20/11/2018 – Dipendente pubblico svolge attività professionale: legittimo licenziamento per giusta causa

Dipendente pubblico svolge attività professionale: legittimo licenziamento per giusta causa

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 26825, del 23 ottobre 2018, nel respingere il ricorso di un dipendente pubblico ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti di un soggetto che, con un rapporto di lavoro con un ente pubblico (nel caso in esame si trattava dell’Agenzia delle Entrate), ha continuato a svolgere l’attività di curatore fallimentare ed è rimasto iscritto all’albo dei dottori commercialisti.
Il contenzioso
La Corte di Appello ha respinto l’appello proposto da dipendente di una Agenzia delle Entrate avverso la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda volta ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dal citato ente pubblico e la conseguente condanna dell’amministrazione convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno.
Il dipendente pubblico era stato assunto nel marzo del 2011 e nel giugno del 2012 gli era stato contestato di avere svolto, in costanza di rapporto di lavoro, di svolgere l’attività di curatore fallimentare; di avere compilato e trasmesso tre dichiarazioni fiscali, avvalendosi dell’abilitazione ad utilizzare in qualità di professionista il servizio telematico; di essere rimasto iscritto all’albo dei dottori commercialisti.
Il giudice d’appello ha escluso l’eccepita tardività della contestazione ed ha evidenziato che solo a seguito della relazione redatta il 5 giugno 2012 dal Capo Ufficio Audit Interno, l’Agenzia delle Entrate era stata posta in condizione di avere piena conoscenza delle condotte di rilevanza disciplinare e di effettuare una valutazione complessiva delle stesse, sicché il termine per l’avvio del procedimento doveva decorrere da detta data, in quanto la segnalazione scritta del 23 maggio 2012, inviata dal responsabile dell’ufficio, era confluita negli ulteriori accertamenti che si stavano svolgendo nei confronti del dipendente pubblico, la cui necessità era emersa in occasione di altro procedimento disciplinare.
La Corte di appello ha ritenuto rispettato anche il termine di 120 giorni previsto dall’art. 55-bis, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001 ed ha evidenziato che il differimento dal 4 settembre 2012 al 21 gennaio 2013 si era reso necessario a causa di una specifica richiesta del dipendente, il quale aveva comunicato di essere impossibilitato per motivi di salute a partecipare all’audizione personale. Ha precisato al riguardo che l’Agenzia aveva differito per una sola volta la convocazione in quanto il dipendente, nel riprendere servizio il 4 ottobre 2013, aveva rappresentato che si sarebbe assentato di nuovo, sempre per motivi di salute, a partire dalla settimana successiva, sicché l’amministrazione si era limitata a prendere atto del perdurare dell’impedimento.
Sulla base della produzione documentale il giudice di merito ha ritenuto provate le condotte addebitate ed ha escluso la fondatezza delle giustificazioni fornite dal dipendente, evidenziando che le dichiarazioni fiscali, anche se riferite all’anno 2010, erano state compilate e trasmesse quando il rapporto di lavoro risultava già instaurato e lo stesso dipendente, ancora iscritto all’albo dei dottori commercialisti, solo tardivamente aveva chiesto di essere autorizzato a svolgere l’attività di curatore fallimentare e di essere cancellato dall’elenco dei soggetti abilitati al servizio telematico.
Infine la Corte territoriale ha ritenuto i fatti di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva ed ha sottolineato che ai sensi dell’art. 4D.P.R. n. 18 del 2002, è inibito al dipendente dell’Agenzia di svolgere attività di consulenza, assistenza e rappresentanza in favore di terzi, così come è fatto divieto di curare le attività proprie dei dottori commercialisti.
Avverso la sentenza sfavorevole il dipendente è ricorso in Cassazione.
L’analisi dei giudici di legittimità
Per i giudici di legittimità non sussiste la denunciata violazione dell’art. 55-bisD.Lgs. n. 165 del 2001 perché la sentenza impugnata, nel far decorrere i termini dalla data della relazione del Capo Ufficio Audit Interno del 5.6.2012, si è attenuta al principio di diritto affermato dalla Cassazione secondo cui “ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, D.Lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (….)” ( Cass. civ. n. 7134 del 2017Cass. civ. n. 25379 del 2017 e Cass. civ. n. 6989 del 2018).
Il principio, sebbene affermato in relazione al termine per la conclusione del procedimento, è applicabile anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione, poiché quest’ultima può essere ritenuta tardiva solo qualora l’amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso di tutti gli elementi necessari per il suo valido avvio. Il termine, invece, non può decorrere a fronte di una notizia che non consenta ancora la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito (Cass. civ. n. 16706 del 2018).
Non si ravvisa la violazione di legge denunciata con il secondo motivo del dipendente pubblico ricorrente, perché si realizza un «nuovo» differimento, vietato dal comma 2, dell’art. 55-bisD.Lgs. n. 165 del 2001, solo qualora l’amministrazione, ritenendo cessato l’originario impedimento, convochi il dipendente e, poi, differisca nuovamente l’audizione.
La convocazione è atto unilaterale recettizio e, in quanto tale, non può rimanere nella sfera meramente interna del soggetto, ma deve essere portata a conoscenza del suo destinatario. Non si è, quindi, in presenza di una «convocazione», bensì di un atto interno improduttivo di effetti, nel caso in cui l’amministrazione, pur avendo materialmente predisposto l’atto, non dia avvio alla procedura di comunicazione.
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale, dopo avere ricostruito la successione degli eventi, ha escluso che si fosse in presenza di un nuovo differimento ed ha evidenziato che, in realtà, l’ufficio per i procedimenti disciplinari si era limitato a prendere atto del perdurare dell’impedimento, interpretando in tal senso la comunicazione fatta dal dipendente ricorrente, il 5 ottobre 2012.
Le conclusioni della Corte di Cassazione
I giudici di legittimità, dopo aver esclusi errori nel procedimento che ha portato al licenziamento il dipendente ricorrente, ha affermato che sono infondate le motivazioni del ricorso; la valutazione espressa dal giudice di appello, il quale ha considerato gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta ed ha richiamato gli obblighi imposti ai dipendenti dell’Agenzia delle Entrate dall’art. 4D.P.R. n. 18 del 2002, è rispettosa del principio di diritto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ed al quale la Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi intende dare continuità, secondo cui “la disciplina prevista dall’art. 4D.P.R. n. 18 del 2002 – che, per gli impiegati delle Agenzie fiscali, prevede un regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi più rigoroso di quello generale dei dipendenti pubblici contrattualizzati – è di carattere speciale, diretta a tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, l’imparzialità e il buon andamento della P.A. e, dall’altro, il principio secondo cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore (art. 54, comma 2, Cost.), la cui applicazione nei confronti dei suddetti lavoratori è particolarmente severa in quanto dette Agenzie rappresentano lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative – il prelievo fiscale – sicché i loro dipendenti devono operare in modo da essere ed apparire impermeabili rispetto ad ogni possibile condizionamento dell’attività di servizio (come implicitamente si desume anche dalla Direttiva n. 2011/16/UE, cui è stata data attuazione con D.Lgs. n. 29 del 2014) ” (Cass. civ. 3622 del 2018 e Cass. civ. n. 11160 del 2018).
E’ pertanto legittimo il recesso per giusta causa disposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un suo dipendente.
La Corte di Cassazione, pertanto, rigetta il ricorso e conferma la sentenza dei giudici del merito.

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