistemi di valutazione, non possono sicuramente essere coincidenti.

L’invarianza oggettiva, necessaria perché si possa davvero parlare di cessione del contratto, semplicemente è impossibile.

 

Il dipendente transitato in mobilità, quindi, deve necessariamente sottoscrivere con l’ente di destinazione un nuovo e diverso contratto di lavoro, anche solo per definire la nuova sede di lavoro.

Ma, la sottoscrizione tra il datore di lavoro ed un lavoratore di un contratto di lavoro, anche solo avente il fine di regolare diversamente alcuni istituti, altro non è se non un’assunzione.

Non solo: se l’ente di destinazione attiva il trattamento giuridico ed economico in funzione dell’iscrizione a ruolo dell’ente e detta iscrizione non può che dipendere dalla sottoscrizione di un contratto di lavoro, ancora una volta si ha la conferma che effetto della mobilità è una vera e propria assunzione a tutti gli effetti, sebbene riferita a persona già dipendente pubblico.

 


[1] Nell’ambito dei rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, i dipendenti possono essere trasferiti all’interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra le amministrazioni interessate, in altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a cinquanta chilometri dalla sede cui sono adibiti. Ai fini del presente comma non si applica il terzo periodo del primo comma dell’articolo 2103 del codice civile. Con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa consultazione con le confederazioni sindacali rappresentative e previa intesa, ove necessario, in sede di conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, possono essere fissati criteri per realizzare i processi di cui al presente comma, anche con passaggi diretti di personale tra amministrazioni senza preventivo accordo, per garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni che presentano carenze di organico. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano ai dipendenti con figli di età inferiore a tre anni, che hanno diritto al congedo parentale, e ai soggetti di cui all’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni, con il consenso degli stessi alla prestazione della propria attività lavorativa in un’altra sede. In ogni caso sono nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi volti ad eludere l’applicazione del principio del previo esperimento di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale.

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