08/06/2021 – Alla Corte costituzionale la disciplina dell’obbligo di rappresentatività di entrambi i sessi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti senza previsione di sanzione in caso di elusione

Elezioni – Lista – Comuni con meno di 5.000 abitanti – Rappresentatività di entrambi i sessi – Elusione dell’obbligo – Art. 71, comma 3 bis, d.lgs. n. 267 del 2000 – Omessa previsione dell’esclusione – Violazione artt. 51, primo comma, 3, secondo comma, 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12 – Rilevanza e non manifesta infondatezza.  

​​​​​​      E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 51, primo comma, 3, secondo comma, 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 71, comma 3 bis, d.lgs. n. 267 del 2000 nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, nonché dell’art. 30, lett. d) bis e lett. e), d.P.R. n. 570 del 1960 nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti per contrasto con agli artt. 51, primo comma, 3, secondo comma, 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12 (1). 

(1) Ha premesso la Sezione che nell’attuale assetto normativo, determinato da successivi interventi legislativi e dalle pronunce della Corte costituzionale, sono individuabili tre livelli di tutela crescente la cui applicazione dipende dal numero di abitanti del Comune interessato dalla competizione elettorale. 

In un’ottica decrescente: a) nel caso dei Comuni con più di 15.000 abitanti il legislatore, attraverso il combinato disposto degli artt. 73, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 e art. 33, comma 1, lett. d-bis, d.P.R. n. 570 del 1960, ha predisposto il massimo livello di protezione con due differenti meccanismi, uno di riduzione e l’altro di esclusione. Ed invero, l’art. 2, comma 1, lett. d), al punto 1), del. n. 215 del 2012 – aggiungendo un periodo al comma 1 dell’art. 73, d.lgs. n. 267 del 2000, ha previsto che nessuno dei due sessi può essere rappresentato in ciascuna lista in misura superiore a due terzi dei candidati (ammessi). Il calcolo viene effettuato secondo una modalità precisata dalla stessa norma. L’art. 2, comma 2, lettera b), punto 1) della legge, modificando l’art. 33, comma 1, d.P.R. n. 570 del 1960, ha prescritto che la Commissione elettorale circondariale verifichi il rispetto della suddetta previsione sulle quote di genere e, se necessario, riduca la lista cancellando, partendo dall’ultimo, i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati. In questa ipotesi trova applicazione il meccanismo di esclusione della lista previsto dall’art. 33, comma 1, lett. d-bis cit: qualora questa, anche dopo tale riduzione, contenga un numero di candidati ammessi inferiore a quello previsto, la Commissione stessa procederà alla ricusazione della lista; b) nei Comuni con popolazione tra i 5.000 e i 15.000 abitanti, gli artt. 71, comma 3-bis,  d.lgs. n. 267 del 2000 e 30, comma 1, lett. d-bis, d.P.R. n. 570 del 1960, prevedono un livello di protezione “intermedio”. In caso di violazione delle disposizioni a tutela della parità tra sessi, la lista viene ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati, procedendo in tal caso dall’ultimo della lista. La riduzione della lista non può, in ogni caso, determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto per l’ammissione della lista medesima; c) nel caso dei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti l’unica previsione di riequilibrio di genere è contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. c), al punto 1), l. n. 215 del 2012 che, aggiungendo il comma 3-bis all’art. 71, d.lgs. n. 267 del 2000, enuncia, al primo periodo, il principio secondo cui “Nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”. La rubrica della norma “elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti” consente con certezza di estendere la sua efficacia ai Comuni che presentino tale densità anagrafica e tuttavia non è prevista dalla vigente normativa alcuna misura sanzionatoria a carico delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi.  

L’art. 71, comma 3-bis, d.lgs. n. 267 del 2000, pur dopo avere espressamente previsto l’obbligo di assicurare la parità di genere nelle elezioni di qualsiasi Comune, ha chiaramente e volutamente omesso di disciplinare le conseguenze della violazione di tale obbligo nei Comuni più piccoli. Un’estensione analogica della normativa prevista per i Comuni più grandi equivarrebbe ad un’attività di creazione legislativa che farebbe sconfinare la Sezione dai limiti dell’attività giurisdizionale. Ad un’interpretazione estensiva si oppongono peraltro, oltre al dato letterale già messo in rilievo, argomentazioni di carattere sistematico desumibili dai lavori preparatori alla l. n. 215 del 2012 che, ha inciso profondamente sulla materia. 

Ad una interpretazione compatibile con il dettato costituzionale non si potrebbe giungere neanche attraverso l’eventuale disapplicazione della normativa de qua per contrasto con l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rubricata “parità tra donne e uomini”, a mente del quale “La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. La norma infatti non presenta efficacia immediata e diretta, quanto meno con riferimento alla legislazione promozionale, rimettendo al legislatore nazionale la scelta dei migliori strumenti per l’affermazione del principio di parità. Mancano quindi le condizioni che consentono al giudice di disapplicare la norma interna per contrasto con il diritto comunitario.

Deve quindi concludersi che la questione di legittimità costituzionale che la Sezione intende sollevare è rilevante e non risolvibile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata del dettato normativo.

Ha ancora chiarito la Sezione che la questione della parità di genere rispetto all’accesso alle cariche politiche ha generato un ampio e vivace dibattito in seno all’Assemblea Costituente. E’ noto che furono predisposte due versioni della disposizione di cui all’art. 51, entrambe con l’intento comune di riconoscere una piena capacità giuridica di diritto pubblico alla donna. Le conseguenze del riconoscimento di tale diritto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, rappresenta “un diritto politico fondamentale con i caratteri dell’inviolabilità di cui all’art 2 Cost” (ex multis, sentenze n. 25 del 2008, n. 288 del 2007, n. 160 del 1997, n. 344 del 1993, n.539 del 1990, n. 571 del 1989, n. 235 del 1988, da ultimo richiamate nella sentenza n. 48 del 2021) si comprendono solo se lo stesso si contestualizza nel periodo storico della sua formulazione. La visione della donna come strumento di protezione dell’identità nazionale quale moglie e madre cedette il passo alla rimozione degli ostacoli che impedivano (e impediscono) l’accesso a tutti gli ambiti della vita pubblica del Paese a condizioni di parità con gli uomini. 

Nell’ambito degli interventi di promozione della parità di genere occorre segnalare il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità). Ratio della novella, ai sensi dell’art. 1 del Codice, è quella di predisporre “misure volte ad eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo”. Dopo aver definito la nozione di discriminazione diretta ovvero indiretta, all’art. 25, il Codice si occupa – tra le altre cose – degli interventi promozionali finalizzati a contrastarle.  

Fulcro della disciplina in commento è rappresentato infatti dall’art. 42, rubricato “adozione e finalità delle azioni positive”. Tali sono le azioni predisposte per rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell’ambito della competenza statale.  

Peraltro, è proprio in merito all’art 3 Cost. che viene in rilievo la premessa sul sindacato della Corte nella materia elettorale. Il giudizio, secondo quanto già detto, “deve svolgersi attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti”. E ancora, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale il trattamento si configura come “discriminatorio” quando la differenziazione di disciplina sia “ingiustificata”, “formalmente contraddittoria” ovvero “irrazionale, secondo le regole del discorso pratico” (Sentenze n. 155 del 2014; n. 108 del 2006; n. 340 e n. 136 del 2004). Se è vero – come è – che ogni discriminazione è una differenza, non è vero il contrario. Solo alcune differenze sono qualificabili come discriminazione e ciò in presenza di determinati presupposti.  Nel caso di specie appare irragionevole non già l’avere previsto da parte del legislatore differenti modalità di partecipazione minima dei candidati di sesso differente in relazione alle dimensioni del Comune, ma il non avere indicato alcun vincolo nella formazione delle liste elettorali nei Comuni fino a 5.000 abitanti e l’ avere privato gli aspiranti candidati agli organi elettivi di tali Comuni di ogni forma di tutela avverso le violazioni del principio di parità di genere nelle competizioni elettorali, principio che – si è detto – è stato per essi espressamente affermato dallo stesso legislatore. 

In tal modo appare violato l’art. 3 Cost. con riferimento alla predisposizione di regimi di tutela differenziati con riferimento al diritto fondamentale all’elettorato passivo inteso, come già più volte ribadito, nei termini di “diritto politico fondamentale che l’art 51 Cost garantisce ad ogni cittadino con i caratteri propri dell’inviolabilità ex art. 2 Cost”. 

In tema di parità di genere, non può dirsi supportata da razionalità la misura che esclude dall’ambito della sua applicazione milioni di cittadini – e specialmente di cittadine – per il solo fatto di vivere in aree urbane a bassa densità demografica. Nessuna evidenza statistica, sociologica o scientifica esclude che in questi Comuni sia superfluo un intervento promozionale del legislatore. Intervento che, anzi, può risultare talora indispensabile per le minori opportunità che alcuni piccoli o piccolissimi offrono rispetto alle grandi aree urbane.

Analoghe riflessioni merita la censura avente per oggetto l’art. 117, comma primo, in riferimento all’art 14 della CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12. L’art. 14 della CEDU dispone che: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione.

​​​​​​​La discriminazione che viene a realizzarsi impatta su due piani. Tra generi, quello maschile (statisticamente più rappresentato) e quello femminile da un lato e nello stesso genere femminile tra i Comuni con più di 5.000 abitanti in cui è comunque assicurata la presenza e quelli con meno di 5.000 abitanti – che, occorre ribadirlo ancora una volta, sono la quasi totalità – in cui il genere femminile rischia di rimanere completamente escluso dalla vita politica con un vulnus che coinvolge, in un certo qual modo, anche il principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione. La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che: “L’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi elettivi garantisce l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato” (Tar Lazio, sez. II, 25 luglio 2011, n. 6673, richiamata nella sentenza Tar Lazio 4706 del 2021).

Cons. St., sez. III, ord., 4 giugno 2021, n. 4294 – Pres. Corradino, Est. Santoleri

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