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La parziale trasparenza non assicura il consenso informato: diamanti poco cristallini

Pratiche ingannevoli (scorrette) e diamanti poco cristallini: la poca trasparenza informativa mina la credibilità del credito, potendo costituire un’alterazione alla libertà del consenso.

La prima sez. Roma del T.A.R. Lazio, con la sentenza n. 10969 del 14 novembre 2018, respinge la richiesta di annullamento del provvedimento adottato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (www.agcm.it) di “pratica commerciale scorretta”, posta in essere da un istituto bancario per la promozione («un diamante è per sempre») dei diamanti come bene “redditizio” (rifugio: investimento sicuro, affidabile e remunerativo).

Già DE ANDRÉ (“Via del Campo”, 1967), pur in altro contesto, «… dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior», esprimeva un significato “manifesto” sulla poca fiducia da riporre su queste pietre rispetto a ben altri prodotti meno cristallini (perché di questo si parla, della poca “trasparenza” del prodotto finanziario); prodotti meno sofisticati (o simbolici di uno status) ma con effetti vivifici, dotati di un’anima vitale.

La vicenda, ben nota alle cronache nazionale per gli effetti sui risparmiatori, proposto da un istituto bancario contro l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per l’annullamento di un provvedimento con il quale viene imputato «a titolo di responsabilità concorrente» per la pratica commerciale scorretta posta in essere da una società di investimento «consistente nell’aver proposto l’acquisto di diamanti di investimento diffondendo informazioni omissive ed ingannevoli in merito alle caratteristiche dell’investimento proposto, al prezzo dei diamanti e alla convenienza economica di tale acquisto anche avuto riguardo all’andamento del mercato e alle qualifiche del professionista».

Va premesso, per l’inquadramento del tema, che le norme a tutela del consumo delineano una fattispecie di “ pericolo”, essendo preordinate a prevenire le possibili distorsioni delle iniziative commerciali nella fase pubblicitaria, prodromica a quella negoziale, sicché non è richiesto all’Autorità di dare contezza del maturarsi di un pregiudizio economico per i consumatori, essendo sufficiente la potenziale lesione della loro libera determinazione (TAR Lazio, Roma, sez. I, 4 febbraio 2013, n. 1177).

Il fatto, nella sua essenzialità, consisteva in una «prospettazione omissiva e ingannevole ai consumatori di alcune caratteristiche dell’investimento in diamanti – costituisse una pratica commerciale scorretta».

La conseguenza disposta dall’Autorità:

  1. divieto ulteriore di diffusione della pratica;
  2. irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di 2.000.000 euro.

La sanzione viene motivata dalla diffusione di materiale promozionale, predisposto dalla società privata di investimento, reso disponibile, pertanto, attraverso il canale bancario cui si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, in cui si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo:

  1. il prezzo di vendita dei diamanti, presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su un giornale economico;
  2. l’andamento del mercato e l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con l’inflazione e le quotazioni ufficiali dell’oro;
  3. la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso cui avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati viene rappresentato dalla stessa società privata di investimento;
  4. la qualifica di leader di mercato del professionista, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.

In altro caso, è stata sanzionata la condotta intesa come «pratica commerciale in ogni caso ingannevole il dichiarare, contrariamente al vero, che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo sufficiente per prendere una decisione consapevole» (TAR Lazio, Roma, sez. I, 28 luglio 2016, n. 8744).

La difesa dell’istituto bancario contesta l’intera attività istruttoria effettuata, la mancanza di oneri probatori, l’assenza di qualsivoglia “ruolo attivo” rispetto all’attività e alla condotta della società d’investimento; l’estraneità viene confermato dal fatto di aver ricevuto solo quattro reclami da parte dei consumatori e di essersi limitato ad una mera segnalazione ai propri clienti dell’esistenza del prodotto.

È noto che rientra, comunque, nella competenza dell’AGCM l’applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette poste in essere da un operatore del mercato finanziario, assoggettato alla disciplina del testo unico bancario, che offre ai consumatori servizi accessori all’acquisto di beni presso esercizi commerciali (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 11 maggio 2012).

Ciò posto, il Giudice di prime cure, rigettando le prospettazioni presentate dal ricorrente istituto bancario, rileva:

  1. la corretta rappresentazione dei fatti da parte dell’AGCM (in maniera logica e congruente sulla valutazione discrezionale di ingannevolezza della pratica), con la dimostrazione dell’accordo tra banca e società d’investimento proprio sull’attività del primo (la banca aveva manifestato la volontà di offrire ai propri clienti un servizio di consulenza nel settore dei beni di lusso, avvalendosi a tal fine dei servizi proposti dalla società d’investimento);
  2. l’attività svolta (ruolo attivo) dalla banca era remunerata con una provvigione pari ad una percentuale dell’operazione conclusa (tra il 5% e il 15%) sulla vendita dei diamanti;
  3. l’acquisto prospettato dei diamanti veniva promosso al cliente in persona del proprio referente investimenti (valenza probatoria dei fatti, confermativo dell’effetto di fidelizzazione. Cfr. il rilevante il precedente, Cons. Stato, sez. VI, 22 luglio 2014, n. 3896, con riguardo alla pratica commerciale scorretta consistente nella «commercializzazione presso i punti vendita a insegna “…” e sul sito internet … delle carte di credito co-branded “Vantaggi Vip” e “Vantaggi Plus», ove le carte rispondevano «anche ad una funzione di fidelizzazione della clientela mediante la previsione di promozioni riservate ai titolari delle carte di credito»), ingenerando un particolare affidamento nel destinatario delle informazioni, amplificato dalla particolare competenza che il consumatore riconosceva al personale della banca (non, quindi, una mera “segnalazione”);
  4. l’esiguo numero di segnalazioni pervenute non elide la configurabilità dell’illecito riscontrato, non occorrendo a tal fine l’individuazione di un concreto pregiudizio delle ragioni dei consumatori, in quanto è la stessa potenzialità lesiva, al fine di evitare anche solo in astratto condizionamenti e/o orientamenti decettivi, che consente di ascrivere la condotta nel quadro dell’illecito di “mero pericolo”, in quanto intrinsecamente idonea a configurare le conseguenze che il codice del consumo ha invece inteso scongiurare (TAR Lazio, Roma, sez. I, 3 luglio 2009, n. 6446);
  5. la responsabilità è correlata all’attività consulenziale e alle tecniche informative utilizzate in materia di investimenti (sulla rilevanza del ritorno economico del professionista al fine di fondare la sua responsabilità per pratica commerciale scorretta, a prescindere dalla estraneità del prodotto offerto rispetto alla gamma tipica di servizi forniti, Cons. Stato, sez. VI, 21 marzo 2018, n. 1820);
  6. il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), all’art. 2 «Diritti dei consumatori», comma 2, prevede espressamente: «Ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti: … b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità; c bis) all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; … e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali»;
  7. la nozione di “professionista” rinveniente dal “Codice del consumo” deve essere intesa in senso ampio, essendo sufficiente che la condotta venga posta in essere nel quadro di una attività di impresa finalizzata alla promozione e/o commercializzazione di un prodotto o servizio: «chiunque abbia una oggettiva cointeressenza diretta ed immediata alla realizzazione della pratica commerciale medesima» (in punto di diritto, in caso di pubblicità ingannevole, va precisato che il professionista è anche colui che ottiene un vantaggio diretto da una iniziativa promozionale, TAR Lazio, sez. I, 10 gennaio 2017, nn. 311 e 312, 7 aprile 2015, n. 5039; 5 gennaio 2015, n. 41; 25 marzo 2015, n. 4579);
  8. l’imputabilità dell’illecito rileva dal contegno e contributo del professionista (banca), in qualità di co-autore, alla realizzazione dell’illecito, non solo ove il suo contributo (efficacia causale) costituisca una condizione indefettibile alla realizzazione della violazione, ma anche allorquando il contributo abbia sostanziato una agevolazione dell’altrui condotta, traendone un diretto vantaggio economico, pur se il professionista non abbia direttamente interagito con il consumatore (Cons. Stato, sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763);
  9. la disciplina non postula necessariamente la presenza del dolo (specifico o generico), essendo sufficiente la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa, vale a dire di un difetto di diligenza rilevabile dal complessivo atteggiarsi del comportamento posto in essere dall’operatore commerciale (TAR Lazio, Roma, sez. I, 3 gennaio 2017, n. 61): non occorre la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (Cons. Stato, sez. VI, 29 marzo 2011, n. 1897; TAR Lazio, sez. I, 22 ottobre 2015, n. 12081; 18 aprile 2012, n. 3503);
  10. in materia di pratiche commerciali scorrette, l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato deve valutare non solo l’idoneità delle misure correttive proposte ma anche la sussistenza di un rilevante interesse pubblico all’accertamento dell’eventuale infrazione (TAR Lazio, Roma, sez. I, 10 dicembre 2015, n. 13821);
  11. la somma irrogata risulta correttamente parametrata (ragionevole) al fatturato realizzato dall’impresa e non al prodotto di volta in volta coinvolto nella condotta accertata (TAR Lazio, Roma, sez. I, 22 giugno 2018, n. 7009 e Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4085), non avendo una sola funzione puramente reintegratoria dello status quo ante, e dunque una matematica corrispondenza con gli effetti pratici della condotta o il vantaggio economico conseguito dal professionista, essendo finalizzata a garantire un’effettiva efficacia deterrente, generale e speciale.

In definitiva, l’attività posta in essere dall’AGCM, nella sua veste di “Command and Control”, risulta legittima con particolare riferimento alla:

  1. gravità della violazione e la proporzionalità della sanzione;
  2. dimensione e diffusione assunta dall’attività di promozione, con modalità massive: internet, stampa, anche di tipo specializzato (percepita dal consumatore come di particolare affidabilità), distribuzione di materiale pubblicitario cartaceo presso le molteplici filiali delle banche di riferimento.

Considerazioni esterne per la dimensione di archetipo visuale del tema trattato dal Tribunale, ex art. 21 Cost., «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», nonché art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».

Ancora una volta, assistiamo all’imbarazzo del “credito”, nella sua estensione di significato: they have lost faith in the … institutions.

In questo contesto prestazionale, e più in generale all’interno di un determinato ambiente, nei rapporti commerciali tra professionisti (ad es. istituto bancario/finanziario in veste di promoter di prodotti di un terzo operatore economico), rispetto alla posizione debole del consumatore, «deve essere predisposto un adeguato insieme di strumenti di verifica e controllo delle iniziative promozionali e pubblicitarie relative alle attività di interesse comune, proprio al fine di impedire il verificarsi dell’illecito» (Cons. Stato, sez. VI, 12 aprile 2011, n. 2251).

In termini ancora diversi, la pubblicità ingannevole non consente al consumatore medio una valutazione pienamente informata e consapevole delle caratteristiche e dell’effettiva convenienza economica della promozione ed è, pertanto, suscettibile di indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso; ovvero, un esigibile ragionevole grado di ordinaria diligenza, in considerazione delle significative asimmetrie che caratterizzano il rapporto tra professionisti e consumatori impongono ai primi, nel definire le modalità di esercizio della propria attività commerciale, una declinazione particolarmente stringente dei generali obblighi di buona fede e correttezza (Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).

Infatti, vi è la necessità che la comunicazione informativa (rectius pubblicità) venga disposta ad una condizione soggettiva media di intelligenza del consumatore (TAR Lazio, Roma, sez. I, 29 novembre 2014, n. 11995), nel senso che la tutela apprestata dalle norme sulla pubblicità ingannevole non si commisura alla posizione degli acquirenti dotati di specifica competenza, avvedutezza e di particolari cognizioni merceologiche, ma a quella degli acquirenti di media accortezza o alla generalità dei consumatori (TAR Lazio, Roma, sez. I, 3 luglio 2012, n. 6026).

Invero, la politica di trasparenza andrebbe condotta ben al di là.

Contribuisce a rafforzare i principi di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali sanciti dall’articolo 6 del trattato UE e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in una proiezione di giustizia sociale allargata (cfr. Regolamento (CE) n. 1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2001 relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione).

La pubblicità ingannevole, a ben vedere, comporta una “manipolazione” del consenso, impedendo di esercitare un consenso informato (tanto richiesto dall’art. 7 dal GDPR, General Data Protection Regulation), che portato nella sua estensione potrebbe raggiungere (raggiunge) alla predeterminazione del bisogno (la c.d. profilazione di like access query), approdo iniziale per minare alla base i principi di libertà e democrazia.

Emerge, ancora una volta, dalla vicenda nostrana (e non unica) il ruolo assunto da parte di un soggetto verso il quale il consumatore (alias risparmiatore) pone una certa fiducia, sia nella gestione del proprio risparmio che della sua remunerabilità (proposte “sicure”, vedi derivati o acquisto azione della propria banca), dove l’asimmetria informativa esistente tra professionista e consumatori, tra banca e cliente, non dovrebbe giungere a tali tristi traguardi, che minano la credibilità del mercato e del credito.

La trasparenza informativa, per una consapevole e libera (non manipolata) facoltà di scelta, non è avvenuta nel caso di specie; caso avvenuto in un servizio essenziale per la tutela della stabilità economica (seppure da servizio pubblico ad attività d’impresa) di uno Stato: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito» (art. 47, comma 1 Cost.).

Nello sfondo non si potrebbe ammettere che, con la privatizzazione delle banche, si dovrebbe cogliere solo l’interesse privato al profitto (imprenditoriale), perdendo (di vista) la funzione di primario interesse pubblico che è correlata all’esercizio del credito, specie quando i finanziamenti pubblici (il c.d. salvataggio, o “aiuti di Stato”) drenano ingenti risorse pubbliche allo scopo di non raggiunger il default del sistema finanziario (la c.d. insolvenza, anche “sovrana”).

A margine, non va sottaciuto che un precetto di maggiore accountability è, già, previsto dall’ordinamento, «Le imprese che ricevono sovvenzioni, contributi… e comunque vantaggi economici di qualunque genere dalle pubbliche amministrazioni e dai soggetti di cui al primo periodo sono tenute a pubblicare tali importi nella nota integrativa del bilancio di esercizio e nella nota integrativa dell’eventuale bilancio consolidato» (cfr. il comma 125, dell’art. 1 della Legge annuale per il mercato e la concorrenza (Legge n. 124/2017).

Or dunque, la lettura integrale della sentenza (TAR LAZIO, Roma, sez. I, 14 novembre 2018, n. 10969) spiazza anche le menti più miti e l’opinione pubblica rimane turbata.

Il concorso di responsabilità sono rilevanti (diffuse) e sono state rilevate, le giustificazioni non sono state accolte, sorprende l’ordinarietà (abitualità) di tale condotta speculativa; anche qualora tutti i risparmiatori (consumatori) fossero integralmente ristorati, rimane una ferita (il c.d. vulnus) alla credibilità dell’intero sistema creditizio, alla mancanza o inefficacia dei controlli, alla facilità (altri direbbero serialità) con la quale si appresta ad erogare un servizio alla collettività.

L’endiadi cessante dovrebbe formulare un qualche aforisma, dovrebbe sussistere un rapporto di credenza (una certa moralità di potere) tra le parti (cliente e banca), un rapporto di fiducia, cioè di credito: «La fiducia ha a che fare con la sfera delle impressioni, delle rappresentazioni, dei sentimenti, quindi è esposta agli effetti positivi e negativi della comunicazione» (TANZINI, 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Roma, 2018, pag. 113).

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