Print Friendly, PDF & Email

SOMMARIO: 1. Ordinanza di rimessione n. 6925/2020; 2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria; 3. Conclusioni.

Ordinanza di rimessione n. 6925/2020.

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con ordinanza n. 6925 del 10.11.2020, rilevando un contrasto giurisprudenziale,  ha rimesso all’Adunanza Plenaria le questioni di principio relative agli effetti della nomina del commissario ad acta sui poteri dell’amministrazione nel giudizio avverso il silenzio-inadempimento di cui all’art.117 c.p.a.

Il Collegio rimettente si domandava, altresì, se, in linea generale, nel regime giuridico attuale, sia possibile individuare una disciplina unitaria, composta da principi e regole comuni, per il commissario ad acta, in relazione alle diverse tipologie di giudizi nei quali esso è nominato (giudizio di ottemperanza, giudizio sul silenzio e giudizio cautelare).

L’ordinanza di rimessione si è occupata di riportare i differenti orientamenti giurisprudenziali sulla questione di diritto attinente alla conservazione o meno del potere di provvedere dell’amministrazione in caso di nomina del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza, eventualmente estendibile anche a quello avverso il silenzio della P.A., a seconda di quello che riterrà l’Adunanza Plenaria.

Secondo una prima risalente impostazione, che non risulta poi espressamente ribadita, il potere-dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla pronuncia verrebbe meno già dopo la nomina del commissario ad acta (Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1989, n. 165).

Per un altro orientamento, maggioritario nella giurisprudenza più recente, il cd. esautoramento dell’organo inottemperante (e, dunque, relativamente alla fattispecie in esame, l’esautoramento dell’organo inadempiente) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale o, per dirla diversamente, dopo il suo insediamento che attuerebbe il definitivo trasferimento del munus pubblico dall’ente che ne è titolare per legge a quello che ne diviene titolare in ragione della sentenza del giudice amministrativo (Cons. Stato, Sez. V, 5 giugno 2018, n. 3378; Sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1300; Sez. IV, 9 novembre 2015, n. 5081; Sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5014).

La conseguenza di entrambi i detti orientamenti è che il provvedimento adottato tardivamente dall’amministrazione è nullo per difetto di attribuzione ai sensi dell’art. 21-septies l. n. 241/1990.

Secondo un opposto orientamento, meno diffuso nella giurisprudenza più recente, ma apprezzato dalla dottrina, la competenza commissariale rimane concorrente con quella dell’amministrazione, la quale ultima continua ad operare nell’ambito delle attribuzioni che la legge le riconosce e che non prevede siano estinte con l’insediamento del commissario (Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764; Sez. V, 21 novembre 2003, n. 7617; Sez. V, 8 luglio 1995, n. 1041).

Il Collegio ha osservato che tale ultimo orientamento potrebbe risultare supportato da una serie di principi di rilievo anche costituzionale.

 

In primo luogo, i giudici rimettenti ritengono che si potrebbe richiamare il principio di legalità in connessione all’art. 97 Cost., il quale si riflette nella individuazione delle competenze delle autorità amministrative: in presenza dei relativi presupposti, l’amministrazione ha il potere-dovere di esaminare le istanze sottoposte al suo esame, sicché solo una disposizione di legge (o una sentenza di un giudice, di per sé basata sulla legge) può incidere sull’ambito delle sue competenze.

Sotto tale profilo, si potrebbe affermare che in linea di principio il giudice amministrativo – in sede di nomina del commissario ad acta – con una statuizione espressa possa anche decidere nel senso che l’organo amministrativo istituzionalmente competente, superata una certa data e dopo la nomina o l’insediamento del commissario, non possa più provvedere, sembrando, però, che una tale statuizione non potrebbe che costituire una extrema ratio, in quanto l’organo competente inadempiente sarebbe premiato con una sostanziale deresponsabilizzazione.

Tuttavia, in assenza di una chiara e univoca determinazione del giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente, si potrebbe continuare a considerare perdurante la competenza attribuita in via ordinaria dalla legge, militando in tal senso il principio di legalità sulla articolazione delle competenze, nonché il principio di certezza dei rapporti di diritto pubblico.

In secondo luogo, l’ordinanza di rimessione ha richiamato il principio inerente alla responsabilità dei titolari dei pubblici uffici in connessione all’art. 28 Cost., il quale si riflette nella individuazione dei loro doveri e delle conseguenze della relativa violazione: l’affermazione del principio della perdita del potere (e delle relative responsabilità), a seguito della nomina o dell’insediamento del commissario, potrebbe in concreto comportare un decisivo disincentivo allo svolgimento del proprio dovere in sede amministrativa e a preordinate mancate esecuzioni delle pronunce del giudice amministrativo, con una sostanziale deresponsabilizzazione del funzionario.

I giudici rimettenti propendono tale ultima tesi minoritaria della conservazione del potere in capo all’amministrazione, sostenendo che  “salva una diversa, chiara e univoca statuizione del giudice che ha nominato il commissario, l’organo istituzionalmente competente possa e debba provvedere: del resto, ogni possibile divergenza o mancata collaborazione tra questi ed il commissario può essere rapidamente risolta, se del caso, mediante la richiesta di chiarimenti al giudice amministrativo”.

Per il caso in cui, invece, si ritenga che l’organo istituzionalmente competente perda i suoi poteri-doveri a seguito della nomina o dell’insediamento del commissario, il Collegio rimettente dubita fortemente che il suo atto tardivo si possa considerare nullo per difetto assoluto di attribuzione, ex art. 21-septies l. n. 241/1990, il quale riguarda i casi i cui una determinata autorità amministrativa non può emanare il provvedimento, perché neppure può attivare il relativo procedimento, non avendo alcuna attribuzione in materia.

Ben diversa è l’ipotesi della nomina del commissario ad acta in caso di inadempimento della P.A., in cui senz’altro vi è il potere-dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento con apposito provvedimento, essendo la stessa pienamente titolare della competenza in materia.

L’ordinanza di rimessione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., ha posto all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:

a) se la nomina del commissario ad acta(disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, del c.p.a.) oppure il suo insediamento comportino – per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio – la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza, e dunque se l’amministrazione possa provvedere ‘tardivamente’ rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad actaeserciti il potere conferitogli (e, nell’ipotesi affermativa, quale sia il regime giuridico dell’atto del commissario ad acta, che non abbia tenuto conto dell’atto ‘tardivo’ ed emani un atto con questo incoerente);

b) per il caso in cui si ritenga che sussista – a partire da una certa data – esclusivamente il potere del commissario ad acta, quale sia il regime giuridico dell’atto emanato ‘tardivamente’ dall’amministrazione.

Pronuncia dell’Adunanza Plenaria.

L’Adunanza Plenaria, nell’incipit della parte relativa al diritto della pronuncia, statuisce che l’amministrazione, risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perde il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto.

Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell’amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece.

La sentenza in commento, al fine di motivare la suddetta presa di posizione sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione, parte dal dato normativo della qualifica soggettiva del commissario ad acta: l’art. 21 c.p.a. , nel Capo VI dedicato agli ausiliari del giudice, prevede testualmente che “nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta”.

Accanto a tale norma, le altre ipotesi in cui il codice del processo amministrativo prevede tale nomina sono rappresentate da: art. 34, co.1, lett. e) c.p.a. in tema di sentenze di merito; art. 114, co. 4, lett. d) c.p.a. in materia di giudizio di ottemperanza;  art. 117, co. 3, c.p.a. in relazione al giudizio avverso il silenzio-inadempimento della P.A.; art. 59 c.p.a., attinente alla esecuzione delle misure cautelari.

Dall’esame della lettera delle disposizioni innanzi riportate, per il Supremo Collegio appare evidente la natura del commissario ad acta quale ausiliario del giudice, il quale procede alla sua nomina laddove debba sostituirsi all’amministrazione, rilevando, altresì, la sussistenza di una disciplina unitaria in tutte le citate ipotesi di nomina giudiziale, rispondendo, dunque, affermativamente all’ulteriore questione posta incidentalmente dall’ordinanza di rimessione.

La pronuncia in esame chiarisce che la nomina del commissario ad acta si fonda su due presupposti normativamente indicati e, precisamente: la sostituzione del giudice amministrativo alla P.A. e che tale circostanza si verifichi nell’ambito della sua giurisdizione, così come definita dalla legge.

Tali presupposti per la nomina del commissario ad acta, definiscono anche il perimetro dei suoi compiti, che, quindi, coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce.

Diversamente, dunque, dagli altri ausiliari del G.A., quali il verificatore ed il consulente tecnico di cui all’art.19 c.p.a., che assistono il giudice per il compimento di singoli atti o per tutto il processo e svolgono compiti strumentali e antecedenti alla sentenza, il commissario ad acta svolge funzioni ausiliarie del giudice dopo la decisione, laddove questi, nell’ambito della propria giurisdizione, debba sostituirsi all’amministrazione.

La fonte del potere del commissario ad acta è riconducibile: quanto all’investitura, all’atto di nomina; quanto al contenuto, alla sentenza o comunque al provvedimento giurisdizionale della cui esecuzione si tratta; quanto alla funzione, all’attuazione delle decisioni giurisdizionali, così da rendere concreta ed effettiva della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti dell’amministrazione ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., nonché degli artt. 6 e 13 della CEDU.

 

Lo stesso Collegio continua nella sua pronuncia, affermando che l’esaminata disciplina normativa, nel definire espressamente il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo straordinario dell’amministrazione, la stessa non potendo essere riconosciuta al medesimo neanche in via aggiuntiva (in tal senso, superando quanto affermato dall’ A.P. n. 7/2019, che riconosceva, invece, al commissario una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”).

In particolare, il commissario ad acta, nominato dal giudice, non può essere considerato quale organo straordinario dell’amministrazione per le seguenti ragioni: per un verso, la natura di ausiliario del giudice è l’unica normativamente riconosciuta e definita; per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l’ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale; per altro verso ancora, il compito del commissario non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice; da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale.

La qualifica soggettiva di ausiliario del giudice del commissario ad acta ex art.21 c.p.a. non è posta in dubbio dal fatto che il medesimo, nel dare esecuzione alla decisione del giudice, debba adottare atti amministrativi  e ciò anche effettuando, in luogo dell’amministrazione inadempiente, valutazioni e scelte normalmente rientranti nell’esercizio del potere discrezionale della stessa.

Infatti, il commissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro cui l’amministrazione è stata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione, fino ai provvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nella sentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione.

Tuttavia, in ognuno  dei casi considerati, il potere esercitato dal commissario ad acta, ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare, in quanto il momento genetico non si ritrova nella norma attributiva del potere all’amministrazione, bensì nella sentenza, ed il momento funzionale non è (almeno direttamente) rappresentato dalla cura dell’interesse pubblico, bensì dall’effettività della tutela giurisdizionale.

In altri termini, il commissario sostituisce al potere amministrativo l’esercizio di un potere analogo ma non identico, poiché, come precisa l’Adunanza Plenaria, esso trova fondamento nella decisione del giudice e ha la sua giustificazione funzionale nell’effettività della tutela giurisdizionale.

Ed è, altresì, significativo che i poteri del commissario siano tradizionalmente ricondotti alla giurisdizione di merito del giudice amministrativo, il quale, anche nell’adozione di provvedimenti in luogo dell’amministrazione, continua ad esercitare attività giurisdizionale e non amministrativa.

Per tali ragioni (oltre che per una opportuna e condivisibile esigenza di speditezza ed economicità dei mezzi processuali), il codice del processo amministrativo rimette al giudice dell’ottemperanza (art. 114, comma, 6) la decisione sulle questioni “inerenti agli atti del commissario ad acta” e al giudice del silenzio (art. 117, comma, 4) la decisione sulle questioni “relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto”.

 

In ambedue le ipotesi, proprio perché gli atti adottati non sono espressione di autonomo esercizio di potere amministrativo propriamente detto, la tutela avverso gli stessi deroga alle ordinarie regole del giudizio di cognizione ed è affidata al giudice del quale il commissario che ha adottato gli atti contestati costituisce l’ausiliario.

Alla luce di quanto esposto, l’Adunanza Plenaria ha affermato:

a) il commissario ad acta è solo ed esclusivamente ausiliario del giudice;

b) il potere esercitato dal commissario non è il medesimo del quale l’amministrazione è titolare, né il commissario si sostituisce all’amministrazione nel suo esercizio, né si verifica un trasferimento di detto potere (come pure è stato anteriormente affermato: Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 2018 n. 3378);

c) il potere del commissario ad acta nell’adozione di atti e provvedimenti trova il proprio fondamento genetico nella decisione del giudice (sentenza passata in giudicato; sentenza provvisoriamente esecutiva non sospesa; ordinanza cautelare) e la propria giustificazione sul piano funzionale nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio;

d) gli effetti degli atti posti in essere dal commissario ad acta si imputano alla sfera giuridica dell’amministrazione non già come conseguenza del fatto che il commissario è organo straordinario della medesima (riconducendo quindi in tal modo, implicitamente, l’imputazione degli effetti alla immedesimazione organica), bensì perché tali effetti si producono nella sfera giuridica dell’amministrazione per derivazione dalla decisione del giudice (artt. 2908 e 2909 c.c.).

La sentenza in esame, partendo e riservando molto spazio alla qualificazione soggettiva del commissario ad acta e alla natura distinta del potere esercitato dallo stesso rispetto al potere del quale è titolare la pubblica amministrazione soccombente, afferma che tale circostanza già costituisce, di per sé, chiara indicazione in ordine alla ammissibilità della concorrenza della competenza commissariale con quella dell’amministrazione.

D’altra parte, rileva il Supremo Collegio, non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare con certezza la perdita del potere dell’amministrazione di provvedere per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario ad acta, e non vi è alcun dato normativo che attribuisca al giudice che nomina il commissario il potere di esautorare l’amministrazione delle sue competenze stabilite dalla legge (contrariamente a quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione, che comunque relega tale ipotesi a extrema ratio).

E ciò a fronte della sussistenza non solo di un dovere per la parte soccombente di dare attuazione a quanto a proprio carico derivante dalla sentenza del giudice, ma anche della sussistenza di un diritto di adempiere al fine di evitare l’aggravarsi della propria posizione, anche quanto alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’inottemperanza.

Laddove, infatti, non si ammettesse il potere dell’amministrazione di dare attuazione alla decisione del giudice, la stessa rimarrebbe senza rimedio esposta, oltre che ai costi derivanti dall’intervento dell’ausiliario, anche alla azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato, di cui all’art. 112, co. 3, c.p.a..

Il commissario ad acta svolge, dunque, compiti ed esercita specifici poteri in virtù del munus conferitogli dall’atto di nomina da parte del giudice e dalla decisione da attuare e non perché  vi sia stato un trasferimento dell’esercizio della funzione pubblica dall’amministrazione.

Il Supremo Collegio evidenzia che parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. IV, 10 maggio 2011 n. 2764) affermava: “la nomina del commissario ad acta non determina di per sé l’esaurimento della competenza della p.a. sostituita a provvedere all’ottemperanza al giudicato, in quanto il venir meno dell’inerzia della p.a. stessa, pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del commissario, secondo i principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, non smentiti dalla legge o dalla pronuncia del giudice dell’ottemperanza ed essendo indifferente per il privato che il giudicato sia eseguito dall’amministrazione, piuttosto che dal commissario, perché l’attività di entrambi resta comunque egualmente soggetta al controllo del giudice”.

A tali considerazioni, il Supremo Collegio aggiunge che la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte del commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria in esame, gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità per difetto di attribuzione, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario medesimo.

Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato ex art. 21-septies, l. n. 241/1990, ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione.

Il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto. Qualora persista il dubbio del commissario in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, co. 7, c.p.a.

La pronuncia in commento precisa, inoltre, che gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela; qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.;

Tuttavia, la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti dia attuazione alla decisione del giudice.

Nell’ipotesi in cui il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto.

Chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente, il Supremo Collegio ricorda come resti comunque fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati.

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto:

a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto;

b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario.

c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.

d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.

L’Adunanza Plenaria n. 8/2021 ha finalmente risolto la questione di grande importanza relativa al potere che residua in capo all’amministrazione nell’ipotesi di nomina giudiziale del commissario ad acta per sua inadempienza o inottemperanza, poiché sul tema si erano stratificati nel tempo i vari orientamenti giurisprudenziali riportati dai giudici rimettenti, condividendo in buona parte la tesi dell’ordinanza di rimessione e superando di fatto la posizione maggioritaria della giurisprudenza.

In particolare, tale pronuncia ha fissato due punti importanti: la natura soggettiva del commissario ad acta quale ausiliario del giudice e non quale organo straordinario dell’amministrazione, il cui potere trova fondamento  nella pronuncia del giudice che lo nomina e nella sentenza da eseguire, e la cui funzione è quella di garantire l’effettività e la pienezza della tutela giurisdizionale dei diritti e interessi legittimi dei privati nei confronti delle amministrazioni inadempienti o inottemperanti; il mantenimento del potere dell’amministrazione di provvedere sull’originaria istanza, anche dopo la nomina giudiziale del commissario, che trova il suo fondamento nella norma attributiva dello stesso potere e nel perseguimento dell’interesse pubblico cui è preposta ex lege la P.A.

Altra statuizione di notevole importanza della sentenza in commento riguarda, come si è precisato sopra, il rilievo della sussistenza di una disciplina unitaria delle ipotesi di nomina giudiziale del commissario ad acta previste dal codice del processo amministrativo, uniformandone, dunque, la trattazione.

La presa di posizione di codesta Adunanza Plenaria sulla qualificazione soggettiva del commissario ad acta, che trova il suo pieno conforto nella legge (art. 21 c.p.a.), guida tutta la pronuncia in esame, occupandone gran parte, poiché sono proprio la qualificazione del medesimo commissario come ausiliario del giudice (e non come organo straordinario della P.A.) e la peculiarità genetica e funzionale del fondamento del suo potere che consentono al Supremo Collegio di affermare da un lato, la conservazione del potere di provvedere in capo all’amministrazione, e, dall’altro, che i provvedimenti tardivi della P.A. soccombente non sono affetti da nullità per difetto assoluto di attribuzione, ma al più potrebbero esserlo per violazione o elusione del giudicato ex art.21-septies l. n. 241/1990 o comunque annullabili per i motivi di cui all’art. 21-octies l. n. 241/1990 da far accertare in sede di ordinario giudizio di cognizione.

Per tali ragioni, i due poteri concorrono finché uno dei due soggetti non abbia provveduto.

Verificandosi tale circostanza, i provvedimenti eventualmente adottati sono affetti da inefficacia: il vizio che li colpisce non riguarda, dunque, il piano della validità, ma quello della loro idoneità a produrre gli effetti nella sfera giuridica dei privati destinatari, vizio da far rilevare da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, dinanzi al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.

 

Torna in alto