30/06/2021 – Quel pasticciaccio brutto della mobilità senza nulla osta

 

Norma peggiore dell’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021 è difficile scorgerla. Si tratta della sciagurata eliminazione del “previo assenso dell’amministrazione di appartenenza” ai fini della mobilità o “passaggio diretto”.

Abbiamo da subito rilevato i gravissimi problemi scatenati da questa scelta legislativa esiziale, qui e qui. Ma, a ben vedere, le questioni interpretative ed applicative sono ulteriori e diverse ed è necessario affrontarle.

Leggiamo, allo scopo, il testo dell’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001, come purtroppo novellato dal d.l. 80/2021:

Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell’amministrazione di appartenenzaE’richiesto il previo assenso dell’amministrazione di appartenenza nel caso in cui si tratti di posizioni motivatamente infungibili, di personale assunto da meno di tre anni o qualora la suddetta amministrazione di appartenenza abbia una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente. E’ fatta salva la possibilità di differire, per motivate esigenze organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo di sessanta giorni dalla ricezione dell’istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione. Le disposizioni di cui ai periodi secondo e terzo non si applicano al personale delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale, per i quali è comunque richiesto il previo assenso dell’amministrazione di appartenenza. Al personale della scuola continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti in materia. Le amministrazioni, fissando preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste, pubblicano sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a trenta giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre amministrazioni, con indicazione dei requisiti da possedere. In via sperimentale e fino all’introduzione di nuove procedure per la determinazione dei fabbisogni standard di personale delle amministrazioni pubbliche, per il trasferimento tra le sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali non è richiesto l’assenso dell’amministrazione di appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due mesi dalla richiesta dell’amministrazione di destinazione, fatti salvi i termini per il preavviso e a condizione che l’amministrazione di destinazione abbia una percentuale di posti vacanti superiore all’amministrazione di appartenenza. Per agevolare le procedure di mobilità la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica istituisce un portale finalizzato all’incontro tra la domanda e l’offerta di mobilità“.

Le questioni che questa novella, frettolosa e mal congegnata, pone sono moltissime e rilevanti, sostanzialmente prive di soluzioni utili.

In via di premessa, è necessario evidenziare quale sia la controprova di quanto perversa sia questa norma: l’esplicita esclusione dalla cancellazione del nulla osta dei comparti sanità e istruzione. Se la “liberalizzazione” della mobilità non determinasse problemi tremendi per l’organizzazione e l’efficienza, non sarebbe evidentemente stata inserita una norma che lascia fuori dalla riforma quasi la metà del personale pubblico (600.000 circa sono i dipendenti della sanità, 1.000.000 circa quelli della scuola). Una mobilità senza nulla osta spopolerebbe dall’oggi a domani gli organici dei docenti delle scuole del Nord, tanti sono quelli che provengono dal Sud; pericolo simile si determinerebbe anche nella sanità.

Per quanto riguarda gli altri comparti, il Legislatore ha evidentemente sottovalutato il fenomeno, che pure durante il lock down era emerso con tutta la sua forza, tanto che si era parlato si southworking. La presenza di moltissimo personale proveniente dal Sud che lavora presso le PA del Nord e che non vede l’ora di tornare nelle terre natie è molto ampia.

In ogni caso, il comparto degli enti locali è particolarmente esposto ad una gravissima crisi organizzativa: moltissimi dei quasi 350.000 dipendenti dei comuni lavora in sedi piccole, non poche volte disagiate, non di rado anche dissestate, desiderosi di passare al più presto a lavorare presso enti di maggiori dimensioni e dalla logistica meno difficoltosa. Non solo: nelle amministrazioni di maggiori dimensioni e di comparti differenti, le opportunità di carriera risultano anche migliori.

Non è difficile immaginare che i comuni di dimensioni medio piccole (praticamente l’80% del totale degli 8.000 circa comuni) fornirà un bacino di pescaggio per gli enti di maggiori dimensioni, di ogni altro comparto.

Del resto, acquisire personale mediante mobilità è conveniente. Non si sottostà ai costi e alle problematiche gestionali di un concorso, si acquisisce personale già formato e con la forte intenzione di andar via dall’ente di provenienza, si può, nonostante la norma imponga una procedura pubblica, alla fine scegliere senza i vincoli di una graduatoria concorsuale: alla fine, una mobilità libera rende anche libera la politica di ingerirsi in questi processi, per gestirli alla luce della ricerca del consenso e della fedeltà ad una tessera.

La premessa, che qui si chiude, si riferisce a problemi prettamente metagiuridici, ma che di fatto finiranno presto per presentare il conto.

Andiamo alle questioni più tecnico-giuridiche. Alla luce della novella, occorre porsi il problema di come definire tecnicamente il “passaggio diretto” tra amministrazioni.

La scadente tecnica normativa lascia sopravvivere nel testo del comma 1 dell’articolo 30 del d.lgs 165/2001 la previsione che detto passaggio diretto (il trasferimento da un ente all’altro, in parole semplici) avvenga “mediante cessione del contratto di lavoro“.

Chi scrive, sostiene da sempre che la mobilità o passaggio diretto sia un istituto di diritto pubblico autonomo e peculiare, non coincidente col negozio giuridico privatistico della cessione del contratto di lavoro (qui e qui). Adesso, con la novella del 2021 insistere per la tesi secondo la quale il passaggio diretto è appunto una cessione del contratto di lavoro, per quanto ovviamente possibile, risulta ancor più privo di fondamento di quanto non lo fosse in passato.

Nei confronti delle amministrazioni pubbliche per le quali viene meno il “previo assenso” al passaggio diretto, salta totalmente ogni possibile richiamo anche solo analogico all’istituto della cessione del contratto, regolato dall’articolo 1406 del codice civile: “ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta”.

La cessione del contratto è un negozio giuridico necessariamente trilaterale, al quale concorre la volontà di tre parti: il cedente (colui che cede il contratto), il cessionario (colui che subentra al cedente), il ceduto, il contraente che vede la modificazione soggettiva della controparte, che cambia dal cedente al cessionario.

Perchè la cessione del contratto, concordata tra cedente e cessionario, abbia efficacia, ai sensi del codice civile occorre necessariamente che il ceduto lo consenta. Occorre, quindi, l’assenso del ceduto. Che deve essere previo (com’era nella disciplina della mobilità ante riforma e come rimane per istruzione e sanità), ma non alla negoziazione tra cedente e cessionario, bensì alla formazione definitiva della fattispecie. In sostanza, l’assenso del ceduto deve essere prestato prima che divenga efficace la cessione pattuita tra cedente e cessionario, che in via generale va notificata al ceduto, affinchè appunto questo si pronunci espressamente.

La novella prevista dall’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, come è facile comprendere, elimina il “previo assenso”. Dunque, rende il rapporto giuridico connesso all’istituto del “passaggio diretto” non più trilaterale, ma esclusivamente bilaterale. Il passaggio diretto, in sostanza, viene in essere per esclusiva prestazione di consenso tra cedente e cessionario, mentre il ceduto non può avere voce in capitolo.

Pertanto, a ben vedere, il “passaggio diretto” senza previo assenso non è e non può essere considerato in alcun modo una cessione del contratto di lavoro. E’ un istituto di diritto pubblico del tutto autonomo e diverso, tale che il richiamo ancora esistente alla cessione (per altro, solo analogico e non volto a determinare coincidenza tra i due istituti) non può valere per gli enti appartenenti ai comparti nei confronti dei quali il “previo assenso” o “nulla osta” è stato soppresso.

E’ bene chiarire una volta di più, a critica della dottrina sul punto maggioritaria ma erronea, che nel passaggio diretto:

  1. parte cedente è il dipendente, non l’ente di appartenenza;
  2. parte ceduta è l’ente di appartenenza, non il dipendente;
  3. parte cessionaria è l’ente di destinazione.

 Infatti, il negozio giuridico del passaggio diretto si realizza tra ente di destinazione e dipendente cedente. L’ente cessionario attiva l’iter pubblicando l’avviso pubblico; il dipendente cedente risponde all’avviso e, se selezionato, è il dipendente cedente a prestare consenso con l’ente cessionario per il passaggio diretto. Dunque, l’ente dal quale proviene il dipendente cedente è esattamente il soggetto che avrebbe dovuto prestare quel previo assenso oggi soppresso (ma non per istruzione e sanità): per queste ragioni è l’ente di provenienza il ceduto e non il cedente.

D’altra parte, la soppressione del previo assenso dimostra appunto che la ricostruzione corretta è quella proposta sopra. Il previo assenso può essere soppresso proprio perchè esso spetta(va) all’ente di provenienza coincidente col contraente ceduto. Se fosse il dipendente la parte ceduta, si dovrebbe ammettere che a rispondere all’avviso pubblico di iniziativa dell’ente cessionario sarebbe l’ente di provenienza del dipendente, che in nome e per conto di questo negozierebbe col cessionario per cedere il contratto del dipendente, il quale quindi avrebbe dovuto, nel precedente sistema, esprime il previo assenso. Ricostruzione, questa, totalmente priva di ogni base giuridica e senso.

Precisato quanto sopra, allora c’è da ricostruire l’iter del passaggio diretto, che appare sostanzialmente diverso dal passato:

  1. la prima fase è quella dell’iniziativa dell’ente cessionario, che pubblica l’avviso pubblico finalizzato a selezionare dipendenti pubblici interessati alla mobilità;
  2. la seconda è la presentazione da parte dei dipendenti interessati della domanda, sollecitata dall’avviso pubblico;
  3. la terza è la selezione, tra i vari dipendenti che abbiano presentato domanda, di quello che l’ente cessionario intende assumere;
  4. la quarta è la presentazione, da parte del dipendente all’ente di appartenenza, di una “istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione”;
  5. la quinta è la risposta dell’amministrazione di appartenenza, rivolta direttamente al dipendente (unico soggetto col quale ha una relazione giuridica diretta), che sarà:
    1. vincolata nel contenuto, se non si rientri nelle tre possibili casistiche al ricorrere delle quali potrebbe tornare la necessità del nulla osta: cioè di accoglimento obbligatorio, salvo il “differimento”  motivato per non oltre 60 giorni;
    2. di ricognizione della sussistenza di una delle possibili tre cause di riaffioramento del previo assenso e, dunque, di espressione o meno del previo assenso.

I punti di novità sono quelli dal 4. in poi. Non deve essere più l’ente cessionario a chiedere all’ente cedente il nulla osta al trasferimento, ma, come si evince dalla novella normativa, è il dipendente chiamato a presentare all’ente di provenienza una (strana) “istanza” di passaggio diretto.

In effetti, poichè il passaggio diretto, soppresso il nulla osta, è un negozio giuridico bilaterale e non più trilaterale, esso si perfezione e diviene efficace con la semplice prestazione di consenso tra dipendente che intende trasferirsi ed ente di destinazione.

Dunque, la cosiddetta “istanza” di passaggio diretto è un non senso giuridico, a meno di non intenderla sul piano sostanziale per quello che di fatto è: una semplice comunicazione del già avvenuto passaggio diretto, in modo che l’amministrazione di provenienza sia resa edotta della circostanza.

Tale istanza e la connessa risposta dell’amministrazione non sono, tuttavia, configurate dalla norma:

  1. come obbligatoria: non c’è, come si nota, alcuna sanzione nel caso di mancata presentazione dell’istanza;
  2. come vincolante: la presentazione dell’istanza non pare costituisca vincolo alcuno alla costituzione del rapporto di lavoro del dipendente con l’amministrazione di destinazione;
  3. come condizione d’efficacia: la norma non subordina in alcun modo la valida costituzione del rapporto di lavoro tra dipendente cedente ed ente di destinazione alla risposta all’istanza.

Del resto, se l’istanza di passaggio diretto fosse obbligatori e/o condizione del passaggio diretto, l’ente di provenienza si ritroverebbe col potere di assentire o meno a tale passaggio e, dunque, la soppressione del previo assenso non avrebbe alcuna utilità.

Non resta, quindi, che concludere per la qualificazione dell’istanza come strumento di mera comunicazione dell’avvenuta costituzione del rapporto di lavoro tra dipendente ed ente di destinazione, affinchè l’ente di provenienza ne venga al corrente, per agire di conseguenza.

E guardiamo, appunto, alle conseguenze, elemento del quale pare il legislatore si sia totalmente disinteressato.

Poniamo che tutto fili via liscio: il dipendente viene selezionato dall’ente di provenienza, presenti all’ente di appartenenza (che in realtà non lo è nemmeno più) l’istanza di passaggio diretto e l’ente risponde che ne prende atto. Tutto ok.

I problemi, irrisolvibili, si pongono se non tutto è ok.

Le ipotesi possono essere:

  1. il dipendente presenta l’istanza di passaggio diretto e l’ente ritenga sussistere una delle tre cause nelle quali torni a disporre del potere di previo assenso e si esprima in senso negativo;
  2. il dipendente contesti la mancata espressione del previo assenso e prenda comunque servizio presso l’ente di destinazione;
  3. il dipendente non presenti nemmeno l’istanza di passaggio diretto e prenda direttamente servizio presso l’ente di destinazione.

Non si tratta di ipotesi di fantasia, ma di casi che possono ben facilmente verificarsi nella pratica e che avrebbero dovuto essere presi in considerazione dalla frettolosa mano che ha scritto l’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021.

Esaminiamo la prima ipotesi. L’ente, informato del passaggio diretto dall’istanza del dipendente, rileva che detto passaggio fa riemergere il potere di previo assenso, perchè si rientra nelle possibili tre eventualità disciplinate dal nuovo testo dell’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 e cioè si tratti:

  1. di posizioni motivatamente infungibili,
  2. di personale assunto da meno di tre anni,
  3. del caso in cui l’amministrazione abbia una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente.

Qualora l’amministrazione di appartenenza (che in realtà non lo è nemmeno più) ritenga di dover esprimere diniego all’espressione del previo consenso, si scatenerà un contenzioso infinito, dagli esiti totalmente imprevedibili. Anche perchè la giurisdizione sarà quella del giudice del lavoro e, quindi, estremamente ballerina ed inadeguata alle peculiarità del lavoro pubblico.

Infatti, il lavoratore potrà comunque e sempre eccepire, in relazione alla prima ed alla terza situazione al ricorrere della quale può riemergere il nulla osta, che in realtà la sua posizione è perfettamente fungibile e che non v’è la carenza d’organico. Soprattutto, questa terza causa ha del paradossale: come si possa far risorgere il soppresso nulla osta sulla base di una carenza di organico in un regime nel quale la dotazione organica di fatto di anno in anno è funzione della programmazione dei fabbisogni, non è dato capire.

Il dato dell’assunzione da meno di tre anni dovrebbe essere oggettivo. Ma, per un verso:

a) esso si presta ad interpretazioni capziose. C’è, infatti, chi affermerà che per “assunzione” debba intendersi la prima assunzione in assoluto nella PA a seguito di selezione concorsuale e non un’assunzione in un successivo ente per effetto di precedente mobilità. Insomma, simile interpretazione potrebbe sostenere l’idea che i tre anni siano necessari al primo ingresso, ma se un dipendente con più di tre anni di servizio passi ad un altro ente per mobilità, potrebbe da quel secondo ente passare in un terzo ente, sempre per mobilità, anche prima dei tre anni. Tale interpretazione appare non condivisibile, perchè fondata sull’erronea convinzione che la “mobilità non sia un’assunzione”, confondendo il modo con cui si recluta (mobilità, invece di concorso), con l’esito del reclutamento, cioè la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, perifrasi che si riassume nel verbo “assumere”. I tre anni appaiono vincolare ogni costituzione di rapporto di lavoro subordinato, qualsiasi sia il modo col quale si sia selezionato il lavoratore col quale tale rapporto si costituisce.

In ogni caso, è facile rilevare quali e quante questioni interpretative si possono sollevare e, quindi, la portata spaventosa del contenzioso potenziale.

E passiamo alla seconda ipotesi: il dipendente contesti la mancata espressione del previo assenso e prenda comunque servizio presso l’ente di destinazione.

Non solo, cioè, il dipendente può scatenare il contenzioso infinito di cui abbiamo parlato poco fa, ma potrebbe, in parallelo o anche solo in via esclusiva, decidere, evidentemente in accordo con l’ente di destinazione, di prendere comunque servizio presso di esso, evidenziando l’inesistenza delle cause che potrebbero muovere l’ente di provenienza a far riemergere il nulla osta e denegarlo.

E andiamo alla terza ipotesi, in parte coincidente con la seconda: il dipendente non presenti nemmeno l’istanza di passaggio diretto e prenda direttamente servizio presso l’ente di destinazione.

In entrambe le ultime due ipotesi il dipendente, sia adeguandosi all’iter procedurale che richiede la (parzialmente inutile) istanza di passaggio diretto, sia violandolo, decide col consenso dell’ente di provenienza di prendere comunque servizio presso di esso, contestando l’eventuale diniego di nulla osta o semplicemente eludendolo, senza nemmeno presentare l’istanza di passaggio diretto.

Chiediamoci, a questo punto, cosa accada:

  1. il rapporto di lavoro costituitosi tra dipendente ed ente di destinazione è per caso nullo o annullabile? Diremmo proprio di no. Non è certamente nullo, perchè la presentazione dell’istanza non appare imperativa, nè paiono rilevabili nullità della causa, mancanza di accordo e forma, illiceità dei motivi e mancanza di oggetto del contratto di lavoro stipulato tra dipendente ed ente di destinazione. Non appare nemmeno annullabile, anche perchè l’azione di annullamento – sul piano civilistico – può essere chiesta solo da una delle parti del contratto. Nel caso di specie, solo l’ente di provenienza potrebbe essere interessato all’annullamento, ma non potrebbe chiederlo al giudice civile. E se chiedesse l’annullamento al Tar, quest’ultimo dovrebbe accertare la propria mancanza di giurisdizione, poichè non trattandosi di assunzioni per concorso, la giurisdizione spetta al giudice del lavoro;
  2. l’ente (nemmeno più) di appartenenza può presentare ricorso al Tar? Come visto sopra, no;
  3. l’ente (nemmeno più) di appartenenza può disporre la destituzione del dipendente passato, senza il proprio consenso, presso l’altra PA? Non sembra e, comunque, poichè tra il dipendente e l’altro ente si è costituito un nuovo rapporto di lavoro, l’ente (non più) di appartenenza non avrebbe alcun potere concreto di destituire nessuno che non sia più alle proprie dipendenze.

Insomma, la fattispecie è regolata in modo così carente e frettoloso che a ben vedere le amministrazioni sono messe in una condizione di passività totale ed assoluta rispetto all’iniziativa dei propri dipendenti, senza praticamente disporre di alcun rimedio: non certo amministrativo (si tratta di gestione del rapporto di lavoro e quindi emergono poteri privatistici), ma nemmeno civile o giurisdizionale.

La destituzione potrebbe avere effetto solo se l’ente di destinazione, laddove informato dell’avvenuta decisione dell’ente di provenienza, ritenesse questo elemento come vizio insanabile alla costituzione del rapporto di lavoro col dipendente: molto difficile che ciò possa avvenire, sul piano pratico, però.

Un caos totale, insomma. Un guazzabuglio normativo, che crea un caos senza fine, come chiarisce accorta dottrina (R. Nobile, “Mobilità dei dipendenti pubblici, organizzazione e ultime grida manzoniane”, in La Gazzetta degli enti locali, ed. Maggioli, del 28.6.2021): “Il legislatore dell’urgenza ha poi completamente omesso di considerare che il personale in servizio è il prodotto dell’attuazione del piano triennale del fabbisogno di personale, che è allegato agli atti di programmazione strategica dell’amministrazione. Ora, consentire la sostanziale libera circolazione del dipendente pubblico entro il circúito della Pubblica Amministrazione significa intervenire pesantemente sui presupposti della corretta gestione programmata. La quale non è semplice fare cose e vedere persone, ossia mera esecuzione, ma consecuzione, ossia, piú propriamente, il prodotto dell’eseguire per conseguire il soddisfacimento dei bisogni degli stakeholder. Ossia – e questo è un argomento che ci è particolarmente caro – del cittadino che paga le tasse, i cui proventi sorreggono e supportano il costo della pubblica amministrazione, ossia proprio di quell’organizzazione che la pressoché libera circolazione dei dipendenti pubblici rischia di trasformare in un circo“.

Il “nulla osta”, che, lo ricordiamo ancora, sopravvive nei comparti istruzione e sanità proprio per evitare che il caos li avvinca, non è mai stato causa di impedimento alla mobilità del personale. Nel corso di questi anni, migliaia di passaggi diretti sono stati acconsentiti da altrettanti rilasci di nulla osta. Esso è null’altro che il doveroso contemperamento delle esigenze connesse ad un’organizzazione del lavoro pubblico soggetta a rigide norme sulla programmazione e sulla stessa spesa per assunzioni, e le legittime aspirazioni, da un lato, dei dipendenti di trovare migliori collocazioni senza dover passare per i concorsi, e, dall’altro, delle altre amministrazioni, affascinate dalla possibilità di acquisire personale già esperto senza l’affanno del reclutamento tramite concorso.

Il legislatore non ha nemmeno pensato alle conseguenze davvero paradossali determinate dalla liberalizzazione della mobilità. Si pensi a comuni o regioni che non risultino rispettare le soglie del rapporto spesa di personale/media triennale delle entrate previste dalle norme di attuazione dell’articolo 33, commi 1 e 2, del d.l. 34/2019, convertito in legge 58/2019. Tali enti potrebbero dover subire la mobilità in uscita di propri dipendenti, senza neppure poter apprestare alcun intervento volto a ripristinare la cessazione del rapporto di lavoro. Ma, anche gli enti virtuosi potrebbero incontrare difficoltà nel rimpiazzo, se la Corte dei conti non dovesse prendere atto – evento ancora non avvenuto – che il nuovo sistema di determinazione delle facoltà assunzionali deve consentire di assumere nuovo personale in sostituzione di quello cessato già nello stesso anno dell’evento della cessazione (nel caso di specie, per mobilità in uscita) e non l’anno dopo: tanto a maggior ragione se la mobilità in uscita non è più frutto di una libera scelta organizzativa e programmatica, ma frutto di una norma che di fatto impone alle amministrazioni locali di subire la fuoriuscita del proprio personale.

La norma è stata scritta in modo velleitario e scadente sul piano tecnico giuridico, da chi si è mostrato preso dalla fascinazione dell’argomento secondo il quale il datore pubblico deve essere capace di motivare i propri dipendenti, anche offrendo loro condizioni di lavoro ottimali e tali appunto da trattenerlo e disincentivarlo dalla mobilità esterna. Come farebbe un privato.

Un’argomentazione affascinante, ma falsa. La mobilità “territoriale” di chi vorrebbe riavvicinarsi alle proprie terre d’origine non è minimamente influenzata, nè influenzabile, dalla capacità eventuale di seduzione lavorativa del datore. Lo stesso vale per mobilità dovute a ragioni di carriera (in un ente di piccole dimensioni la “carriera” è oggettivamente meno percorribile di uno con ampia disponibilità di fabbisogni lavorativi) o a ragioni di “incompatibilità” presunta o vera che sia tra lavoratore e datore. Per altro, mettere a repentaglio la già difficilissima stabilità organizzativa di enti già piagati da decenni di tetti alle assunzioni, solo per garantire soggettive sensazioni di conflitto o facilitare soggettive aspirazioni di carriera, appare privo di senso. Giusto consentire ai dipendenti percorsi di carriera e le migliori condizioni lavorative e conciliative (a proposito: perchè espandere all’inverosimile la mobilità e al contempo nei fatti limitare lo smartworking?), ma il tutto andrebbe regolato sempre considerando anche gli interessi collettivi e il sempre difficile bilanciamento tra quelli di parte e quelli generali, che comunque dovrebbe considerare la specifica rilevanza di quelli generali.

Il rapporto di lavoro pubblico, è giusto dirlo, gode di molte tutele. Introdurre anche il diritto ad andar via come e quando si vuole da ogni ente pubblico, appare troppo. Fin troppo.

Non si dica che anche nel privato avviene questo e che la norma è idonea a creare un “mercato” come con Linkedin.

Certo, il lavoratore privato può cambiare lavoro come e quando vuole, ma:

  1. non ha una rete di protezione, legata al “trasferimento”: deve dimettersi dal datore di lavoro precedente, per essere assunto da quello successivo;
  2. deve fare i conti con eventuali clausole di esclusiva e risarcimenti connessi;
  3. quando si dimette, deve sottoporsi a tutte le connesse pratiche amministrative, necessarie per altro perchè l’assunzione presso il nuovo datore difficilmente può essere contestuale (e dunque, comunicazioni obbligatorie, modulo on line per le dimissioni volontarie, comunicazioni all’Inps e alle casse previdenziali);
  4. rischia del proprio, perchè l’interruzione del rapporto di lavoro implica il pagamento di ferie arretrate e soprattutto del Tfr: non si pensi che sia così facile ottenere dalle aziende tale liquidità;
  5. passa, oggi come oggi, se si tratti di lavoratore con una certa anzianità, da un regime di tutela più elevato, che comprende l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ad un regime meno tutelato, che a partire dalle assunzioni disposte dal 2015 in poi non prevede più l’applicazione dello Statuto.

Il datore privato, inoltre, a differenza di quello pubblico non è soggetto a nessuna delle decine di regole, condizioni, procedure, programmazioni e vincoli (programma dei fabbisogni, Dup, Peg, piano delle pari opportunità, approvazione del bilancio, approvazione del rendiconto, rispetto dei tempi di pagamento, rispetto delle norme di cui alla legge 68/1999, solo per citarne alcune relative agli enti locali), nè deve assumere per concorso. Può, quindi, molto velocemente e talvolta persino con costi inferiori coprire la fuoriuscita, senza nessuna Corte dei conti o Ragioneria generale dello stato che incombano sulle scelte operative aziendali.

E’ la conferma che chi legifera facendosi influenzare dalle idee di scimmiottatori del “privato” produce solo norme caotiche, atecniche e fallimentari.

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