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Il decreto “dignità” scava un ulteriore solco tra lavoro pubblico e lavoro privato

di Amedeo Di Filippo – Dirigente comunale

Il Titolo I del decreto reca disposizioni per il contrasto al precariato tese a limitare l’utilizzo “indiscriminato” dei contratti a termine che, secondo la relazione che accompagna il decreto, sono “sempre più diffusi e spesso non corrispondenti a una reale necessità da parte del datore di lavoro”.

L’approccio proposto dal decreto è molto semplice e incide sugli artt. 192128 e 34D.Lgs. n. 81 del 2015, con l’idea di “smontare” il jobs act di renziana memoria. A questi fini, l’art. 1 sostituisce il comma 1 dell’art. 19, che nella versione originaria ha autorizzato l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato non superiore a trentasei mesi. Termine che viene ridotto a dodici mesi mentre il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:

a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori;

b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Vengono conseguentemente ristrette, al comma 2, le durate dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra con lo stesso datore di lavoro per effetto di una successione di contratti, prima limitate a trentasei mesi ora a ventiquattro. Termine valido anche per la trasformazione a tempo indeterminato.

Rimane al comma 4 la previsione della necessità dell’atto scritto, il quale però deve contenere, in caso di rinnovo, la specificazione delle esigenze di cui al comma 1 in base alle quali è stipulato; in caso di proroga dello stesso rapporto tale indicazione è necessaria solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi.

All’art. 24 viene inserito il comma 01, secondo cui il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1; può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle medesime condizioni. Resta la speciale disciplina per le attività stagionali.

Il termine del contratto a tempo determinato può essere prorogato, col consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore non più a trentasei ma a ventiquattro mesi, e, comunque, per un massimo di quattro (e non più cinque) volte nell’arco di trentasei ventiquattro mesi a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta (prima era sesta) proroga.

All’art. 28, comma 1, viene esteso da centoventi a centottanta giorni dalla cessazione del singolo contratto il termine per impugnare il contratto a tempo determinato.

Per quanto riguarda la somministrazione, la relativa disciplina viene assimilata a quella del lavoro a tempo determinato, con esclusione di quella del limite al numero complessivo di contratti e i diritti di precedenza, per cui si applicano i primi 3 commi dell’art. 19 relativi all’apposizione del termine e alla durata massima e l’art. 21 sulle proroghe e i rinnovi.

Vengono infine portati da sei – al posto di quattro – a trentasei – al posto di ventiquattro – le mensilità dovute al lavoratore per il quale risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa. E aumentato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione, il contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.

Il lavoro flessibile nelle Pa

Con un comma infilato all’ultim’ora, il D.L. n. 87 del 2018 ha previsto che le disposizioni dei primi tre articoli “non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 1, comma 3). Una precisazione quanto mai opportuna e che però apre – o meglio, consolida – uno scenario chissà quanto voluto o solo percepito dal “legislatore”.

Con un rinvio incrociato, l’art. 29, comma 4, e l’art. 31, comma 4, D.Lgs. n. 81 del 2015 rimandano, rispettivamente per il lavoro a tempo determinato e la somministrazione, all’art. 36D.Lgs. n. 165 del 2001, fonte cardine del lavoro flessibile nelle Pa che, al pari del jobs act, cristallizza il principio secondo cui per le esigenze connesse col proprio fabbisogno ordinario queste assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e tramite procedure selettive. L’art. 36 consente di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, di formazione e lavoro e di somministrazione di lavoro a tempo determinato e di avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa:

– “esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche”;

– “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”;

– nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35.

Dispone poi che i contratti a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli artt. 19 ss., D.Lgs. n. 81 del 2015, escluso il diritto di precedenza; quelli di somministrazione sono disciplinati dagli artt. 30 ss. del medesimo D.Lgs., “fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro” e con esclusione delle funzioni direttive e dirigenziali.

Vigono poi in ambito pubblico i limiti finanziari: quelli al lavoro flessibile introdotti dall’art. 9, comma 28, D.L. n. 78 del 2010, pur se sottoposti a diverse erosioni; e quello generale posto alla spesa di personale dai commi 557 ss. della L. n. 296 del 2006, smussato dall’art. 16, comma 1, D.L. n. 113 del 2016 che ne ha dichiarato il carattere programmatorio e di principio.

L’effetto delle novelle

Ragionando a contrario, l’introduzione di novelle al D.Lgs. n. 81 del 2015 non possono non avere riflessi sulla disciplina applicabile alle Pa. Per la verità, al contratto a tempo determinato nessuna incisione operano le modifiche apportate agli artt. 19 e 21 nelle parti in cui disciplinano le causali e la stipula in forma scritta, regole già previste per le Pa dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e dai CCNL. Così come non trova applicazione la trasformazione a tempo indeterminato, per la regola fissata dall’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165 del 2001.

Avrebbero invece avuto effetto le modifiche alla durata dei contratti e alle relative proroghe, sia per il tempo determinato che per la somministrazione. Il comma 3 dell’art. 1D.L. n. 87 del 2018 salva l’interprete da qualsiasi imbarazzo, ma la previsione non è senza conseguenze proprio in virtù del fatto che anche il legislatore “del cambiamento”, non avvezzo ad ataviche manie, persegue nell’intento di ulteriormente separare il lavoro privato da quello pubblico nonostante i freschi rinnovi dei CCNL abbiano in qualche modo consolidato la via della privatizzazione del secondo nel solco del primo.

A questo proposito ci sono almeno due considerazioni da proporre. Una è sulla tecnica legislativa utilizzata, l’altra è sulla ulteriore demarcazione che il legislatore d’urgenza ha segnato tra lavoro pubblico e privato.

Sulla prima, posto che l’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001 consente alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti a tempo determinato “nel rispetto degli artt. 19 ss., D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81” mentre quelli di somministrazione sono disciplinati dagli artt. 30 ss. del medesimo decreto legislativo, è del tutto evidente che le vicende che investono il jobs act hanno riflesso anche sul lavoro pubblico.

Caso emblematico è quello della durata e delle interruzioni dei contratti, su cui ha messo le mani il decreto “dignità”, novità che avrebbero provocato effetti anche nelle Pa, tant’è che si è resa necessaria una esclusione legislativa espressa. Rimane però l’evidenza che per quelle fattispecie, il lavoro presso le Pa continua ad avere fonte nel D.Lgs. n. 81 del 2015, che però nel frattempo è formalmente mutato, per cui si concretizza una situazione ibrida in cui la versione emendata dal D.L. n. 87 del 2018 si applica al lavoro presso le imprese mentre a quello presso le Pa rimane applicabile la versione precedente. Ciò determina un cortocircuito giuridico singolare – non nuovo per la verità – per cui continuano ad applicarsi norme che sono formalmente estinte dall’ordinamento giuridico.

La specialità del lavoro pubblico

Questo conduce alla seconda considerazione, che prende di mira il merito delle novelle. Forse non è del tutto casuale che, nel frangente in cui il decreto dignità prendeva la via della pubblicazione in Gazzetta, l’associazione “Amici di Marco Biagi” ha diffuso un corposo studio dal titolo “Reinventare lo Stato. Rapporto sulle pubbliche amministrazioni in Italia”.

Vi si mette in evidenza come gli interventi di riforma della Pa stratificatisi negli ultimi 25 anni hanno tradito la strategia di cambiamento avviata nel 1993 producendo esiti opposti alle attese. In quel tempo fu assunto a riferimento il New Public Management introdotto con successo nei primi anni ’80 in Inghilterra e negli Stati Uniti. La L. delega n. 421 del 1992 e i D.Lgs. nn. 29 e 39 del 1993 introdussero la “privatizzazione” del rapporto di lavoro, la autonomia responsabile della dirigenza fondata sulla separazione tra indirizzo politico e attuazione amministrativa, la contabilità economico-patrimoniale analitica per centri di costo, la reingegnerizzazione delle funzioni sulla base dei processi di informatizzazione. Si trattava di una visione “aziendalistica” delle Pa nella quale le forme e le procedure conservavano l’importanza connessa ai doverosi caratteri di trasparenza e di imparzialità ma non fino al punto di diventare il centro di tutto e di negare il fine ultimo del servizio alla collettività.

Tuttavia, nel tempo si sono prodotte pulsioni che hanno progressivamente inibito la responsabilità dei decisori e alimentato il fenomeno della “burocrazia difensiva”. Messi fuori dalla porta, i formalismi procedurali sono rientrati dalle finestre e hanno inquinato sempre più gravemente il modo di funzionare delle amministrazioni per ragioni di autotutela. Essi si sono sommati ai controlli sui risultati, che erano stati introdotti per sostituire quelli di procedura, con l’effetto finale di un raddoppio dei vincoli.

Negli anni successivi la situazione è stata ulteriormente aggravata da una stratificazione progressiva di norme ispirate a criteri giusti in teoria (trasparenza, correttezza, pubblicità, anticorruzione) ma perseguiti in maniera formalistica e procedurale a discapito degli interessi collettivi. Si sono quindi aggiunti i limiti posti dalle spending review, la cristallizzazione degli aumenti salariali, il blocco del turn over, il ricorso al precariato e alle collaborazioni esterne, arginate progressivamente dal legislatore – anche con stabilizzazioni di ogni sorta e colore politico – e dall’opera assidua della Corte dei conti, oltre che dalla responsabilità degli operatori.

Tutto questo è all’un tempo il portato e la causa della graduale ma inesorabile conferma della specialità del lavoro pubblico, che ha di fatto negato in radice qualsiasi ipotesi di diritto comune del lavoro. Anche il D.L. n. 87 del 2018 si inserisce, per inverarla, in questa conclamata specialità, rendendo di fatto pura ipocrisia quanto ancora disposto nell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Di disposizioni derogatorie ormai sono piene le Gazzette Ufficiali.

D’altro canto, sarebbe utile ragionare sulle modifiche apportate all’ulteriore periodo del comma 2, in base al quale eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, nella versione precedente potevano essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi qualora ciò fosse espressamente previsto dalla legge; nel testo novellato possono esserlo solo “nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto”.

Laddove l’art. 40, comma 1, riserva alla contrattazione collettiva il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali, ingabbiati anch’essi alle modalità previste dal decreto; così come nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, in cui la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge, mentre sono del tutto escluse le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali e tanto altro.

Della contrattualizzazione e dei contratti nazionali e decentrati restano per la verità tante potenzialità, tenuto anche conto del fatto che, vertendo questi soprattutto sulla ripartizione delle risorse, in una prima fase le parti negoziali non hanno saputo sorprendere per novità e brillantezza delle soluzioni, spesso limitandosi a distribuzioni concordate e accomodate dei fondi; in una seconda, causa la crisi, la contrattazione è stata svuotata di contenuti e sulle risorse ha messo le mani pesantemente il legislatore nazionale in applicazione del principio di coordinamento della finanza pubblica.

Alcune prospettive di cambiamento le aveva proposte la riforma “Madia”, che sembravano volersi muovere nel solco del completamento della privatizzazione dopo la incredibile stretta causata dalla crisi. Lo scenario politico è però del tutto cambiato e non è ancora dato capire quale sarà la direzione. Le prime avvisaglie baluginate dal decreto “dignità” marcano ulteriormente lo iato tra lavoro pubblico e lavoro privato, per cui è forse giunto il momento che il legislatore si fermi a ragionare seriamente sulle prospettive, affermi concetti chiari e li realizzi.

Artt. 123D.L. 12 luglio 2018, n. 87 (G.U. 13 luglio 2018, n. 161)

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