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Decreto dignità: chi lascia a casa chi?

Altre brevissime considerazioni sul decreto dignità, che affrontano i problemi “di moda” sui giornali, del tutto futili rispetto alle vere e rilevanti complessità della riforma.

Dopo la relazione tecnica che arriva ad immaginare la perdita di 8.000 posti addirittura anche nel 2028, adesso viene posto il problema di altri 280.000 contratti in scadenza che per essere rinnovati necessitano delle cause giustificative, reintrodotte dal Governo, come informa Il Messaggero del 15 luglio 2018, articolo intitolato “Con il ritorno delle ‘causali’ in bilico altri 30.000 posti.

Secondo l’articolo, l’Aidp, associazione dei direttori del personale, sono circa 280.000 i contratti a termine che hanno già raggiunto il limite dei 12 mesi e che per il rinnovo richiedono la causa giustificativa. Se anche solo il 10% di questi rapporto non fosse rinnovato, dunque, vi sarebbero 28.000 lavoratori a spasso.

Come la stima degli 8.000 posti a rischio della relazione tecnica, anche quest appare del tutto priva di una seria analisi scientifica. E’ una sorta di terno al lotto probabilistico: i contratti a non essere rinnovati potrebbero essere quelli, ma anche molti di più,oppure molti di meno. Non essendovi nessun parametro di calcolo, qualunque cifra è immaginabile.

Sicuramente, il problema evidenziato dal Messaggero è più grave e profondo della stima della relazione tecnica. Non potrà non esservi una relazione diretta tra reintroduzione delle causali, cui è da aggiungere l’incremento dello 0,5% dei costi per i contratti rinnovati, e il numero dei contratti rinnovati. Sembra abbastanza semplice dedurre che il numero dei rinnovi sarà inferiore al passato.

Ma, quello che pare oggettivamente fuori luogo è parlare di persone che “restano a spasso”. Si dimentica, evidentemente, che si sta parlando di contratti a termine e che chi è assunto con tale formula è necessariamente destinato a “restare a spasso”, non potendo comunque contare su alcun diritto al “rinnovo”.

Sono circa 30.000 i contratti a termine tra i 13 e  i 18 mesi. Molto pochi su un plafond di circa 3.000.000 di contratti a termine, che in gran parte si fermano a 12 mesi.

Certamente il decreto dignità pone ulteriori ostacoli al rinnovo dei contratti, in un sistema di per sè estremamente poco propenso a durate maggiori dei 12 mesi.

Ma è bene precisare che se l’azienda non è intenzionata comunque a trasformare il rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato (e la propensione a queste trasformazioni non è certo elevata), i lavoratori sono comunque destinati a restare privi di rapporti.

Piuttosto che lanciare allarmi a vuoto, sarebbe interessante indagare gli effetti della probabile ulteriore compressione della durata media dei contratti a termine sulla Naspi.

Appare, al contrario, piuttosto verosimile che se la durata complessiva dei rapporti a tempo determinato si ridurrà, l’effetto finale potrebbe consistere nell’ennesima eterogenesi dei fini: si potrebbe assistere ad un incremento rilevantissimo dei contratti a termine.

I dati esposti con le stime simili a quelle riferite al Messaggero dai direttori del personale lasciano apparire che le aziende assumano, come dire, a vuoto o per beneficenza, senza una particolare ragione. Siccome, al contrario, si deve partire dalla presunzione che se i direttori del personale assumono lo fanno perchè vi è un fabbisogno concreto di prestazioni lavorative e non per distribuire stipendi a vanvera, molto presumibilmente laddove il tasso di sostituibilità della mansione sia abbastanza elevato, vi sarà un continuo turn over di contratti a termine di durata inferiore ai 12 mesi.

Ma, se così fosse, emergerebbe il vero problema che il decreto dignità non è in grado di risolvere: la propensione delle aziende ad utilizzare il contratto a termine per coprire, però, fabbisogni continuativi invece che stabili nel tempo.

La “precarietà” non sta di per sè in una forma contrattuale, ma nell’utilizzo scorretto di una forma contrattuale per fini differenti. Al di là dell’opportunità di prevedere le cause giustificative (ed in effetti è assurdo prevederle per i rinnovi, ma non per il primo contratto; sarebbe logico immaginare coerenza tra primo contratto e successivi), ci sarebbe da presumere che le aziende assumano a termine per fondate ragioni, anche economiche o di mercato. Ma se l’assunzione a tempo determinato è una continuo turn over nella stessa mansione, nello stesso ambito lavorativo, allora c’è qualcosa che non funziona.

Sarebbe il caso di concentrare gli sforzi normativi e di indagine su questi elementi, invece di gridare “al lupo al lupo” contro il decreto dignità, e invece, comunque, di adottare norme frettolose ed incomplete come comunque oggettivamente appare il medesimo decreto dignità.

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