16/06/2021 – Sanatoria edilizia: il Consiglio di Stato spiega la doppia conformità

Il Consiglio di Stato entra nel merito della sanatoria giurisprudenziale e dell’accertamento di conformità di cui agli artt. 34 e 36 del DPR n. 380/2001.

Tra gli articoli più discussi del DPR n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) è possibile annoverare il 34, che prevede la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, e il 36 che disciplina nel nostro ordinamento l’accertamento di conformità, ovvero l’istituto che consente la sanatoria edilizia di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, in difformità da esso o in assenza di segnalazione certificata di inizio attività.

Quest’ultima disposizione prevede che è possibile ottenere il permesso di costruire in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. La cosiddetta doppia conformità, su cui tanto si sta discutendo per la redazione della Disciplina delle Costruzioni che dovrà sostituire il DPR n. 380/2001, e su cui è intervenuta una copiosa giurisprudenza per chiare alcuni delicati punti.

Come nella sentenza n. 4049 del 25 maggio 2021 con la quale il Consiglio di Stato ha chiarito alcuni concetti relativi alla doppia conformità e alla sanatoria giurisprudenziale. Nel caso di specie, il ricorrente ha proposto ricorso per la riforma di una decisione di primo grado che aveva dato ragione all’amministrazione per il diniego della richiesta di sanatoria edilizia e per non aver scelto l’amministrazione di comminare una sanzione pecuniaria al posto della demolizione che avrebbe causato pregiudizio per le opere conformi.

Ma, andiamo con ordine.

Partendo dal fatto, e questa cosa il ricorrente non l’ha mai smentita, che l’opera presentava varie difformità alla normativa vigente (dalla superficie alla volumetria, passando per la distanza dai confini e dalla strada d’uso, oltre che la destinazione d’uso), la richiesta di sanatoria non possedeva il requisito della doppia conformità richiesto dall’art. 36 del Testo Unico Edilizia. Questo perché, per ammettere la sanatoria occorre comunque “la conformità dell’opera abusiva alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui l’amministrazione provvede“.

L’art. 36 prevede, infatti, che “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 23, comma 1, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda“.

Nel caso analizzato, come è facile comprendere, la condizione della doppia conformità viene a mancare. Ma non solo, perché i giudici rilevano che non è neanche possibile rilasciare un permesso di costruire in sanatoria condizionato alla esecuzione di opere finalizzate a riportare il fabbricato alla legalità. “Questo – dicono i giudici – contrasterebbe con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica“. In ogni caso “il requisito della doppia conformità, deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità“.

Secondo il ricorrente, però, la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità. E per questo ha richiesto la sanzione alternativa alla demolizione prevista dall’art. 34, comma 2 per il quale “Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale“.

La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria (la c.d. fiscalizzazione dell’abuso o sanatoria giurisprudenziale) “deve essere valutata dall’amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto a quella di adozione dell’ordine di demolizione“. E quindi, aggiungono i giudici, questo esclude che “l’eventuale inerzia serbata dal Comune dopo l’emanazione dell’ordine di demolizione possa ridondare sulla legittimità di quest’ultimo“.

Il fatto che un comune perda molto tempo a esercitare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia, non fa sorgere al privato un legittimo affidamento del bene abusivo. Lo spiega bene la sentenza: “Il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita, per cui anche in tal caso l’ordine di demolizione assume carattere doveroso e vincolato e la sua emanazione non richiede alcuna motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell’abuso“. E sottolineano ormai una cosa ben nota: l’ordinanza di demolizione non necessita di previa comunicazione di avvio del procedimento. L’appello è stato totalmente respinto.

N. 04049/2021 REG.PROV.COLL.

N. 09878/2020 REG.RIC.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9878 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da: Michele Troisi, rappresentato e difeso dall’avvocato Gherardo Maria Marenghi, con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;

contro

Comune di Paternopoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ernesto Matarazzo, con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania – Salerno (Sezione Seconda) n. 01956/2020, resa tra le parti, concernente l’ordine di chiusura di un’attività artigianale, la demolizione di un fabbricato e un diniego di sanatoria;

Visti il ricorso in appello, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Paternopoli; 

Visti tutti gli atti della causa;

Udita la relazione del Cons. Alessandro Maggio all’udienza telematica del giorno 20/5/20201, svoltasi in videoconferenza, ai sensi degli artt. 4, comma 1, D.L. 30/4/2020 n. 28 e 25, comma 2, del D.L. 28/10/2020, n. 137, mediante l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”, come da circolare 13/3/2020, n. 6305 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso al T.A.R. Campania – Salerno il sig. Michele Troisi, titolare di un’officina meccanica esercitata in un edificio ubicato in zona agricola del Comune di Paternopoli, ha impugnato l’ordine di chiusura della detta attività (ordinanza 19/2/2019, n. 1), il provvedimento con cui è stata ingiunta la demolizione delle parti abusive del menzionato fabbricato (ordinanza 11/3/2019, n. 4), nonché il diniego di accertamento di conformità del contestato illecito edilizio (determinazione 21/5/2019, n. 2510).

L’adito Tribunale, con sentenza 16/12/2020, n. 1956, ha accolto il gravame limitatamente all’ordine di chiusura dell’attività, respingendolo per il resto.

Il sig. Troisi ha, quindi, appellato i capi di sentenza ad esso sfavorevoli con ricorso seguito da motivi aggiunti. Per resistere all’appello si è costituito in giudizio il Comune di Paternopoli.

Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive. All’udienza telematica del 20/5/2021 la causa è passata in decisione.

Può prescindersi dall’esame dell’eccezione con cui il comune ha dedotto l’inammissibilità dell’appello per l’asserita mancanza di specifiche censure contro la sentenza gravata, essendo l’impugnazione da respingere nel merito.

Occorre premettere che ricorso introduttivo della presente fase d’appello e successivi motivi aggiunti, possono essere esaminati congiuntamente, atteso che le censure con essi prospettate sono in sostanza le medesime. Con la prima doglianza del ricorso introduttivo e la terza dei motivi aggiunti, si denuncia che il Tribunale avrebbe errato a ritenere che ai fini dell’accoglimento della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 6/6/2001, n. 380 occorra la doppia conformità urbanistica dell’opera realizzata.

E invero, il giudice di prime cure non avrebbe considerato né l’impegno assunto dall’appellante a realizzare una serie di interventi atti a ricondurre a liceità il fabbricato, né la possibilità di accordare la c.d. sanatoria giurisprudenziale in base alla quale, ai fini dell’accoglimento della domanda, non occorrerebbe la doppia conformità urbanistica, qualora l’opera rispetti la disciplina vigente al momento della presentazione dell’istanza. La censura è infondata.

Come si ricava dall’avversato provvedimento di diniego l’amministrazione appellata, senza essere smentita, ha rilevato che l’opera oggetto della richiesta di sanatoria non era conforme sotto svariati profili (superficie, volumetria, distanza dai confini e dalla strada pubblica, destinazione d’uso) alla normativa urbanistica in vigore. Già questo sarebbe sufficiente a sorreggere la reiezione dell’istanza, giacché anche in base all’orientamento invocato dall’appellante, favorevole ad ammettere la c.d. sanatoria giurisprudenziale, occorrerebbe, comunque, la conformità dell’opera abusiva alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui l’amministrazione provvede, condizione questa, per l’appunto, assente nella fattispecie.

Né, contrariamente a quanto l’appellante mostra di ritenere, sarebbe ammissibile, alla luce della disciplina della materia, il rilascio di una concessione in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie, anche laddove finalizzate a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità.

Tanto, infatti, contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica (Cons. Stato, Sez. IV, 8/9/2015, n. 4176).

A prescindere dalle sopra indicate considerazioni è dirimente osservare che l’indirizzo favorevole alla sanatoria giurisprudenziale è ormai recessivo in giurisprudenza, essendosi consolidato l’orientamento opposto che nega cittadinanza al detto istituto rilevando che il requisito della doppia conformità, deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità (Cons. Stato, Sez. VI, 17/2/2021, n. 1457; 4/1/2021, n. 43; 9/9/2019, n. 6107; 11/9/2018, n. 5319; 18/7/2016, n. 3194; 5/6/2015 n. 2784; Sez. II, 25/5/2020, n. 3314; Sez. IV, 26/4/2006, n. 2306).

Col secondo mezzo dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado e col primo dei motivi aggiunti ad esso, si lamenta che il Tribunale, nel pronunciarsi sulla legittimità dell’impugnato ordine di demolizione, avrebbe errato a ritenere inapplicabile alla fattispecie l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.

Infatti, in base a tale norma, quando, come nella fattispecie, “la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione”.

Ove poi, come sostiene il Comune, l’accertamento dell’impossibilità di demolire “senza pregiudizio della parte eseguita in conformità” dovesse avvenire solo in fase esecutiva, risulterebbe palese l’inerzia al riguardo mantenuta del Comune, che per due anni non avrebbe provveduto alla fiscalizzazione dell’abuso. La censura è priva di pregio.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria (c.d. fiscalizzazione dell’abuso) deve essere valutata dall’amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto a quella di adozione dell’ordine di demolizione (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 1/3/2021, n. 1743; 3/2/2021, n. 995; 12/12/2019, n. 8458; 9/7/2018, n. 4169; 30/3/2017, n. 1481; Sez. II, 17/2/2021, n. 1452; 30/3/2020, n. 2160).

Il ché esclude che l’eventuale inerzia serbata dal comune dopo l’emanazione dell’ordine di demolizione possa ridondare sulla legittimità di quest’ultimo.

Col terzo motivo del ricorso introduttivo di questo grado di giudizio e col secondo dei motivi aggiunti, ci si duole del fatto che il giudice di prime cure avrebbe ritenuto irrilevante il lungo tempo trascorso tra la commissione dell’illecito edilizio e l’adozione del provvedimento repressivo.

Infatti, in un piccolo centro, come è il comune appellato, l’inerzia nell’esercizio dei poteri di vigilanza urbanistico-edilizia protrattasi per un notevole lasso di tempo farebbe sorgere in capo al privato un legittimo affidamento, che imporrebbe al Comune un onere di motivazione rinforzata circa l’interesse pubblico all’emanazione del provvedimento sanzionatorio. I

n ogni caso dovrebbero essere assicurate le garanzie partecipative.

La censura è infondata.

In base a un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita, per cui anche in tal caso l’ordine di demolizione assume carattere doveroso e vincolato e la sua emanazione non richiede alcuna motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso (Cons. Stato, A.P. 17/10/2017, n. 9, Sez. VI, 15/2/2021, n. 1352; 22/4/2020, n. 2557; 4/10/2019, n. 6720; 8/4/2019, n. 2292; 5/11/2018, n. 6233; 26/3/2018, n. 1893; 23/11/2017, n. 5472 e 5/1/2015, n. 13; Sez. V, 26/2/2021, n. 1637; Sez. II, 19/6/2019, n. 4184; Sez. IV, 11/12/2017, n. 5788).

Né le esposte conclusioni possono mutare in conseguenza delle ridotte dimensioni del comune sul cui territorio insistono le opere abusive, atteso che, nelle ipotesi in parola, l’inconfigurabilità di qualunque legittimo affidamento, dipende unicamente dalla natura illecita dell’intervento edilizio che, all’evidenza, non è influenzata dall’estensione dell’ente territoriale ove si è verificato l’abuso.

Deve considerarsi, altresì, insussistente la prospettata violazione delle pretese partecipative. Infatti, per pacifica giurisprudenza, i provvedimenti aventi natura vincolata, quali l’ordinanza di demolizione, non necessitano di previa comunicazione di avvio del procedimento, ciò in quanto non è consentito all’Amministrazione compiere valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene (fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 13/5/2020, n. 3036; 25/2/2019, n. 1281; Sez. V, 12/10/2018, n. 5887; Sez. IV, 27/5/2019, n. 3432; Sez. II, 29/7/2019, n. 5317 e 26/6/2019, n. 4386).

L’appello va, pertanto, respinto.

Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, liquidandole forfettariamente in complessivi € 4.000/00 (quattromila), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2021 con l’intervento dei magistrati:

Sergio De Felice, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore

Giordano Lamberti, Consigliere

Francesco De Luca, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE Alessandro Maggio

Sergio De Felice

IL SEGRETARIO

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto