26/11/20018 – Riforma della PA: quegli slogan dai quali non ci libereremo mai

Riforma della PA: quegli slogan dai quali non ci libereremo mai

L’intervista rilasciata a Il Messaggero del 23 novembre 2018 dal Ministro della Funzione Pubblica Giulia Bongiorno «Statali, l`inefficienza punita come i piccoli reati» è il compendio di tutto ciò che non serve per una vera e utile riforma della pubblica amministrazione.
Si tratta di una mirabile sintesi di 25 anni di slogan frusti e triti, che hanno fin qui guidato ogni pregresso intervento risoltosi, come dimostrato dai fatti, sostanzialmente in un nulla di fatto.
Cominciamo dalla fine. Alla domanda rivoltale dalla giornalista se le manchi il lavoro di avvocato, il Ministro risponde: “Quando si fa la libera professione tutti danno il massimo perché sono sul mercato ogni giorno, nel pubblico no”.
Una risposta meravigliosamente ambigua. Infatti, può essere letta:
a) nel senso che nel pubblico non si è sul mercato ogni giorno; si tratterebbe di una lettura sostanzialmente bonaria e di un’osservazione quasi pleonastica;
b) nel senso che nel pubblico, siccome non si è sul mercato ogni giorno, tutti non danno il massimo.
Ovviamente, il senso da dare è quello dell’ipotesi b), che coincide con la teoria del fannullonismo, professata in passato da Pietro Ichino ed ormai transitata irrevocabilmente nella logica di ogni governo, nel lessico, nell’atteggiamento e nelle norme, attente a parole a semplificare e razionalizzare, ma nei fatti capaci solo di introdurre sempre nuovi adempimenti e sanzioni, stringendo sempre di più termini e modi del controllo di chi timbra, ma avendo pochissima attenzione al punto essenziale: ciò che accade tra una timbratura e l’altra.
Che l’ipotesi b) sia quella corretta lo conferma l’inizio dell’intervista. La giornalista osserva che “c’erano una volta i fannulloni”. Il ministro ribatte: “Preferisco dire che accanto alle eccellenze nella Pa ci sono dipendenti che non fanno il proprio dovere con solerzia così come ci sono gli imboscati”.
Anche in questo caso è da ammirare l’artificio retorico-dialettico. Come si nota, il Ministro non nega affatto che vi siano fannulloni, ma utilizza una perifrasi che in apparenza è finalizzata a lasciar intendere che nella PA non vi siano solo fannulloni, ma sortisce il messaggio opposto.
Si tratta della figura retorica della concessione: si concede un minimo di ragione al discorso che si intende avversare, per poi affermare con maggior forza la propria tesi.
In sostanza il Ministro “concede” che possano esservi perfino nella pubblica amministrazione delle “eccellenze”; ma queste, in quanto tali, non possono che essere poche e sparute. Quindi, accanto alle poche eccellenze, ci sono dipendenti (sottinteso: tanti, quasi tutti) che non fanno il proprio dovere con solerzia così come ci sono gli imboscati”, perché (frase finale dell’intervista, già vista prima) non stanno sul mercato e quindi non danno il massimo.
Fermiamoci un attimo. Non si può che appoggiare qualsiasi tentativo di qualsiasi Ministro di rendere più efficiente l’azione della PA. Tuttavia, deve essere evidenziato che i tentativi di riforma dovrebbero partire da analisi corrette, perché solo così gli obiettivi di correzione possono avere qualche possibilità di raggiungimento. Se si parte dall’idea che la PA non funziona perché non sta sul mercato, l’analisi iniziale è totalmente fuori mira. La PA non può stare sul mercato per definizione. Il modo per far entrare nel mercato i servizi resi dalle pubbliche amministrazioni è uno solo: privatizzarli.
La privatizzazione, la riduzione dello Stato alle sole funzioni giudiziaria, governo dell’economia, difesa ed ordine pubblico, possono essere una soluzione coerente con l’analisi.
Se, invece, si paragona la PA all’agire aziendale nel mercato, e si pensa di riformare la PA agendo sui dipendenti, considerandoli necessariamente fannulloni in quanto lavorano fuori dal mercato, ma con una PA che continua ad erogare servizi che non possono non essere al di fuori del mercato stesso, si commette per l’ennesima volta lo stesso errore che ormai si ripete da 30 anni di riforme infatti cadute nel vuoto.
Torniamo all’intervista. Come risolverebbe, chiede l’intervistatrice, la situazione degli “imboscati” (categoria ancora più fannullonesca dei fannulloni, aggiungiamo noi)? “ purtroppo frequentemente le liste di mobilità dei dipendenti in esubero vengono usate in modo distorto come fossero scivoli verso il prepensionamento: di fronte ad un ricollocamento si preferisce non rispondere continuando a percepire 1’80% dello stipendio. In futuro dopo due chiamate e due rifiuti saranno licenziati”.
Una risposta che lascia interdetti sotto diversi aspetti:
1. secondo il Ministro sarebbero “imboscati” (aggettivo che sottende persone che si nascondono per non compiere il loro dovere) i dipendenti pubblici iscritti nelle liste di “mobilità” (sic.; ne parleremo tra poco). Ma, a Palazzo Vidoni qualcuno ha informato il Ministro che questi dipendenti non stanno lì per propria scelta di imboscarsi, bensì perché un ente li ha messi in esubero per ragioni organizzative o finanziarie e che in quella lista possono stare al massimo 24 mesi, in attesa di un’eventuale ricollocazione, con stipendio ridotto all’80% e successivo licenziamento in mancanza della ricollocazione? Imboscato, come visto sopra, vuol dire altro, tutt’altro;
2. sarebbe bene che, pur nelle necessarie semplificazioni giornalistiche, si utilizzasse un lessico corretto. Le liste cui fa riferimento il Ministro non sono di “mobilità”, liste che per altro non esistono più (salvo ormai pochissimi ultimi strascichi) nemmeno nel lavoro privato. Sono liste di “disponibilità”: tale è la qualificazione dell’istituto, datagli dall’articolo 33 del d.lgs 165/2001;
3. l’utilizzo “distorto” di lavoratori alle soglie del licenziamento come “scivolo” verso la pensione è una pratica larghissimamente utilizzata nel privato. Nel lavoro pubblico essa è sostanzialmente inesistente, perché ragioni e presupposti per collocare i dipendenti in lista di disponibilità sono estremamente stringenti e perché, poi, di fatto queste liste sono quasi vuote. Anche qui, visto che a Palazzo Vidoni hanno contezza della quantità di dipendenti inseriti nelle liste, non sarebbe male che informassero debitamente il Ministro;
4. il Ministro afferma che vi sarebbe l’abitudine, da parte del personale in disponibilità, di non rispondere agli avviamenti verso altri enti, preferendo percepire l’80% dello stipendio. Ribadiamolo: se entro 24 mesi il dipendente in disponibilità non è ricollocato (secondo la complessa disciplina dell’articolo 34-bis del d.lgs 165/2001), viene licenziato. Il dipendente non ha alcuna ragione, né motivazione per rifiutare la ricollocazione. Per altro, di recente la riforma Madia ha introdotto il demansionamento: per facilitare una propria ricollocazione, un dipendente in disponibilità può accettare di andare a lavorare in profilo e mansione inferiori a quelle in cui è inquadrato. L’ideona di licenziarlo dopo due rifiuti appare semplicemente accanimento. A Palazzo Vidoni, piuttosto, dovrebbero sapere – e di questo informare il Ministro – che nelle pubbliche amministrazioni è fortissima l’abitudine di saltare a piè pari la procedura di ricollocazione dei dipendenti in disponibilità. Non perché non diano corso all’articolo 34-bis, ma in modo molto più subdolo: appena hanno notizia che un dipendente, per caso, sia in disponibilità inquadrato in profilo coincidente con quello che intenderebbero coprire per concorso, improvvisamente quel concorso, sempre urgente ed invocato a gran voce, non si indice più, in attesa del decorso dei 24 mesi, così da poter agire, poi, a mani libere.
Proseguiamo con gli altri slogan. Ci informa il Ministro che “con il ddl Concretezza, in Senato, intanto introdurremo le impronte digitali: addio ai furbetti del cartellino”. Ecco che torna la litania: fannulloni e furbetti. Dopo il licenziamento in 30 giorni (che nemmeno consente di istruire per tempo complesse pratiche nel caso di comportamenti fraudolenti collettivi, come a San Remo) e nell’impossibilità di introdurre un licenziamento in 30 minuti o 30 secondi, allora si farà timbrare con le impronte digitali (ma senza maggiori oneri per lo Stato: auguri).
Ma, attenzione, il Ministro rilancia: “Con i prossimi interventi invece vogliamo sburocratizzare la macchina amministrativa e iniziare a eliminare tutti gli oneri amministrativi inutili”. Giusto. Peccato che questa affermazione, in sé apparentemente incontrovertibile e necessariamente condivisibile, nasconda un vizio di analisi: parte, infatti, dall’idea che siano i dipendenti “la burocrazia” che crea oneri amministrativi inutili. Purtroppo, il 90% degli oneri amministrativi inutili o ridondanti sono creati dal Legislatore. Qualcuno a Palazzo Vidoni faccia conoscere al Ministro i Principi contabili della contabilità degli enti locali, oppure leggere a fondo le Linee Guida sugli appalti, per esempio il processo di nomina dei commissari di gara. Sarebbe molto istruttivo, per capire dove davvero risiedano gli oneri amministrativi e chi li produce.
Infine, l’intervistatrice sottolinea che il problema della Pa consiste nella motivazione dei dipendenti. La risposta lascia ulteriormente interdetti: “per fare entrare i migliori punto sui concorsi unici”. Ma, fino a prova contraria, la motivazione riguarda il rapporto di lavoro già costituito, non lo strumento di reclutamento. Per altro, vista l’esperienza tutt’altro che efficiente e positiva dell’accentramento degli appalti (vedi caso Consip e facility management), non saremmo così sicuri che lo strumento del concorso unico nazionale sia vincente, proprio no.
Da ultimo, il Ministro osserva: “poi è importante modificare l’attuale sistema di valutazione, inadeguato. Introdurremo valutazioni fatte da terzi e dai cittadini. E poi stop ai premi a pioggia”.
Parole già sentite? Negli ultimi 30 anni per caso qualche inquilino di Palazzo Vidoni ha affermato che il sistema di valutazione attuale sia adeguato? Idea: istituiamo un’Agenzia, chiamandola, per esempio, Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità! Come dite? Già fatto, dal Ministro Brunetta, sotto la spinta di Pietro Ichino, con commissari (di area di Ichino) che subito su dimisero, con elaborazione di metodi di valutazione pari a zero e vita brevissima, visto che è stata abolita dopo nemmeno 4 anni totalmente improduttivi? Ma dai, su: riproviamoci. Anche perché si introdurranno “valutazioni fatte da terzi e dai cittadini”. Ah, aspetta: lo ha già previsto la riforma Madia. Ma sì: ci sarà lo stop ai premi a pioggia. Vi sarà la siccità. Se la pioggia delle riforme fuori mira cessasse, sì che qualche raggio di sole illuminerebbe davvero la PA.

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