27/06/2018 – Non è vincolando il tempo determinato che si incentiva quello indeterminato

Non è vincolando il tempo determinato che si incentiva quello indeterminato

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

Un contratto a tempo indeterminato è per sempre, come un diamante? Se la risposta fosse affermativa, potrebbero risultare comprensibili i continui dibattiti sulle regole di disciplina del contratto di lavoro. Il fatto è che, tuttavia, questi dibattiti paiono sviare dalle questioni più concrete e serie: cioè, se il sistema economico nel suo complesso risulti davvero in quella fase di ripresa tale da consentire alle aziende di investire a lungo termine e, quindi, attivare contratti a tempo lungo, da un lato; e, dall’altro, quali interventi di sostegno alla fase di transizione tra un lavoro (a termine o non) attivare, cioè quali politiche attive realizzare e, infine, porsi la domanda se e quali modifiche al sistema previdenziale occorre disporre, sia per assicurare le tutele ai disoccupati, sia per agevolare la costruzione di una pensione per il futuro.

Perché, per legge si possono imporre tutti i vincoli del mondo al tempo determinato, ma se le aziende non leggono nel mercato le condizioni per investimenti di spesa a lungo termine, comunque continueranno a utilizzare contratti di durata compatibile con la visione di limitato periodo della propria attività produttiva.

A ben vedere, dopo il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in realtà il contratto a tempo indeterminato non è affatto per sempre. L’unica differenza col contratto a termine sta nel prefisso semantico “in”, che differenzia l’aggettivo “determinato” dall’aggettivo “indeterminato”.

Nel contratto a tempo determinato, le parti conoscono prima il tempo in cui l’efficacia del contratto spirerà. Nel contratto a tempo indeterminato, le parti non conoscono esattamente se e quando il contratto cesserà di produrre effetti. Ma, con l’eliminazione dell’articolo 18, nella realtà il datore di lavoro potrebbe riservarsi sempre di interrompere per ragioni di natura produttiva il rapporto di lavoro, così da rimediare per tempo ad un investimento sul lavoratore potenzialmente a lungo termine, ma che non regge rispetto ai volumi previsti di produzione e fatturato.

Perché, allora, il tempo determinato continua a prevalere nel flusso dei rapporti? Oltre alle ragioni connesse alla situazione economica ancora tutt’altro che brillante, è un problema di costi, evidentemente. È pur vero che i contributi per la disoccupazione nel caso del contratto a termine sono del 3,01% (1,40% in più del tempo indeterminato). È altrettanto vero, però, che la risoluzione anticipata del contratto a tempo indeterminato costa ben di più, visto che il licenziamento anticipato, sulla base del contratto a “tutele crescenti”, impone il pagamento di un minimo di 4 mensilità.

Le imprese sanno fare bene i propri conti e, dunque, anche se il Jobs Act ha inteso spingere il tempo indeterminato “liberalizzando” i licenziamenti, il costo delle tutele crescenti risulta piuttosto più alto della risoluzione del rapporto per conseguimento del termine. Anche perché si evitano ulteriori costi di eventuali procedure giurisdizionali.

Inoltre, se le attività lavorative oggetto del contratto risultino non particolarmente specializzate e professionalizzate, le imprese potranno contare su un tasso di fungibilità dei lavoratori piuttosto alto e non dovranno rischiare di continuare a rinnovare il rapporto a termine con lo stesso lavoratore oltre il limite dei 36 mesi.

L’ulteriore intervento, quindi, previsto dal “decreto dignità” finalizzato a disciplinare ancora una volta il contratto di lavoro, senza che si intervenga sulle condizioni economiche, probabilmente resterà privo di efficacia, se l’obiettivo è ancora quello enunciato dal Jobs Act e cioè di rendere il tempo indeterminato la forma contrattuale prevalente.

Al contrario, la reintroduzione delle cause giustificative, sia pure riferite solo al primo “rinnovo” e definite in via tassativa, rendono attuale il rischio di riprodurre il contenzioso sulla liceità dei rinnovi o, al più, laddove le mansioni lavorative risultino meno qualificate, di rendere ancora più veloce il tasso di sostituzione tra un dipendente e un altro, con il possibile paradosso dell’ulteriore aumento del numero dei contratti, simmetrico ad una riduzione della loro durata.

Peraltro, caro Titolare, è anche piuttosto strano parlare di “rinnovo”, istituto che presuppone l’assoluta identità tra un primo contratto ed uno successivo, se il contratto “rinnovato” si debba basare su cause giustificative non considerate (e, quindi, possibilmente anche inesistenti) al momento della prima assunzione.

Resta, in ogni caso, fermo il problema dei problemi: pensare di incrementare il numero dei contratti a tempo indeterminato o, più ancora, il numero degli occupati per decreto. È una strada molto seguita fino ad oggi: Ella, Titolare, ne ha mai visto lo sbocco?

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