17/12/2018 – Riforma della PA, ancora e sempre le stesse idee fallimentari

Riforma della PA, ancora e sempre le stesse idee fallimentari

 

E così anche il disegno di legge delega “Per il miglioramento della Pubblica Amministrazione” ha preso corpo.

A leggerlo, chiunque conosca la travagliatissima stagione dei quasi 30 anni di riforme della pubblica amministrazione, non può che restare sgomento, di fronte alla coazione a ripetere sempre e costantemente le stesse idee fruste, vetuste, ritrite, vecchie, fallimentari, che ritornano in un continuo circolo vizioso.

Sembra che il tempo si sia fermato a due eventi: la riforma Bassanini e la riforma Brunetta, tanto che qualsiasi altra riforma altro non è nella sostanza se non una riformina bassaninina e brunettina, un cocktail che prende un po’ qua e un po’ là le idee contenute in quelle due pietre miliari del riformismo all’italiana del tutto vano e rovinoso. Di quelli che produce disastri come la riforma delle province, per capirsi.

E’ evidente che si pone un problema piuttosto grave di staff. La continuità nella riproposizione delle stesse misure, più o meno annacquate e più o meno in contraddizione tra loro (ruolo unico della dirigenza sì, poi no, poi forse, mobilità senza nulla osta sì, poi no), a prescindere dalla persona che occupa il ruolo di Ministro a Palazzo Vidoni ed a prescindere dalla formazione politica di cui è espressione, a questo punto svela che vi sono consulenti e componenti della struttura fermi alla riproposizione ossessiva di questi e soltanto questi temi, configurandola sempre come la grande riforma della PA, a disdoro degli anni ed anni in cui si è dimostrata la totale inefficacia di queste idee.

Guardiamo la prima delega, relativa alle modalità di accesso al pubblico impiego. Come criterio di delega, per “migliorare” la PA si prevedono “prove differenziate, di tipo teorico e pratico, in relazione alle professionalità da reclutare e orientate a selezionare i candidati migliori sulla base delle competenze possedute”. Ma, chi scrive questi criteri ha mai fatto parte di una commissione di concorso? Gli è noto che da oltre 25 anni è esattamente così che le prove sono condotte? E, poi, quale sarebbe la scoperta che il concorso dovrebbe selezionare i candidati migliori?

Inevitabilmente, accanto ai cascami bassaniniani e brunettiani non possono non emergere acquisizioni più recenti dell’amministrativismo all’amatriciana, come l’accentramento procedurale. Non essendo ancora chiaro che per gli appalti pubblici una delle idee maggiormente fallimentari è costituita esattamente dalla riduzione delle stazioni appaltanti e dall’accentramento delle procedure (cosa che favorisce casi clamorosi di mala amministrazione come il caso del facility management della Consip), si intende ripetere questo schema controproducente anche per i concorsi. La delega vuole spingere le amministrazioni al concorso unico anche per tutte le amministrazioni locali. Per fortuna, si pensa di agire con incentivi e non mediante imposizioni. Ma, l’idea di fondo è il caricamento di decisioni e competenze presso il centro, come se l’accentramento fosse la soluzione al problema della selezione. Che certamente ha necessità di criteri standard, ma non può non conformarsi ad esigenze operative, di tempistica e di programmazione locali, che un apparato unico ben difficilmente potrà garantire.

E, come per gli appalti, il disegno di legge immagina un albo nazionale dei componenti delle commissioni di concorso: la ripetizione del collo di bottiglia procedurale, nel quale nel 2019 inevitabilmente si strozzeranno le procedure di appalto.

L’articolo 3 “scopre” un altro tema “inedito”: il “merito” e la “premialità”. In effetti, in questi anni non se ne è mai parlato.

Nella pubblica amministrazione sono proprio mancate, leggi, decreti, regolamenti, commissioni, autorità, nuclei, che si occupassero del “merito” e della “performance”.

Ancora si torna su un tema, che ingabbia da anni le amministrazioni nella creazione di una complessa documentazione contrattuale e regolamentare, a costituire e remunerare gli organismi indipendenti di valutazione, di attivare il “ciclo della performance”, irto di documenti, allegati, afflitto da scadenze, revisioni, aggiornamenti, composto da modalità complicatissime e capillari per riconoscere il “merito” attraverso una “premialità” che, alla luce della realtà dei fatti, si traduce in un compenso lordo medio annuo di circa 2000 euro.

Un sistema bizantino, farraginoso e costosissimo per “premiare il merito” che nel privato nessuna azienda si sognerebbe mai.

Eppure, anche nel 2018, ancora nel 2018, si insiste su questa strada. E anche in questo caso con l’accentramento che intaserà immancabilmente tutto. Infatti, i criteri di delega immaginano un “Sistema nazionale di valutazione della performance coordinato dal Dipartimento della funzione pubblica, finalizzato anche all’individuazione e condivisione delle buone pratiche in materia di gestione del ciclo della performance”. Facile pensare subito all’infelice e tragicomica esperienza della Civit, affondata poco dopo la sua nascita, senza che alcuno abbia traccia del lavoro svolto.

E poiché la “produttività” del lavoro pubblico si continua a comparare con quella del sistema privato, senza riconoscere la differenza profonda dei due sistemi, per l’ennesima volta si pensa all’utilizzazione “di soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, in possesso di una comprovata competenza in materia di organizzazione amministrativa e di gestione delle risorse umane”. Come se le migliaia di costosi “consulenti esterni” esperti di aziendalismo non avessero in questi anni, dall’alto della loro “competenza in materia di organizzazione” prodotto il nulla di concreto, che induce ogni sei mesi qualsiasi Governo a riformare la riforma della riforma della riforma del sistema di valutazione, per produrre, come detto sopra, alla fine solo una riformina brunettina e poco più.

Il sistema dovrà “rendere effettiva la confrontabilità della performance organizzativa delle amministrazioni attraverso la definizione di indicatori comuni, anche allo scopo di individuare le migliori pratiche e favorire la loro diffusione”. Ottima idea. Identica pensata contenne nel 2009 il d.lgs 150/2009. A che serve ripetere continuamente questi archetipi? Perché non metterli in piedi, una buona volta?

La risposta a questa ultima domanda è semplice. Perché il legislatore, ancora una volta, invece di badare al contenuto, insegue il contenitore. Non si pensa a cosa valutare, ma al metodo, alla consulenza, alla procedura, all’iter.

Siamo ancora avvolti nella fiction modello delle pubblicità anni ’80 e ’90 piena di finti manager che brindano col whisky dopo aver affermato “abbiamo l’esclusiva” in una “Milano da bere”, nella quale le donne, nel trucco e nel profumo, cercano la performànce, “perché io valgo”. Un ritratto del mondo, del lavoro figlio di un trentennio di illusione sociale, televisiva e giornalistica e, comunque, lontanissimo dalle concrete questioni concernenti la pubblica amministrazione.

Essa non è un corpo unico. Anche un ente considerabile univoco, come il comune, in realtà è una struttura complessa, chiamata ad esercitare una quantità enorme di competenze e funzioni diversificate, cosa che mai nessuna azienda, perfino una multinazionale affronterebbe mai.

Ancora, si ripete allo sfinimento che il dipendente pubblico sia da incentivare con lo zuccherino della produttività. Insufflando sempre e costantemente la convinzione, nei dipendenti stessi ma soprattutto nei cittadini, che il buon andamento, l’efficienza, lo svolgimento corretto dei compiti siano condizionati dal premio finale. I cittadini, quindi, sono portati a pensare che il dipendente gestisce ed agisce solo in funzione del “premio”. I dipendenti pubblici sono continuamente immersi in strategie che, lungi dall’essere realmente premiali ed incentivanti, finiscono per essere una spinta a gareggiare tra loro all’arma bianca per dividersi somme che nel privato attribuiscono senza fatica alcuna con la quattordicesima e con gli scatti di anzianità. Il tutto, creando, oltre al caos dei sistemi di valutazione macchinosi, complesse e conflittuali relazioni sindacali e rivalità interne, il cui frutto tutto è, salvo la maggiore produttività.

Tanto da aver indotto il legislatore a forzare il sistema e far figurare comunque una diversificazione obbligatoria in dipendenti bravi, medi e scarsi: le famose tre fasce di Brunetta, mai entrate in vigore, ma mai uscite dallo schema mentale di chi insiste a proporre queste riforme.

Lo abbiamo già scritto e lo ripetiamo: “nel sistema privato, sempre preso a riferimento, parametro e confronto per discettare di lavoro pubblico, le cose stanno così? Cioè, l’assegnazione del salario di produttività deve essere collegata necessariamente a complessi progetti da cui discenda l’incremento dei servizi erogati, o comunque una prestazione lavorativa maggiore ed ulteriore a quella ordinariamente richiesta al lavoratore, tale, per altro, da imporre una differenziazione globale così minuta da escludere attribuzioni di premi “aziendali”, per riferirli quasi al livello di singolo dipendente?

Diremmo proprio di no. Per convincerci, basta dare un’occhiata attenta al decreto del Ministero del lavoro 25 marzo 2016, attuativo dell’articolo 1, comma 182, della legge 208/2015, che ha reintrodotto gli sgravi appunto per il salario “di produttività”. Detto decreto in allegato approva una scheda di monitoraggio delle caratteristiche dei contratti aziendali, per valutare se essi abbiano i requisiti perché le aziende possano accedere agli sgravi. La Sezione 6 di questo modulo, titolata “Indicatori previsti nel contratto” è molto istruttiva, perché contiene 19 possibili indicatori: eccoli:

1) Volume della produzione/n. dipendenti

2) Fatturato o VA di bilancio/n. dipendenti

3) MOL/VA di bilancio

4) Indici di soddisfazione del cliente

5) Diminuzione n. riparazioni, rilavorazioni

6) Riduzione degli scarti di lavorazione

7) % di rispetto dei tempi di consegna

8) Rispetto previsioni di avanzamento lavori

9) Modifiche organizzazione del lavoro

10) Lavoro agile (smart working)

11) Modifiche ai regimi di orario

12) Rapporto costi effettivi/costi previsti

13) Riduzione assenteismo

14) N. brevetti depositati

15) Riduzione tempi sviluppo nuovi prodotti

16) Riduzione dei consumi energetici

17) Riduzione numero infortuni

18) Riduzione tempi di attraversamento interni lavoraz.

19) Riduzione tempi di commessa.

Come si può agevolmente notare, il decreto individua indicatori di produttività che, per la maggior parte, si estendono alla totalità dell’azienda e, quindi, ai dipendenti: ne sono un chiaro segno i punti 1, 2, 3, 7, 8, 12, 13, 16, 18 e 19. Vi sono, poi, indicatori più specifici, ma sostanzialmente il decreto punta su rapporti tra risorse e prodotti.

Se un ente locale prevedesse nel proprio contratto decentrato un criterio come quello della riduzione dell’assenteismo o della riduzione degli interventi correttivi sugli atti (parallelo alla riduzione degli scarti di lavorazione), probabilmente nessuna ispezione e nessuna procura della Corte dei conti, ma neanche l’Aran, glielo perdonerebbe e si attiverebbero, con tuoni e fulmini, procedure per danno erariale e restituzione del salario accessorio.

Certo, occorre maneggiare la produttività nel lavoro pubblico con estrema cura, perché si tratta di risorse pubbliche. Ma, non è da dimenticare che anche gli sgravi alle aziende per il salario di produttività sono risorse pubbliche, corrispondenti a minori entrate di imposte. Non si capisce, dunque, perché a parità di natura pubblica delle risorse gestite, la concezione di salario di produttività nel lavoro pubblico debba essere oggetto di bizantine contorsioni acrobatiche, mentre nel sistema privato si ha la capacità piena di individuare la produttività per quello che. A tacere, per altro, del fatto che spessissimo i contratti aziendali connettono la produttività banalmente alla presenza in servizio, alle ore di lavoro prestate ed agli straordinari (basta dare un’occhiata in rete agli accordi stipulati), cosa che nel lavoro pubblico desterebbe solo l’ira funesta dei numi.

La speranza (certamente vana) allora è che accanto alla voglia di fare riforme sempre “epocali”, qualcuno abbia la curiosità di guardare davvero nel dettaglio ciò che si fa nel privato e non si lasci trasportare dal sentito dire, per rivedere i sistemi di valorizzazione della produttività alla luce dei semplici e chiari strumenti utilizzati nel sistema privato appunto, abbandonando le contorsioni normative, che fin qui hanno solo prodotto contenziosi e sanatorie (per altro mal riuscite)”.

Invece di cercare Nuclei, Autorità, Sistemi e fantasie varie, basterebbe riavvolgere il nastro. Ricordarsi e ricordare che per un dipendente pubblico il primo incentivo è quello di essere un servitore dello Stato a servizio della collettività. Il compimento delle proprie attività è un dovere, non un sinallagma per un premio. Non che non si debbano introdurre strumenti di incentivazione. Ma bisognerebbe finirla con lo scimmiottamento, mal fatto, del privato, che non ci pensa nemmeno ai bizantinismi normativi ed in modo estremamente pragmatico lega i premi a concreti elementi di produttività (maggiori output rispetto agli input, a partire da specifici dati di base) e sulla base di pochi e decisivi strumenti, connettendo il premio individuale essenzialmente, poi, alla presenza in servizio.

La legge delega continua, invece, la predicazione di fronte al totem dell’ “obbligo di procedere ad un’adeguata differenziazione delle valutazioni”. Resta quindi permanente la confusione tra un esito possibile, la differenziazione, ed un obiettivo. La “differenziazione” secondo lo schema brunettiano, deve essere obbligatoria; sicchè nella logica della pubblica amministrazione non potrà che tradursi in procedura e forma, senza sostanza. Senza nemmeno la possibilità di chiedersi perché mai se un gruppo di lavoro ottiene come gruppo un risultato, necessariamente si deve ricorrere a strumenti divisivi.

Eppure, la riforma Brunetta ed anche i recenti contratti collettivi nazionali un metodo di differenziazione utile lo hanno: il premio per poche, e dunque riconoscibili e dimostrabili, eccellenze. La differenziazione non dovrebbe essere un esercizio statistico (memorabili sono i pareri dei consulenti e a suo tempo anche della Civit, tesi a misurare la capacità di differtenziazione mediante il sistema dello scarto quadratico medio, come se la valutazione alla fine altro non fosse che un esercizio statistico-matematico).

La coazione a ripetere talvolta anche rende anche più pesanti e complesse le procedure. Il disegno di legge contempla anche la delega a predisporre “concorsi per titoli ed esami riservati al personale dipendente con le valutazioni migliori nell’ultimo triennio”. Ma, come è possibile immaginare concorsi riservati in un sistema centralizzato? E in un concorso centralizzato come si fa a qualificare le valutazioni migliori, senza aver prima definito un modello unico di valutazione? Ma un modello unico è realmente esportabile in un comune, come in un’autorità portuale, come all’Inps?

C’è, ovviamente, anche una delega per la riforma della dirigenza. Il disegno di legge rinuncia alla follia del ruolo unico ed alla precarizzazione incostituzionale degli incarichi, con evidenti profili di politicizzazione della dirigenza, propri della riforma Madia.

Anche in questo caso si pensa alla centralizzazione dei concorsi, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione. Ma, per quanto concerne la dirigenza, potrebbe trattarsi di una scelta corretta. Sempre che l’ente sia rafforzato adeguatamente. Un contro è operare per selezionare le dotazioni ministeriali, circa 4000 dirigenti, altro è estendere l’attività agli altri circa 26.000 ruoli dirigenziali, non contando ovviamente i dirigenti medici che costituiscono la parte preponderante della dirigenza pubblica.

Certo, qualche allarme desta il criptico criterio connesso al delicatissimo tema del conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, secondo il quale la legge delegata dovrà “ridefinire i criteri, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, di rotazione, di parità di genere e di valorizzazione del merito, favorendo lo scambio di esperienze e la crescita professionale del dirigente”. E’, come si nota, una formula astratta, se non vuota, nella quale può esservi tutto ed il suo contrario, quindi non è dato comprendere esattamente verso quale direzione la riforma andrà. Sappiamo dalla bozza di ddl, però, che, la legge delega dovrà “prevedere la possibilità di rinnovare, in deroga agli obblighi di pubblicità previsti dall’articolo 19, comma 1-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per una sola volta, l’incarico a condizione che sussistano tutti i seguenti presupposti:

3.1 alta specializzazione dei compiti dell’ufficio da ricoprire;

3.2 elevata competenza professionale dell’interessato;

3.3 livello significativo dei risultati conseguiti dall’interessato nell’espletamento dell’incarico

Dal che si può desumere, a contrario, il ritorno all’enfatizzazione della rotazione tanto per rotare come criterio obbligatorio del conferimento degli incarichi, in un tourbillon continuo ed assurdo, perché ovviamente slegato dalla valutazione e dai suoi esiti, in totale incoerenza con i predicati connessi alla “premialità”; e possiamo anche dedurre che il legislatore delegato dovrà stabilire che comunque i dirigenti potranno avere un certo incarico solo per una volta e per un giro. Problemi di precarizzazione e politicizzazione usciti dalla porta, grazie al flop della riforma Madia, potrebbero rientrare dalla finestra.

Sul tema della precarizzazione, incide ovviamente quello connesso degli “incarichi a contratto”: questi, misti allo spoil system, sono alla base della possibilità di creare una dirigenza reclutata per “fedeltà” piuttosto che per competenza. Lo schema di ddl anche in questo caso enuncia un criterio criptico, quasi in bianco: “modificare la vigente disciplina in materia di conferimento degli incarichi ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione, assicurandone l’omogeneità nei vari settori anche relativamente alle quote percentuali di dotazione organica, nel rispetto del principio dell’adeguata valorizzazione delle professionalità interne e della conferibilità degli incarichi soltanto laddove non sia possibile rinvenire le occorrenti competenze all’interno dell’amministrazione”. La disciplina vigente, infatti, può essere modificata ampliandola o restringendola. L’ottimo sarebbe abolirla, ma non appare affatto questo l’intento del legislatore.

Fantastica, poi, è la sempre più accentuata propensione del legislatore a creare fattispecie di responsabilità oggettiva, come col seguente criterio di delega, indirizzato a creare un capro espiatorio: “qualificare, anche sulla base di quanto accertato dai sistemi di valutazione, come ipotesi di responsabilità sia disciplinare che dirigenziale le fattispecie di assenteismo, anche del personale assegnato, di scarsa produttività o di inefficiente organizzazione delle risorse a disposizione”.

Degni di nota appaiono due criteri di delega sulla materia dei principi direttivi in materia di rapporto di lavoro alle dipendenze della PA. Il primo riguarda la mobilità: “semplificare e omogeneizzare le procedure di mobilità volontaria, anche limitando le ipotesi di obbligatorietà di espletamento preventivo rispetto alle nuove assunzioni, ed escludendo il rilascio del nulla osta da parte dell’amministrazione di appartenenza e fermo restando l’obbligo di permanenza nella sede di prima assegnazione previsto dall’articolo 35, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001”.

L’idea francamente assurda dell’eliminazione del nulla osta, come si ricorda, era stata accarezzata nel 2014 dalle bozze della prima riforma Madia, quella che introdusse l’ipotesi della mobilità d’ufficio entro i 50 chilometri. Poi, saggiamente, se ne fece a meno. Si comprese che trasformare la mobilità in una sorta di diritto potestativo del dipendente, creerebbe un caos operativo ingestibile. Le amministrazioni non potrebbero mai contare su un assestato contingente di dipendenti, sperperando risorse nella formazione e nell’esperienza. Certo, la mobilità è utile per la migliore collocazione logistica dei dipendenti. Ma, attivare un sistema incontrollato nel quale le amministrazioni finiranno per rubarsi tra loro i dipendenti è davvero quanto di meno “aziendalistico” e attento alla “performance” si possa immaginare. Eppure, riecco qui, appare nuovamente un’idea alla quale evidentemente a Palazzo Vidoni non si riesce a rinunciare.

Seconda previsione degna di nota, quella secondo la quale dovrà essere risolto il rapporto di lavoro per i dipendenti in disponibilità se nel corso dei 24 mesi di iscrizione nelle liste rifiutino due proposte di ricollocazione presso altri enti. Sembra riecheggiare qualcosa del progetto del reddito di cittadinanza, no? Peccato che il legislatore non preveda nulla per la diffusa omissione di pubblicità dei posti o l’abitudine, molto radicata e estremamente censurabile, delle amministrazioni di rinunciare a bandire concorsi, specie di livelli alti, appena apprendono che qualche dipendente sia nelle liste di disponibilità. Nessuno si è mai interessato di attuare la previsione contenuta nell’articolo 2, comma 13, del d.l. 95/2012: “La Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica avvia un monitoraggio dei posti vacanti presso le amministrazioni pubbliche e redige un elenco, da pubblicare sul relativo sito web. Il personale iscritto negli elenchi di disponibilità può presentare domanda di ricollocazione nei posti di cui al medesimo elenco e le amministrazioni pubbliche sono tenute ad accogliere le suddette domande individuando criteri di scelta nei limiti delle disponibilità in organico, fermo restando il regime delle assunzioni previsto mediante reclutamento. Le amministrazioni che non accolgono le domande di ricollocazione non possono procedere ad assunzioni di personale”. Questo sarebbe un sistema davvero efficace per la ricollocazione, ma da 6 anni nessuno si occupa di attuarlo. E si inseguono le fate delle proposte di ricollocazione.

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