Print Friendly, PDF & Email

S.c.i.a. e D.i.a. vanno controllate

La Suprema Corte si pronuncia su un grave episodio di mancato esercizio dei controlli, fonte di plurimi reati.

In occasione della “Sagra del pesce e del cinghiale”, organizzata dalla Pro Loco di un Comune piemontese, si verificò l’esplosione di una bombola, posizionata nei pressi della zona di cottura degli alimenti da somministrare nel corso dell’evento, in seguito alla quale morirono cinque persone ed altre sei rimasero ferite.

L’esplosione, secondo la tesi accusatoria, si verificò perché la bombola esplosa (che doveva essere ritirata dalla circolazione fin dal 2008) era in cattive condizioni d’uso, al pari di altre presenti in loco, essendo stata più volte riempita in modo abusivo, eccessivo e comunque non controllato e presentando un difetto di laminazione (o “cricca”); l’innesco dell’esplosione, che produsse uno squarcio sulla bombola, fu dovuto a un aumento di pressione del GPL contenuto nel contenitore, dovuto all’esposizione a una fonte di calore di cui però non é stata accertata la natura.

Il responsabile dell’abusivo riempimento delle bombole (fra cui quella esplosa) é stato individuato dall’accusa nel titolare di un distributore di benzina: il quale, secondo le prove dichiarative raccolte e sulla base di attività di osservazione a cura della Polizia giudiziaria, é stato indicato come il soggetto presso il quale la Pro Loco si era approvvigionata delle bombole da utilizzare per la preparazione dei pasti, e che a tal fine effettuava la ricarica delle bombole senza la prevista autorizzazione e con modalità che finivano per danneggiare le bombole stesse. Costui pertanto era chiamato a rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose plurime: reati in relazione ai quali egli é stato condannato sia in primo, sia in secondo grado.

Ad un agente di polizia municipale, sulla base del percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, é stato invece addebitato non già di avere omesso il controllo circa l’adempimento delle prescrizioni impartite dall’ASL relativamente al posizionamento delle bombole (prescrizioni in realtà non riferite alla bombola che poi esplose), quanto piuttosto di avere cooperato colposamente con gli altri imputati in quanto, nella sua qualità di soggetto titolare di funzioni istruttorie nelle pratiche di polizia amministrativa (fra cui quella in esame, ai sensi dell’art. 10, comma 4, legge regionale Piemonte n. 38/2006), avrebbe dovuto segnalare le anomalie presenti in loco – con riguardo, in particolare, all’impiego di bombole in evidente stato di deterioramento e, come tali, pericolose – al soggetto titolare del potere deliberativo (relativo al rilascio della prevista licenza temporanea). Il fatto che, per la somministrazione temporanea di alimenti, fosse prevista una D.I.A. (oggi S.C.I.A.) differita, consentiva tuttavia al personale dell’ASL di effettuare un sopralluogo di verifica, di comunicare le eventuali difformità al Comune ed eventualmente di adottare un provvedimento motivato di diniego inizio attività.

Oltre all’omessa segnalazione di cui sopra, al vigile si imputava di avere falsificato la licenza temporanea di pubblico esercizio: licenza che secondo l’accusa, in un primo momento, era stata da lui predisposta senza l’indicazione di alcuna prescrizione (con la firma apocrifa del Comandante della polizia municipale); e che, in seguito al sopralluogo dell’ASL (che aveva impartito disposizioni sul posizionamento delle bombole) e subito dopo il verificarsi dell’esplosione era stata da lui nuovamente formata (anche stavolta con l’apparente firma del Comandante, poi risultata falsa) sul suo computer d’ufficio, con l’inserimento delle prescrizioni dell’ASL; ciò, sempre secondo l’accusa, allo scopo di stornare da sé il sospetto di non avere curato il rispetto delle prescrizioni suddette, nell’erroneo convincimento che la mancata osservanza di tali prescrizioni (che egli avrebbe dovuto verificare) fosse la causa dell’evento.

Perciò, oltre che dei reati di omicidio e di lesioni colpose plurime l’agente era chiamato a rispondere del delitto di falso (art. 476 Cod.pen.); per tali capi d’imputazione egli ha riportato condanna sia in primo grado che in appello.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso entrambi i condannati.

La Corte di cassazione (IV Sezione) si è pronunciata con sentenza del 19 ottobre 2018 dichiarando inammissibile il ricorso dell’imprenditore perché manifestamente infondato.

La Corte di merito, secondo i Giudici di Piazza Cavour, ha argomentato in modo ampio ed approfondito in ordine ai numerosi riscontri alle dichiarazioni di un coimputato (il quale fece esplicito riferimento alla circostanza che le bombole vennero da lui procurate presso la stazione di servizio dell’imprenditore, come sempre dal 2007), dalle testimonianze escusse, ma anche e soprattutto dagli accertamenti operati dalla Polizia giudiziaria e, in specie, dalle attività di osservazione dalle quali emergeva che vi era, presso la stazione di servizio del ricorrente, un via-vai di persone che portavano bombole vuote e uscivano con bombole piene: attività seguite da un sopralluogo dal quale risultava non solo che egli era sprovvisto dell’autorizzazione per effettuare le ricariche, ma anche che presso il suo distributore erano stoccate ben 54 bombole, che presentavano segni di deterioramento analoghi a quelli accertati sulle bombole fornite per la sagra.

Per quanto riguarda, invece, il ricorso proposto dall’Agente della Polizia Locale la Corte, dopo aver considerato inammissibili tutte le doglianze che hanno attaccato la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, della sentenza di appello, è pervenuta a diversa conclusione sull’unico motivo non affetto da inammissibilità, ossia quello riguardante i delitti di omicidio e lesioni colpose.

Per quest’ultimo il reato è risultato estinto per maturata prescrizione, di tal che limitatamente a detto reato la sentenza di appello è stata annullata senza rinvio.

Non così per ciò che concerne il delitto relativo ai plurimi omicidi colposi per i quali risultava contestata in fatto l’aggravante, ad effetto speciale, di cui all’art. 589, comma 4, Cod. pen. (nel testo vigente all’epoca), la cui pena massima edittale, alla luce del disposto dell’art. 157, comma 2, Cod.pen., é tale da escludere che per detto reato fosse intervenuta la prescrizione.

La tesi difensiva dell’agente non stata accolta dai giudici di legittimità. Egli ha infatti sostenuto che la pratica accesa dalla Pro loco come denuncia d’inizio attività sarebbe stata in realtà già disciplinata come S.C.I.A. (segnalazione certificata d’inizio attività) in base all’art. 19 L. 241/1990 come modificato dal D.L. n. 78/2010 (e quindi non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione, né conseguentemente alcun intervento dell’Autorità comunale). Invero, va innanzitutto chiarito che – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, e come invece correttamente osservato dalla Corte di merito – la trasformazione dal D.I.A. in S.C.I.A. della pratica in esame entra in vigore solo con l’art. 49, comma 4-bis della legge n. 122 del 30 luglio 2010 (legge di conversione del D.L. n. 78/2010), ossia dopo i fatti di causa.

Ma anche a prescindere da ciò, e come ancora una volta correttamente chiarito nella sentenza impugnata, l’argomento speso dal ricorrente non é decisivo, perché la procedura di denuncia (o di segnalazione certificata) d’inizio attività ha in tutti i casi una finalità semplificatoria, ma non esime dall’esercizio di controlli da parte dell’Autorità amministrativa competente in ordine al  contenuto.

Sotto altro profilo, il ricorrente non ha mancato di ribadire quanto già lamentato in sede d’appello, ossia che il dato testuale dell’imputazione (che sia in primo grado, sia in appello é stato effettivamente interpretato con una certa latitudine) fa riferimento non già a un generico potere di vigilanza e di segnalazione delle violazioni di cui alla legge regionale n. 38/2006, ma all’aver omesso il controllo circa l’adempimento delle prescrizioni di cui al verbale dell’ASL. Al riguardo i giudici di legittimità hanno osservato che in effetti non é dato ravvisare, nel perimetro tracciato dall’editto imputativo, alcun riferimento alla più ampia contestazione di “cooperazione colposa” che i giudici di merito hanno ritenuto di scorgere nel suddetto enunciato.

E si é visto – ed é la stessa sentenza impugnata a riconoscerlo – che non può riferirsi al caso di specie l’accusa mossa all’imputato di non avere controllato l’osservanza delle prescrizioni dell’ASL (di cui al verbale di sopralluogomenzionato), atteso che esse disponevano unicamente lo spostamento di altre due bombole, diverse da quella poi esplosa, dalla zona dei fuochi della cucina.

Perciò il ricorrente sostiene che l’accusa da cui egli doveva difendersi riguardava una violazione oggettivamente diversa, anzi eterogenea rispetto a quella che, secondo la Corte di merito, fonderebbe la sua responsabilità.

Ma é innegabile, e la Corte di merito lo ha chiarisce, che il vigile si sia potuto difendere in giudizio anche dall’accusa poi ritenuta provata, ossia quella di avere omesso di esercitare il suo potere di vigilanza sul rispetto della normativa in materia igienico – sanitaria e di prevenzione degli incendi. A tale riguardo, si è ritenuto pertinente il richiamo alla giurisprudenza apicale di legittimità secondo la quale l’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 Cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono.

Pertanto, rispetto alla pena inflitta al vigile in primo grado (e confermata in appello), pari a due anni e due mesi di reclusione, si è proceduto allo scorporo dell’aumento di pena per il reato in questione. Ed a tanto ha provveduto direttamente la Corte, ai sensi dell’art. 620, lett. L, Cod. proc. pen., atteso che detto aumento era stato espressamente determinato dal Tribunale di nella misura di tre mesi di reclusione.

Rodolfo Murra

Torna in alto